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Embrioni manipolati, corsa senza scopo

04 Febbraio 2016

L’Authority inglese per l’embriologia umana (Hfea) ha appena autorizzato un gruppo di ricercatori del Francis Crick Institute a manipolare geneticamente embrioni umani. Si tratta dell’applicazione della tecnica nota come gene-editing, con cui è possibile modificare selettivamente il Dna, andando a “tagliare e cucire” il genoma in punti stabiliti, eliminandone parti precise ed eventualmente sostituendole con altre.

Una nuova procedura – Crispr-Cas9 è la sua impronunciabile sigla – molto più accessibile di analoghe già esistenti, per l’obiettivo di sempre della terapia genica: correggere le anomalie del Dna responsabili di patologie genetiche tuttora incurabili.

Abbiamo già detto più volte su Avvenire degli interrogativi sollevati dalla comunità scientifica internazionale che ha chiesto, con toni diversi ma condividendo una preoccupazione comune, di fermarsi a riflettere prima di applicare la tecnica su gameti ed embrioni umani: utilizzare il <+Ev_cors>gene editing<+Ev_testo> per modificare il Dna di esseri umani appena concepiti, o per disegnare un nuovo Dna per vite umane ancora da concepire, rende queste modifiche irreversibili nei nati ed ereditabili dai discendenti.

Scientificamente è una procedura molto promettente ma ancora estremamente imprecisa. Esperimenti resi noti da studiosi cinesi la scorsa primavera – dei quali riviste come Science e Nature hanno rifiutato di pubblicare i risultati – mostrano che gli embrioni umani sottoposti a gene editing sono risultati in gran parte geneticamente modificati in modo diverso rispetto a quanto pianificato dai ricercatori: mutazioni impreviste, imprevedibili e dalle conseguenze sconosciute che di per sé sono sufficienti a spiegare quanta strada ancora c’è da fare nei laboratori.

Enormi le problematiche etiche: una volta perfezionata la tecnica, quale sarà il suo ambito di applicazione? Dove tracciare il limite fra modifica del Dna a scopo terapeutico – eliminare le anomalie genetiche responsabili di patologie ereditarie – e manipolazione genetica per “migliorare” la razza umana, trasformandone irreversibilmente i connotati? Chi potrà decidere: il mercato? La politica? La ricerca?
Su queste immense domande alcune fra le più importanti associazioni di studiosi si sono autoconvocate i primi di dicembre a Washington, nell’«International summit on human gene editing»: nella dichiarazione finale, si dice «irresponsabile» un uso clinico del gene editing su gameti ed embrioni, finché non sia raggiunto un grado sufficiente di sicurezza sanitaria e di consenso sociale sull’appropriatezza delle applicazioni. È stato inoltre istituito un gruppo di lavoro che nei prossimi mesi formulerà linee guida per la comunità scientifica.

Suscita quindi molte perplessità l’esperimento inglese appena autorizzato: si tratterebbe di una ricerca su embrioni umani donati da persone sottoposte a fecondazione assistita. Con il gene editing si dovrebbero alterare uno a uno geni diversi per individuare quelli che possono interferire con lo sviluppo degli embrioni stessi: questi possono essere modificati fino a sette giorni di vita, ma non essere poi trasferiti in utero.

Perplessità, dicevamo, perché se la tecnica è ancora così imperfetta nel “tagliare e cucire” il Dna nel modo voluto, che senso ha proporre un esperimento che, almeno secondo quanto riferito dalla stampa, si basa sulla precisione del “taglia e cuci”? Se non siamo sicuri di dove e cosa si taglia e si cuce, perché pianificare una ricerca i cui risultati si basano sull’ipotesi che il “taglia e cuci” sia stato fatto nei punti voluti, e con gli effetti voluti? Insomma: se il gene editing deve ancora funzionare, perché autorizzare subito, allo stato attuale delle conoscenze, un esperimento di editing genetico sugli embrioni umani, presentandolo come se già funzionasse? D’altra parte, va chiarito che da un embrione geneticamente modificato di sette giorni di vita non si può dedurre con certezza se il gene editing è riuscito e se l’eventuale nato sarà sano. Piaccia o no, per saperlo è necessario trasferire gli embrioni manipolati in utero, portarli a nascita e seguirne lo sviluppo per alcune generazioni. Non c’è alternativa, al momento.

Se invece l’obiettivo è aumentare le conoscenze, in generale, allora si spieghi perché fermarsi solo a sette giorni di vita dell’embrione. Sicuramente seguire gravidanze di embrioni, e poi feti, geneticamente modificati dà moltissime informazioni, difficilmente ricavabili in altro modo.

Chi decide cosa fare, e se e quando fermarsi? Solo i ricercatori, che dipendono in tutto da chi li finanzia e a questi devono rendere conto? Tanta fretta nel manipolare per primi gli embrioni umani non è nuova per gli inglesi, ma non sempre funziona. Qualche anno fa Londra autorizzò la formazione di “chimere”, embrioni ibridi uomo-animale. È stato un fallimento scientificamente annunciato: nessuno ha voluto finanziare la ricerca, nonostante il <+Ev_cors>battage<+Ev_testo> mediatico internazionale, e la cosa è finita nel nulla. E Ian Wilmut, il “padre” della pecora Dolly, ha preferito mollare la clonazione per seguire il giapponese premio Nobel Shinya Yamanaka, che ha trovato un’alternativa alle embrionali studiando embrioni sì, ma di topo.
Cosa si vuole dimostrare, allora, e dove veramente si vuole arrivare nella corsa alla manipolazione genetica di esseri umani?

Assuntina Morresi
Fonte: «Avvenire»

Redazione Bioetica News Torino