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68 Maggio 2020
Monografia Covid-19. Quale futuro dopo la pandemia?

Convivere con Covid-19. Ovvero accettare la precarietà della vita

Il dopo Covid-19 appare un tempo che, draconicamente, possa separare un prima e un dopo. Quest’ultimo, il dopo, dovrebbe riportare alla mitica età dell’oro che, come civiltà occidentale, credevamo di aver il diritto di pretendere fino a pochi mesi fa. In mezzo, lui, il terribile virus che si è permesso di disturbare, picconandoli, i nostri sogni infantili del “andrà tutto bene”.

Far nascere nuove narrazioni di vita dalle difficoltà

Da quando l’emergenza pandemia è scoppiata, le date che avrebbero dovuto segnare la fine di questa situazione precaria si sono susseguite spostandosi sempre in avanti ma mantenendo un miraggio di sicumerica certezza. Il tempo sta dicendo che dopo ogni quarantena terminata si ripresenta lo spettro di una nuova che inizia… Cosa sappiamo del Coronavirus? Poco. Pochissimo. Certamente non abbastanza per averlo neppure posto sotto controllo. Pian piano le persone ragionevoli si stanno accorgendo che il dopo-Covid non sarà più un senza-Covid.

Dunque i governi e le comunità sociali come pure i singoli hanno davanti a loro l’opportunità di approfittare di questo per una nuova narrazione della vita e della storia oppure di rimettere la testa sotto la sabbia in attesa della prossima mareggiata.

Mareggiate nella storia se ne sono vissute tante. Risalendo solo agli ultimi decenni (che dovrebbero essere quelli più nitidi nella memoria e nella ferite della carne) non sono mancati crolli colossali a livello di conflittualità internazionali, politiche, sociali ed economiche (basti ricordare l’11 settembre 2001, il crac della Lehman Brothers nel 2008 quando ciò che sembrava infallibile si è frantumato, la vicenda della Cambridge Analytica). La salute dei singoli cittadini e degli Stati è, peraltro da sempre, periodicamente travolta da pandemie come Aids, tubercolosi, malaria oppure epidemie come l’influenza viaria, l’influenza suina, Ebola, Zika, Sars e Mers.

Le domande si moltiplicano e le risposte che non siano slogan da pifferai magici calano. Ai tempi del coronavirus la nostra esperienza di vita è dominata dall’incertezza. E l’incertezza aumenta l’ansia e riduce le capacità e possibilità di controllo ed azione. Essa conduce all’impotenza  e così, impotenti e sconcertati, ci interroghiamo.

Il rischio è alto. Quando, infatti, mancano le sicurezze e le certezze che sembravano incontrovertibili, c’è la forte tentazione di costruirsele creandosi logiche perfette nella loro illogicità, capri espiatori, elaborando stigma e generalizzazioni dogmatiche infondate con l’ausilio di proposte terapeutiche miracolose. Scaltri e coscienti ciarlatani plagiano anche le intelligenze più preparate.

Il fatto, sempre difficile non tanto da ammettere ma da accogliere nel tessuto connettivo della nostra identità umana, è che le malattie infettive rendono evidente la sola cosa di cui non vogliamo prendere coscienza davvero: la nostra comune vulnerabilità. Certamente una vulnerabilità fisica ma, più ampiamente, la nostra precarietà esistenziale. Non siamo dei. Nei secoli questa aspirazione sicumerica si è presentata con diversi travestimenti che hanno visto alterne fortune ma l’ultimo, quello della tecnologia, sembrava davvero essere il vincente. E il definitivo. Finalmente l’uomo era padrone di sé, del tempo e dello spazio. Ma qualcosa non ha funzionato. Qualcosa non funziona, prima che nei risvolti concreti, in questo paradigma di riferimento.

Responsabilità etica globale

Quando il problema è complesso l’impegno etico rimanda ad un risveglio delle coscienze per promuovere progetti concreti che favoriscano cambiamenti altrettanto concreti. La salute è da sempre un bene indispensabile per il singolo e per la comunità tutta. Investire su ciò che la preserva e protegge è decisivo. Tuttavia non è un aspetto isolato. Entra nella visione della salute dell’ambiente, delle relazioni, del rapporto con l’esistenza e con la morte.

Questo chiede una conversione etica. Si rende, cioè, imprescindibile l’assunzione del fatto che la nostra conoscenza è sempre parziale. E questo comporta l’impegno ad accettare ed elaborare la frustrazione che ne deriva.

Questo però chiede anche una conversione religiosa. Un cambio di sguardo. Se con il peccato entra nel mondo l’angoscia della morte è perché il peccato ti fa credere di essere dio e così ti illude di essere immortale. Guardi alla morte come un fatto eccezionale, una punizione e, dunque, tu non puoi morire. L’angoscia soffoca qualcosa che può invece svelare la giusta ermeneutica della vita. Quella in cui c’è un tempo per tutto: per lasciare le fragili sicurezze e per rilanciare un futuro ed  entrare nella meraviglia della novità di Dio.

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