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68 Maggio 2020
Monografia Covid-19. Quale futuro dopo la pandemia?

La speranza dal buio della notte

Da un po’ di tempo il colore del vento si tinge di muto grigiore. Nella notte infinita plumbee nubi offuscano la luminosità siderale delle timide stelle. Sul fiume livido beccheggiano indolenti gabbiani, scacciati dal cielo in cui imperversano tetri corvi che dondolano e volteggiano funestamente nell’aria. Poche, distanziate, persone procedono mestamente in fila, attendendo di entrare in farmacia o al supermercato. Indossano diligentemente mascherine scucite, sporche o consunte. Non si parla, si bofonchia. Anche senza quelle igieniche museruole, si procederebbe comunque in silenzio, sussurrando nella mente tristi pensieri: mancheranno presto risorse umane negli ospedali; quelle materiali e i rifornimenti già scarseggiano…

Non abbiamo terapie specifiche adeguate e ignoriamo i loro effetti collaterali a lungo termine; se mai dovessimo scampare al virus, soccomberemmo alla crisi economica conseguente;  stiamo rinunciando alle nostre ambite libertà individuali.

Eppure…

Eppure, in questa primavera novembrina qualcosa sommessamente si desta dal suo egro torpore. Negli abbandonati parchi cittadini la natura si rimpossessa dei profumi che le competono. Vaghi fiori germogliano sprigionando vividi colori. Sono i colori di sempre, che non siamo più abituati ad apprezzare. Sono i colori dell’arcobaleno che compare dopo le più violenti tempeste. Quegli arcobaleni che campeggiano dai pochi balconi abitati da bambini. Gli unici a cui il sorriso non si spegne. Alla sorgente di quegli arcobaleni, come nelle leggende irlandesi,  c’è un tesoro nascosto: “tutto andrà bene”. Un’espressione declinata al futuro che necessita di allignare nel presente per assumere un significato autentico.

Un futuro che per avere un senso deve poter confidare già nel presente. Siamo una società industriale, informatizzata, consumistica, non più avvezza alla lentezza, dimentica della pazienza contadina, incapace di attendere la crescita di un seme, deposto nelle pieghe della terra. Ma è proprio nelle lacune della scienza medica, nelle crepe delle nostre macchine organizzative, nei vuoti normativi, nelle fessure dell’esistenza che può crescere quel seme chiamato speranza. Per Virgilio l’ultima dea cui intercedere; il bene estremo, quello remoto, rimasto nel vaso di Pandora, dopo le afflizioni profuse ai mortali, nel mito di Prometeo. Nelle lingue classiche, sperare regge logicamente una frase subordinata coniugata al futuro. Per i Greci antichi, poi, il corrispondente lemma è privo della sua forma al perfetto: non esiste il tempo “ho sperato”, il senso deve orientarsi al domani e non deve concludere l’azione dello sperare. Se speri continui a farlo, altrimenti assume un altro significato.

Che cosa possiamo sperare, si chiedeva Kant: perché non possiamo sperare mi domando io, infermiere, guardando negli occhi i malati oncologici, prima, e gli anziani in terapia intensiva ora? Perché dobbiamo rassegnarci alla compiutezza della vita? La nostra? Perché non ci dovrebbe essere dato esigere qualcosa di più? Perché pur nella nostra creaturale fragilità, nella nostra fisiologica vulnerabilità, non dovremmo meritare di più? Perché negarsi di conservare con cura quel piccolo seme. Riposto chissà dove, forse smarrito, ma non perduto. Ѐ un seme delicato, che richiede l’impegno costante, individuale e collettivo. Di ognuno di noi. Perché prezioso come e più della vita stessa. Nutrito dall’amore, di cui è il presupposto fondamentale. Non importa se ne ricerchiamo le giustificazioni ontologiche in una cornice di pensiero materialista o spirituale, immanente o trascendente. Ognuno la ricerchi dove vuole, ma sappia che essa è connaturata all’uomo, è ciò che ci qualifica e ci determina.

Ecco perché, nonostante tutto, non possiamo non sperare. Finché rimarremo uomini, questo è il nostro dovere. Per noi stessi e le generazioni future. Sperare significa smettere di fare i figli e assumere finalmente il ruolo di padri. Rifuggendo l’ostinazione illusoria, l’auspicio formale, l’augurio senza nerbo e convinzione. Sperare significa muoversi sul viscido terreno dell’incertezza ricercando la verosimiglianza. Sognare senza vaneggiare, credere senza idolatrare. Sperare significa fortificarsi nell’attesa: cercando una fiaccola, che può affievolirsi con l’impeto dei proclami e delle promesse, ma che solo il sussurro, il soffio delicato, lo spirito della vita potrà alimentare.

 

© Bioetica News Torino, Maggio 2020 - Riproduzione Vietata