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20 Giugno 2014
Bioetica News Torino Giugno 2014

Notizie dal Mondo

Germania: entra in vigore la legge sul “parto confidenziale”

1 maggio 2014

Il Parlamento tedesco ha licenziato l’anno scorso, dopo vari tentativi di regolamentazione, una legge detta del “parto confidenziale” che entra in vigore il 1° maggio 2014. La legge ha come scopo, da un lato, di proteggere le donne che vogliono comunque portare a termine la gravidanza ma restare anonime al momento del parto; dall’altro assicura che il bambino compiuti i 16 anni potrà conoscere il nome della madre. La norma prevede che i dati della donna siano presenti in un certificato di origine che verrà conservato sigillato presso l‘Ufficio federale delle responsabilità familiari e civili. Il ragazzo – e solo lui – potrà accedere ai dati.

La legge tenta di dare una risposta al centinaio di nascite anonime con abbandono post natale che avvengono ogni anno in Germania. Due terzi dei nati sono tenuti negli ospedali, mentre il restante terzo viene collocato nei Babyklappen (sportelli per bambini), moderne ante riscaldate, che rimandano tristemente alla antica tradizione della “ruota”, e che la legislazione tedesca ancora tollera in una situazione di ambiguità giuridica. La legge del “parto confidenziale”, comunque, tiene conto sia della situazione di emergenza delle donne per minacce, salute, situazioni controverse; sia del diritto del bambino a conoscere la sua origine. Le spese sostenute per i casi previsti di “parto confidenziale” sono assunte dal governo federale.

(Fonte: «Sir»)

L’animale più pericoloso della Terra? La zanzara. Parola di Bill Gates

2 maggio 2014

La giornata mondiale contro la malaria che si è celebrata lo scorso 24 aprile è stata l’occasione per Bill Gates di lanciare un’iniziativa originale nel panorama delle petizioni e delle sottoscrizioni online. Per una settimana GatesNotes, il blog dell’ex numero uno di Microsoft, sarà dedicato completamente alla zanzara. Il perché è presto detto: nonostante tutti gli sforzi che si sono fatti in questi anni, non ultimi quelli della stessa Bill and Melinda Gates Foundation, la zanzara che porta la malaria è ancora oggi il singolo animale che miete più vittime tra gli esseri umani. Lo mostrano in maniera molto evidente i dati dell’Organizzazione mondiale della Sanità che lo stesso Gates ha pubblicato: dopo averla vista, leoni e squali sembrano dei killer dilettanti.

L’aspetto più impressionante è che la malaria uccide molto di più di quanto riesca a fare anche l’uomo. Lo racconta nei suoi incontri in pubblico anche Martin Edlund, CEO dell’ong Malaria No More: «La malaria è la più letale tra le singole cause di morte». Con un impatto grandissimo soprattutto nei Paesi più poveri e costante nel tempo.

Secondo i dati dell’OMS (World Malaria Report), nel 2012 la stima di morti per la malaria va da un minimo di 473 mila a 789 mila esseri umani, che comprende anche la stima usata da Gates nel suo grafico. Il singolo numero usato dall’OMS è 627 mila vittime: come se ogni anno se ne andasse una città un po’ più grande di Genova.

Il dato più scoraggiante è nella percentuale di morti che riguarda i Paesi dell’Africa sub-sahariana: oltre il 90% del totale. Per questo motivo Bill Gates ha lanciato la provocazione su Mashable: facciamo più “settimane della zanzara”. In questo modo potremmo informare meglio e combattere più efficacemente la malaria. Perché come spiegava Martin Edlund, la malaria si può vincere con tecnologie semplici e investimenti limitati rispetto ad altre malattie. I farmaci per far guarire un bambino costano qualche dollaro e i test di diagnosi rapida (indispensabili in Africa) costano meno di un dollaro l’uno. Tecnologie semplici ma che possono salvare molte vite.

Marco Boscolo
(Fonte: «Wired»)

Eutanasia, medici olandesi contro obiezione coscienza farmacisti

2 maggio 2014

Medici contro farmacisti obiettori di coscienza e un partito ne propone l’abolizione. Il caso è scoppiato in Olanda ed è stato portato alla luce da un programma televisivo (Altijd Wat Monitor) in una puntata dedicata all’eutanasia, legale in Olanda. Secondo quanto emerso, sarebbero numerosi i farmacisti che si rifiutano di fornire i medicinali richiesti. Tra le motivazioni addotte alla base della scelta dell’obiezione di coscienza, motivi religiosi, per alcuni, ma anche la denuncia di un abuso della legge, applicata talvolta in casi sentiti come controversi, che riguardano, secondo quanto riportato da alcuni quotidiani, anche pazienti con demenza o malattie psichiatriche.

A puntare il dito contro l’obiezione di coscienza dei farmacisti sono i medici di una clinica che pratica l’eutanasia che lamentano il fatto che spesso i farmacisti si rifiutano di fornire le sostanze necessarie. Ma da un rappresentante dell’ordine dell’associazione dei farmacisti olandesi Knmp si rivendica il diritto all’obiezione: «Una farmacia non è un negozio dove si distribuiscono medicinali letali». E per i farmacisti l’eutanasia non va comunque banalizzata: spesso, raccontano, chiamano medici con cui non c’è mai stato un rapporto e richiedono di procurare il farmaco in fretta e furia. Quando si ha a che fare con problemi etici, è l’argomentazione dei farmacisti, occorre trovare un modo più consono. Ma da un partito è già partita la richiesta al ministero della Salute per riformare (e abolire) l’obiezione di coscienza.

(Fonte: «Farmacista 33»)

H24, per i generalisti Gb mina sicurezza pazienti

2 maggio 2014

Il “Challenge fund” da 50 milioni di sterline varato dal primo ministro britannico David Cameron, mirato a rendere aperti 7 giorni su 7 e 24 ore su 24 gli studi dei medici di famiglia (Gp), secondo il 58% dei Gp avrà un impatto “negativo o molto negativo” sulla sicurezza dei pazienti, con particolare riferimento all’attività chirurgica, contro un 17% convinto che il piano avrà un impatto “positivo o molto positivo”. Lo rivela un’indagine condotta su oltre 400 Gp relativa al piano varato all’inizio del mese che prevede il coinvolgimento di 1.000 ambulatori di medicina primaria con regimi pilota di accesso telefonico h24 ore via Skype per consulti veloci e possibilità di praticare interventi chirurgici anche nei weekend.

Non solo la medicina primaria ma anche il mondo accademico hanno messo in guardia sul fatto che regimi di accesso esteso accumuleranno lavoro aggiuntivo sulle chirurgie e potrebbero determinare la “conseguenza non intenzionale” di ridurre la qualità di cura del paziente. Richard Vautrey, vicepresidente della Commissione per i Gp della British medical association, ha sottolineato che i fondi per questo schema h24 sono garantiti solo per un anno e che quindi l’iniziativa va considerata come un “regime pre-elettorale” una tantum. «La sicurezza dei pazienti potrebbe essere compromessa se saranno trattati da medici sempre più stanchi e che non li conoscono realmente» ha aggiunto. «Per mantenere e aumentare la sicurezza degli assistiti abbiamo bisogno invece di un maggior numero di Gp e di più tempo da dedicare ai pazienti che presentano problematiche complesse. Ciò necessita incrementi sostenuti delle risorse anno per anno».

È stato anche fatto notare che non è stato chiarito se la medesima apertura 7 giorni su 7 sarà garantita pienamente anche dai laboratori di analisi e dalle radiologie. A difesa dell’iniziativa un portavoce dell’Nhs ha dichiarato: «Lo scopo principale del Challenge fund è migliorare l’accesso ai servizi e stimolare vie innovative per fornire le cure primarie. Ciò porterà tutti gli ambulatori a beneficiare della condivisione di apprendimento e sviluppo e dalla diffusione di innovazioni. Il fondo è pensato per permettere agli ambulatori di sviluppare modi sostenibili di rimodellare i servizi per il futuro, così che l’accesso migliorato diventi la norma».

Arturo Zenorini
(Fonte: «Doctor 33»)

Antibiotici. OMS: «Resistenza è seria minaccia, rischio era post-antibiotica». Ecco il report

2 maggio 2014

Uno dei più vasti sguardi sulla resistenza agli antibiotici, minaccia globale per la salute, effettuato mediante i dati provenienti da 114 Paesi: si tratta del nuovo report dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, intitolato «Antimicrobial resistance: global report on surveillance 2014» («Resistenza antimicrobica: report globale sulla sorveglianza 2014»). Questa resistenza «rappresenta un problema talmente serio da minacciare il sapere della medicina moderna», si legge nel «Summary» del report ed è dunque “una delle principali minacce per la salute pubblica”.

A tal proposito è stato chiaro Keiji Fukuda, Vice Direttore Generale per la Sicurezza sanitaria dell’OMS: «senza un’azione urgente e coordinata da parte di molti stakeholder, il mondo viene governato da un’era post-antibiotica, in cui infezioni comuni e ferite leggere, che sono state trattabili per decenni, possono di nuovo uccidere. Gli antibiotici efficaci sono stati uno dei pilastri che ci permettono di vivere più a lungo, più in salute, e di trarre beneficio dalla medicina moderna. A meno che non effettuiamo azioni significative per migliorare gli sforzi al fine di prevenire le infezioni e insieme cambiamo il modo di produrre, prescrivere e utilizzare gli antibiotici, il mondo perderà sempre di più questi benefici per la salute pubblica a livello mondiale e le conseguenze saranno devastanti».

Il report OMS mette in luce alcuni risultati importanti:

– Sono stati rilevati in tutte le regioni OMS tassi molto alti di resistenza a batteri comuni (Escherichia coli, klebsiella pleumoniae e stafilococco aureo) che causano infezioni comuni e si diffondono nella comunità. In questo caso, si tratta di una resistenza a farmaci antibatterici che supera, in molti set di risultati, la percentuale del 50%, si legge nel report. Ad esempio, riguardo all’Escherichia coli in Italia, un dato nel report riferisce una resistenza alle cefalosporine di terza generazione pari al 19,8% (su 1870 casi presi in considerazione) nel 2011 – dato pubblicato nel 2013.

– Un altro risultato messo in luce dall’OMS riguarda i gap o l’assenza, in alcuni Paesi, degli strumenti chiave per affrontare la resistenza agli antibiotici – dunque i sistemi di base per tracciare e monitorare il problema. Si parla di gap nell’informazione di quali sono i patogeni, nella sorveglianza, negli standard metodologici, nella condivisione dei dati e nel coordinamento.

– Tra le azioni più importanti per ridurre la necessità di antibiotici, c’è la prevenzione, che include un’igiene migliore, l’accesso ad acqua pulita, il controllo delle infezioni mediante facilitazioni assistenziali e la vaccinazione. L’OMS, inoltre, richiama l’attenzione sulla necessità di produrre una nuova diagnostica, nuovi antibiotici e altri tipi di strumenti per far fronte alla resistenza emergente. L’OMS si impegna in uno sforzo globale diretto a dare un indirizzo a questo problema, mediante il suo monitoraggio, la misura dell’impatto sociale ed economico e la ricerca di soluzioni.

OMS: ECCO COME AFFRONTARE QUESTA RESISTENZA

Secondo le indicazioni, i pazienti possono affrontare meglio questo problema – utilizzando gli antibiotici solo se prescritti da un medico;
– seguendo la prescrizione per intero, anche se si sentono meglio;
– non condividendo con altre persone antibiotici o prescrizioni ‘avanzate’.

Inoltre, gli operatori sanitari e farmacisti possono aiutare i pazienti ad affrontare la resistenza
– migliorando la prevenzione e il controllo delle infezioni;
– prescrivendo e fornendo antibiotici quando sono veramente necessari;
– prescrivendo e fornendo antibiotici solo per curare la malattia.

I rappresentanti politici possono aiutare ad affrontare la resistenza
– rafforzando il monitoraggio della resistenza e la capacità di analisi di laboratorio;
– regolamentando e promuovendo l’uso appropriato dei farmaci.

I politici e l’industria possono contribuire ad affrontare resistenza:
– promuovendo l’innovazione e la ricerca e lo sviluppo di nuovi strumenti;
– promuovendo la cooperazione e la condivisione di informazioni tra tutti i soggetti interessati.

Viola Rita
(Fonte: «Quotidiano Sanità»
(Approfondimenti: http://www.quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=3305777.pdf)

Uruguay: consentiti 10 grammi di cannabis a settimana

3 maggio 2014

I consumatori di cannabis potranno acquistare in Uruguay “un massimo di 10 grammi la settimana”, a meno di 1 dollaro al grammo, dopo essersi iscritti a un registro nazionale. Lo ha annunciato il 2 maggio in conferenza stampa il presidente dell’Ufficio nazionale delle droghe, Diego Canepa, illustrando i particolari della nuova legge – approvata a dicembre – che ha liberalizzato la cannabis nel Paese. Secondo le direttive di Montevideo, la coltivazione della pianta sarà autorizzata su un massimo di 10 ettari, la marijuana legale avrà il 15% di concentrazione di tetrahydrocannabinolo, sarà disponibile in cinque varietà e potrà essere acquistata solo da maggiorenni residenti in Uruguay.

MUJICA: “LA CANNABIS NON SIA UNA MALATTIA”. L’Uruguay, tuttavia, non mira ad essere una mecca degli amanti della marijuana, non intende «promuovere feste per fumatori di cannabis e stile bohemien» e «non vuole estendere il consumo di marijuana», ma con la legalizzazione della cannabis intende «mantenere tutto entro i limiti della ragione e non permettere che diventi una malattia». Così il presidente dell’Uruguay, Jose Mujica, ha spiegato la decisione di legalizzare la droga leggera in un’intervista rilasciata ad Associated Press. «La dipendenza non è un bene», ha detto il presidente difendendosi da chi critica il piano accusandolo di introdurre troppi limiti.

(Fonte: «la Repubblica»)

Lo studio: «Rischio autismo, metà genetico e metà ambientale»

4 maggio 2014

Le cause dell’autismo sarebbero legate sia a fattori ambientali sia ai geni. Lo rivela un vasto studio condotto in Svezia. Si tratta di una novità, perché le ricerche precedenti avevano sempre ipotizzato che il peso dell’ereditarietà in tale disturbo neurologico si attestasse intorno all’80-90 per cento, mentre secondo i ricercatori svedesi si attesta al 50%. I dati della ricerca, pubblicati sul «Journal of the American Medical Association», sono il risultato dell’analisi di due milioni di persone in Svezia, tra il 1982 e il 2006. Si tratta dell’analisi più ampia mai condotta finora per cercare di capire se siano i geni o l’ambiente a scatenare l’autismo, un disturbo che colpisce un bambino ogni 100 a livello mondiale.

I DATI. La ricerca del Karolinska Institutet di Stoccolma e del King’s College di Londra ha preso in esame un campione di due milioni di persone, pazienti che sono stati seguiti dal 1982 al 2006. Secondo le stime internazionali l’autismo colpisce circa una persona su 100, ma una recente analisi negli Stati Uniti circa una persona su 68 è autistica. «Siamo molto colpiti dai risultati dello studio, non immaginavamo che i fattori ambientali avessero un peso di questo tipo», ha spiegato uno degli autori dello studio, Avi Reichenberg, ricercatore del Mount Sinai Seaver Center for Autism Research, di New York.

I FATTORI AMBIENTALI. Lo studio non ha individuato quali fattori ambientali possano entrare in gioco. Ma fra questi ci potrebbero essere, ad esempio, lo stato sociale nel quale nasce un bambino, complicazioni al momento della nascita, infezioni che colpiscono la mamma o medicinali presi in gravidanza.

PROGETTO PER INDIVIDUARLO IN GRAVIDANZA. Pur essendo una malattia solo in parte genetica anche l’autismo potrebbe essere scoperto già durante la gestazione, con un test basato sulla risonanza magnetica del cervello. Ne sono convinti i ricercatori inglesi impegnati nel Developing Human Connectome Project, che dopo aver messo a punto un metodo sicuro di analisi stanno per iniziare le prove sui feti e sui bimbi ai primissimi giorni di vita. L’iniziativa del King’s College, dell’Imperial college e della Oxford University, durerà sei anni, e prevede di fare la risonanza di 500 feti nel terzo trimestre della gravidanza e di mille bambini pochi giorni dopo la nascita.

Valeria Pini

(Fonte: «la Repubblica»)

Oms decreta allerta globale per la diffusione di poliomielite

5 maggio 2014

L’Organizzazione mondiale della Sanità ha decretato «lo stato di allerta per la salute pubblica globale» in seguito ai numerosi casi di poliomielite registratisi dal gennaio scorso in diversi Paesi. Fra questi ci sono: l’Iraq, l’Afghanistan e la Guinea equatoriale. A preoccupare gli esperti è il fatto che nei primi mesi del 2014, periodo in cui di solito la trasmissione è bassa, tre paesi, Pakistan, Camerun e Siria, hanno ‘esportato’ diversi casi.

L’Oms aveva tenuto la settimana scorsa una riunione urgente sull’allarme poliomielite, constatato il moltiplicarsi dei casi negli ultimi quattro mesi in diversi Paesi. La decisione di decretare lo stato di allerta è stata adottata all’unanimità: «Se non verrà messa sotto controllo la situazione potrebbe mettere a rischio l’eliminazione di una delle malattie più gravi evitabili con le vaccinazioni», avverte l’organizzazione sottolineando che i rischi maggiori riguardano soprattutto Pakistan, Camerun e Siria.

«Le nostre raccomandazioni sono per evitare che la malattia lasci i Paesi dove è presente, mentre per tutti gli altri valgono le indicazioni generali per chi viaggia in Paesi dove è presente il virus – ha spiegato Bruce Aylward, responsabile per la polio dell’Oms -. Il rischio è che la malattia ritorni ad essere endemica nei Paesi che l’hanno eliminata, anche se al momento parliamo di numeri molto bassi». L’ultima volta che l’agenzia ha dichiarato una malattia ‘emergenza di salute pubblica’, ha precisato l’esperto, è stato prima dell’epidemia di H1N1.

Dal 1988 ad oggi i casi sono diminuiti del 99%, grazie agli sforzi a livello globale per eliminare la malattia grazie al vaccino; oggi la poliomielite rimane endemica in tre soli paesi: Afghanistan, Nigeria e Pakistan.

(Fonte: «la Repubblica»)

Usa in campo contro i 5 big killer. Fumo fattore di rischio numero uno. Il rapporto del CDC

5 maggio 2014

Di cosa muoiono gli americani? Lo spiegano in un rapporto di 24 pagine i CDC (Center for Disease Control) di Atlanta. I big killer stelle e strisce sono cinque: malattie di cuore, cancro, malattie polmonari (BPCO ed enfisema), ictus e incidenti vari come quelli stradali o da overdose di farmaci e droghe. Considerate nel loro complesso, queste condizioni causano due decessi su tre negli Usa, cioè circa 900 mila morti l’anno. Fin qui le crude statistiche di morte; ma i CDC si sono spinti oltre e, in un’analisi dettagliata, sono arrivati a stabilire che almeno un terzo di questi decessi si potrebbero evitare. Il ‘come’ si sa già, ma il problema è metterlo in pratica. In un’intervista rilasciata alla CNN, Tom Frieden, direttore dei CDC sostiene che «se anche solo ci si concentrasse su un unico obiettivo di prevenzione, all’interno di ogni comunità, si riuscirebbe a fare la differenza».

L’impatto maggiore verrebbe dal fare del vivere in modo salutare la nostra scelta di vita di default: cibo sano, tanta attività fisica, niente sigarette. Il secondo step – prosegue Frieden – dovrebbe consistere nel rendere facilmente accessibili al pubblico i servizi di prevenzione: dagli screening oncologici, ai centri ipertensione arteriosa. «Ma la prevenzione – sottolinea Frieden – deve iniziare da subito, o almeno il più precocemente possibile, per evitare che i nostri figli, raggiungano l’età adulta, già schiavi della nicotina o alle prese con una lotta senza fine contro l’obesità».

E i buoni esempi, anche in un Paese di eccessi, quale gli Stati Uniti, non mancano: a San Francisco 44 mila bambini hanno accesso a spazi ricreativi sicuri grazie all’iniziativa di alcune scuole di mantenere aperti cortili e palestre anche al di fuori dell’orario scolastico; oltre 700 mila abitanti della Contea di Broward in Florida hanno la possibilità di fare attività fisica grazie ad iniziative volte a migliorare l’accessibilità e la sicurezza di percorsi per camminare o per andare in bicicletta, raggiungibili con i mezzi pubblici.

Il fumo resta la più importante causa di morte prevenibile, tanto negli Usa che nel resto del mondo. La sigaretta è il principale fattore di rischio per 4 dei 5 big killer degli americani: malattie di cuore e dei polmoni, cancro e ictus. «Riuscire a far smettere di fumare il 20% degli americani, ancora in preda al vizio, potrebbe fare una grande differenza. Nessun cambiamento è facile da realizzare – conclude Frieden – ma ogni anno perso, significa decine di migliaia di morti prevenibili che si aggiungono al conto. Dobbiamo fare meglio: lo dobbiamo al popolo americano».

Maria Rita Montebelli
(Fonte: «Quotidiano sanità»)
(Approfondimenti: http://www.quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=3723167.pdf)

Salute delle donne. Finlandia il miglior Paese al mondo, la Somalia il peggiore. Italia all’11° posto

6 maggio 2014

È in Nord Europa che si trovano i Paesi in cui lo stato di salute delle donne, il loro livello di istruzione, le condizioni economiche, politiche e sociali garantiscono il benessere alle mamme e ai loro figli. Sono infatti Finlandia, Norvegia e Svezia che si aggiudicano il podio nella 15esima edizione del rapporto «Save the Children» dedicato allo stato di salute delle madri nel mondo. Al contrario sono tutti dell’Africa sub-sahariana quelli che si collocano in fondo alla classifica, con in coda la Somalia, preceduta dalla Repubblica Democratica del Congo (RDC) e, a pari merito, da Niger e Mali, che ottengono punteggi molto scarsi per ognuno dei 5 indicatori su cui si è basato il Rapporto: salute materna e rischio di morte per parto, benessere dei bambini e tasso di mortalità entro i 5 anni, grado di istruzione, condizioni economiche e Pil procapite, partecipazione politica delle donne al governo.

Immediatamente prima, tra gli ultimi dieci (a partire dal migliore), Costa d’Avorio, Ciad, Nigeria, Sierra Leone, Repubblica Centrafricana, Guinea Bissau.

Quest’anno l’Italia fa un passo in avanti, portandosi dal 17° della precedente edizione all’11° posto, “cambiamento – spiega Save the Children – dovuto sostanzialmente all’aumento della presenza delle donne al governo (passato dal 20,6% della scorsa edizione al 30,6% del’ultima)”.

I confronti tra i Paesi ricchi e i Paesi in via di sviluppo sono ancor più stridenti se si esaminano i singoli indicatori. Se in Svezia (3° posto) una donna su 14.100 rischia di perdere la vita per cause legate alla gravidanza o al parto, in Chad (170° posto) accade ad una su 15. Un bambino su 5 in Sierra Leone (172°posto) rischia di morire prima di aver compiuto 5 anni, mentre in Islanda corre questo rischio solo uno su 435 (4° posto).

LE MADRI E I BAMBINI NELLE CRISI UMANITARIE

Il 15° Rapporto sullo stato delle madri nel mondo esamina in particolare l’impatto delle crisi umanitarie sul benessere e la sopravvivenza delle madri e dei loro bambini. «Durante le emergenze, siano esse conflitti o calamità naturali, i problemi che abitualmente affliggono alcuni Paesi – povertà, malnutrizione, violenza sessuale, gravidanze non pianificate e parti non assistiti – vengono naturalmente esacerbati, così come si accentuano le differenze economiche e di genere», spiega Save the Children.

Sin dalla prima edizione del rapporto nel 2000, infatti, i Paesi che si posizionano in fondo alla classifica sono quelli che stanno vivendo o hanno di recente vissuto una grave crisi umanitaria, un conflitto, gravi emergenze o in cui c’è un problema di accesso e qualità delle cure sanitarie.  Sono ben 250 milioni i bambini con meno di 5 anni che vivono in Paesi in conflitto, nei quali si concentra ben il 56% di tutte le morti materne e infantili. In tali contesti, per ogni persona che perde la vita a causa della guerra, ce ne sono da 3 a 15 che muoiono a causa di malattie, complicazioni mediche e malnutrizione, anche perché in media gli operatori sanitari che lavorano in questi luoghi sono meno della metà di quelli necessari per far fronte ai bisogni della popolazione.

E accanto alla guerra ci sono le catastrofi naturali, il 95% delle quali colpisce i Paesi in via di sviluppo. In queste situazioni, si stima che le donne e i bambini corrano 14 volte più di un uomo il rischio di morire. Tra le 28 nazioni che negli anni hanno raggiunto le 10 posizioni più basse della classifica, 27 sono Paesi fragili, in conflitto o post conflitto, mentre 18 di esse sono state bersaglio di frequenti calamità naturali. Inoltre moltissimi di questi Paesi fronteggiano una perenne crisi sanitaria, dovuta principalmente ad un accesso limitato all’assistenza sanitaria.  In particolare 7 Paesi (tra cui Repubblica Democratica del Congo, Niger, Mali e Guinea-Bissau) sono tra gli ultimi dell’indice di Save the Children sin da quando è stato lanciato la prima volta nel 2000. Sei di essi hanno vissuto un conflitto e tutti – ad eccezione della Guinea Bissau – sono stai colpiti da vari disastri naturali.

L’Asia meridionale annovera circa un terzo delle morti infantili, con dei tassi particolarmente alti nelle comunità maggiormente escluse e le aree più fragili, come ad esempio lo stato indiano di Bihar e Odessa e la provincia pakistana di Khyber Pakhtunkhwa. Nel 1990, il 16% delle morti infantili avvenivano nell’Africa centro-occidentale, oggi solo la Nigeria e la Repubblica Democratica del Congo rappresentano il 20% di queste morti.

«Il conflitto che ha flagellato la Repubblica Democratica del Congo ha causato 5,4 milioni di morti, ma solo il 10% di queste è stata direttamente provocato dalla guerra. Si stima che conflitto siriano in corso ha causato in media la morte di 1000 donne e bambini al mese, ma sono migliaia quelli morti per la fame e la mancanza di cure mediche. Prima dell’inizio del conflitto, in Siria il tasso di mortalità infantile era di 15 bambini morti prima dei 5 anni ogni 1.000 nati ed il Paese era in linea per raggiungere gli obiettivi 4 e 5 del Millennio relativi all’abbattimento della mortalità infantile e al miglioramento della salute materna. Oggi, benché non si riescano ad avere dati aggiornati, le donne siriane continuano a partorire senza assistenza e per paura di ciò che può accadere durante il parto, pianificano parti cesarei, i bambini non hanno accesso alle vaccinazioni e si stanno diffondendo di nuovo – per la prima volta nell’ultimo decennio – la polio e il morbillo», ha affermato Valerio Neri, Direttore Generale di Save the Children Italia.

Emblematico, secondo Save the Children, di come le crisi umanitarie – siano esse provocate dall’uomo o dalla natura – possano mettere a dura prova il benessere delle madri e dei bambini di un Paese è il caso delle Filippine, un Paese a medio reddito che sembrava sulla buona strada per raggiungere il 4° obiettivo del Millennio (il tasso di mortalità infantile era di 30 bambini morti prima dei 5 anni ogni 1.000 nati), aveva fatto anche notevoli passi avanti per raggiungere il 5° obiettivo, relativo alla salute delle madri (il tasso di mortalità materna era di 99 donne ogni 100.000), e dal 2010 ha portato avanti una importante riforma per fornire la copertura sanitaria universale. Il Paese negli ultimi anni è stato funestato da tre grandi tifoni che hanno messo in discussione questi fondamentali obiettivi: Washi che nel 2011 ha ucciso 1.400 persone e prodotto 430.000 sfollati, Bopha che nel 2012 ha ucciso 2.000 persone e lasciato circa 1 milione senza una casa, e circa sei mesi fa, l’8 novembre 2013, Hayan, che ha colpito 16 milioni di persone, 10 milioni dei quali sono donne e bambini, uccidendone oltre 6.000 e ferendone quasi 29.000.

«Ma le madri di tutto il mondo, anche nei contesti più difficili, fanno di tutto per portare avanti la promessa che fanno ai loro figli nel giorno in cui li mettono al mondo, quella di proteggerli sempre. Vediamo spesso madri che, durante le crisi umanitarie più acute, continuano a guardare avanti, che cercano di trasformare un campo profughi in una casa, che scappano dalle violenze con i propri figli tra le braccia. Sono quelle stesse madri che vediamo sbarcare quotidianamente sulle nostre coste, con i loro bambini, o ancora quelle che mettono il proprio figlio in viaggio, sapendo i rischi che corre a partire ma aggrappandosi alla speranza che essi siano inferiori a quelli che correrebbe se restasse. Sono quelle madri che continuano ad andare avanti concentrandosi sulla speranza che il futuro dei loro figli possa essere migliore, e alle quali dobbiamo dare una risposta», ha concluso Valerio Neri.

Per quanto riguarda l’Italia, come accennato, nel rapporto di Save the Children di quest’anno passa dal 17° all’11°posto, sostanzialmente grazie ad un aumento sostanziale della percentuale media di partecipazione delle donne al Governo del Paese, passata dal 20,6 della scorsa edizione del rapporto all’attuale 30,6%, dato che tuttavia rimane inferiore a quello di Paesi come l’Angola (36,8%), il Mozambico (39,2%), Timor Est (38,5%). Secondo i dati, le condizioni di salute delle mamme e dei bambini si mantengono a livelli alti (il tasso di mortalità femminile per cause legate a gravidanze e parto è pari a 1 ogni 20.300, quello di mortalità infantile è di 3,8 ogni 1000 nati vivi), come abbastanza alto è il livello di istruzione delle donne, pari a 16,3 anni di formazione scolastica. Al contrario subisce un decremento il reddito nazionale pro capite, che passa da 35.290 a 33.860 euro.

«Save the Children, al fine di migliorare concretamente le condizioni di madri e bambini, soprattutto in contesti d’emergenza, chiede agli Stati, ai donatori e a società civile di assicurare che ogni madre e ogni neonato che vivono in zone di crisi abbia accesso a cure di qualità, venga investito di più per la loro istruzione e assicurata loro protezione. Inoltre, è necessario promuovere azioni relative alla prevenzione e al riduzione del danno nelle emergenze, così come occorre continuare a perseguire l’obiettivo della copertura sanitaria universale, assicurandola soprattutto ai più vulnerabili. Inoltre è necessario che ogni intervento in contesti emergenziali sia pianificato tenendo conto dei bisogni specifici di madri e bambini, assicurando supporto politico e risorse finanziate adeguate, azioni coordinate che siano focalizzate sui bisogni sanitari di madri e bambini nei contesti di crisi». E per celebrare in modo speciale la Festa della Mamma 2014, Save the Children lancia un appello perché «essa diventi un’occasione speciale per sostenere gli interventi a favore di mamme e bambini nei Paesi che stanno vivendo un’emergenza», anche attraverso i regali della “Lista dei desideri” che Save the Children mette a disposizione e legati agli interventi che l’Organizzazione porta avanti nelle situazioni di emergenza, come ad esempio una visita post-parto (9 euro), e 3 set parto (21 euro).

(Fonte: «Quotidiano Sanità»)
(Approfondimenti: http://www.quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=9637425.pdf)

Biotestamento. Il Consiglio di Europa: «Vincolante per i famigliari ma non per i medici»

6 maggio 2014

«I progressi della medicina, in particolare gli sviluppi della tecnologia medica, consentono oggi una vita più lunga e maggiori prospettive di sopravvivenza. Tuttavia, le malattie croniche o a progressione lenta danno luogo a situazioni complesse e stanno rendendo necessario il rinnovo del quadro in cui le decisioni di cure mediche vengono prese in situazioni di fine vita». È per offrire un orientamento su queste situazioni che il Consiglio d’Europa ha lanciato una guida per compiere le scelte corrette nel processo decisionale relativo alle cure mediche in situazioni di fine vita. Quali sono i diritti per i pazienti terminali? In quale quadro etico e giuridico si inserisce il processo decisionale? Come e da chi vengono prese le decisioni riguardanti le cure mediche quando si tratta di stabilire se proseguirle o fermarle? Sono queste alcune delle domande a cui la guida, rivolta in primo luogo agli operatori sanitari, ma anche a pazienti, familiari e associazioni, si propone di rispondere.

«Abbiamo voluto proporre parametri relativi sia ai principi che possono essere applicati che alle pratiche in questo contesto, e contribuire, attraverso i chiarimenti forniti, alla discussione generale sul tema».

Autonomia, beneficenza, non maleficenza e giustizia. Sono questi i quattro princìpi fondamentali che, secondo la Commissione di bioetica del Consiglio d’Europa, devono ispirare i trattamenti medici nelle situazioni di fine vita perché siano rispettata la Convenzione europea sui diritti umani e la biomedicina. Principi che, secondo la commissione, «sono interconnessi e devono essere presi in considerazione insieme quando si parla della loro applicazione».

Quindi sì all’autonomia, da implementare attraverso un libero e informato consenso. Ma per la Commissione bioetica Ue «l’autonomia non implica il diritto del paziente a ricevere qualsiasi trattamento voglia, in particolare se si tratta di un trattamento considerato inappropriato. Infatti le decisioni sull’assistenza sanitaria sono il risultato di una conciliazione tra la volontà del paziente e la valutazione della situazione da parte di un professionista, che è tenuto al rispetto dei suoi doveri professionali e in particolare a quelli derivanti dai princìpi di beneficenza e non maleficenza, così come di giustizia».

Del resto, sottolinea il documento «i principi di beneficienza e non maleficienza sono obblighi fondamentali del medico, che perseguono l’obiettivo di massimizzare i potenziali benefici e ridurre al minimo i danni derivanti al paziente dall’operato del medico. L’equilibrio tra benefici e rischi è la chiave di ogni condotta medica». Ma tra i danni, la guida precisa che bisogna tenere in considerazione anche «quelli psicologici o derivanti dal mancato rispetto della privacy dell’individuo». Detto questo, «il medico – si legge nella guida – è tenuto a evitare trattamenti non necessari o sproporzionati rispetto ai rischi». In altre parole, «deve provvedere al paziente attraverso trattamenti proporzionati e conformi alla sua situazione. Anche evitando qualsiasi inutile sofferenza», ricordando che «prendersi cura non significa solo somministrare una terapia».

Quanto alla contestata questione dell’alimentazione e idratazione artificiale, per il Consiglio d’Europa «la sete e la fame sono bisogni primari che vanno sempre soddisfatti, a meno che il paziente non rifiuti acqua e cibo».

Detto questo, per il Consiglio d’Europa se il paziente è capace di prendere parte al processo decisionale nessun intervento può essere effettuato senza il suo consenso. Nei casi in cui i pazienti non siano più in grado di decidere, assumono valore le intenzioni espresse in precedenza in forma scritta e autenticata da un legale. Tuttavia, pur essendo vincolanti per i ‘non medici’ (anche se i famigliari e gli amici devono essere, secondo il Consiglio d’Europa, informati e resi partecipi del confronto sulle decisioni), esse non rappresentano un vincolo assoluto per il medico. «È condiviso – si legge nella guida – che esistono alcune ragioni che autorizzano i medici a non seguire i desideri dei pazienti. Per esempio, quando sono state formulati troppi anni prima l’arrivo dell’incapacità o quando ci siano stati significativi progressi scientifici dalla data in cui erano state scritti, progressi che hanno un impatto significativo sul loro contenuto».

(Fonte: «Quotidiano Sanità»)
(Approfondimenti: http://www.quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=8825624.pdf)

Suicidi, i media possono scatenare emulazione tra i giovani

7 maggio 2014

La nuova rivista di «The Lancet» dedicata alla psichiatria, «The Lancet Psychiatry», apre il suo primo numero con un articolo da cui emerge che l’ampio spazio che i quotidiani riservano ad alcuni suicidi potrebbe scatenare casi di emulazione tra gli adolescenti. «I nostri dati indicano che la copertura giornalistica e la quantità di dettagli pubblicati potrebbero influenzare il numero di suicidi portati a termine dagli adolescenti per imitare il primo», spiega Madelyn Gould dello State Psychiatric Institute di New York, che assieme ai colleghi ha confrontato per la prima volta un campione nazionale di suicidi adolescenziali a catena con un gruppo di controllo di suicidi non-cluster tra il 1988 e il 1996.

Ogni gruppo di suicidi comprendeva da 3 a 11 vittime, che si sono uccise entro 6 mesi dal primo episodio. I ricercatori hanno esaminato in modo retrospettivo 469 storie di suicidio pubblicate sui giornali tra il primo e il secondo suicidio a catena e nello stesso periodo di tempo nel gruppo di eventi non concatenati. «Nel primo gruppo era stato pubblicato un numero significativamente maggiore di articoli di giornale rispetto a quello di controllo», sottolinea Gould. E conclude: «Anche se non siamo stati in grado di dimostrare la presenza di un nesso di causalità per il disegno retrospettivo dello studio, i risultati suggeriscono che la copertura mediatica da parte dei quotidiani potrebbe avere un ruolo nell’innescare catene di suicidi emulatori tra gli adolescenti. E in un commento collegato Jane Pirkis e Jo Robinson dell’Università di Melbourne in Australia scrivono: «Il probabile effetto di imitazione scatenato dai giornali potrebbe addirittura essere aggravato o amplificato da internet, e in particolare dai social forum. I giovani, infatti, non solo sono grandi consumatori di queste nuove forme di media, ma anche i creatori dei loro contenuti. Ne deriva che indagare il ruolo dei nuovi media nei suicidi di massa è il prossimo passo logico in questa linea di ricerca».

(Fonte: «Doctor 33»)
(Approfondimenti: http://www.thelancet.com/journals/lanpsy/article/PIIS2215-0366(14)70225-1/abstract)

Francia, si potranno per legge devolvere giorni di ferie in favore di colleghi in difficoltà

6 maggio 2014

Il Senato francese – si legge sul sito di «West» – welfare, società, territorio, quotidiano d’informazione in italiano e in inglese, sulle politiche sociali – ha approvato definitivamente la proposta di legge che consentirà di donare alcuni giorni delle proprie ferie a favore di colleghi con figli gravemente malati. Un testo che era stato depositato presso l’Assemblea Nazionale il 13 luglio 2011, ispirato ad un’iniziativa locale senza dubbio esemplare.

LA STORIA DI CHRISTOPHE. I dipendenti di un’azienda nella Loira, infatti, avevano “raccolto” ben 170 giorni di ferie pagate, rinunciando ad esse per permettere a Christophe Germain, collega senza più permessi, di continuare ad accudire suo figlio Mathys, 11 anni, con un cancro al fegato in stato terminale. «Chiesi a Christophe come potessi aiutarlo, di cosa avesse più bisogno. Non soldi, ma tempo da passare con suo figlio», racconta un collega. Da qui “la colletta”. Che dopo più di 3 anni è diventata legge, la “loi Mathys”, dedicata al piccolo venuto successivamente a mancare nel 2009, annunciano i suoi genitori dall’associazione «D’un papillon à une étoile», fulcro della battaglia, adesso collettiva, appena vinta con il placet del Senato.

IL NUOVO ARTICOLO DEL CODICE. Grazie al quale sarà inserito un nuovo articolo nel Codice del lavoro francese, che «permetterà a tutti i dipendenti, pubblici e privati, col consenso del datore, di cedere i diritti o parte di essi su permessi e ferie retribuite in favore di un lavoratore con un figlio con meno di 20 anni affetto da una malattia, un handicap o vittima di un incidente di gravità tale da rendere indispensabile una presenza e cure costanti».

(Fonte: «la Repubblica»)

Case dai vecchi container, idea GM

6 maggio 2014

Come restituire una dignità ai più poveri e come recuperare le aree abbandonate di Detroit? Partendo da piccole case ecosostenibili. Questa l’idea della General Motors Foundation e della Michigan Urban Farming Initiative (MUFI) che hanno trasformato i container in piccole case di 30 metri quadrati ma dotate di tutti i comfort: due zone letto, una living e cucina e bagno. Il tutto poi allestito con pannelli fonoassorbenti, scaffali, mensole e arredamenti ricavati dagli scarti delle fabbrica di Hamtramck per un totale alto: l’85% delle componenti di queste microcase arriva da qui. Non solo: la trasformazione da pezzi di auto e pezzi di casa è fatta da dipendenti volontari della GM.

Sarà una svolta o l’ennesimo fallimento nel tentativo di recuperare una città mezza abbandonata come quella di Detroit? Vedremo, ma stavolta il piano sembra promettere bene perché poi si lega ad un progetto per trasformare in zone agricole alcune parti abbandonate della città. Quindi gli abitanti di queste piccole case «avrebbero anche una prospettiva di lavoro», come ha spiegato Doneen McDowell, direttore dello stabilimento di Hamtramck.

Ma torniamo alla “casa”: la sperimentazione è affidata ad uno studente universitario che vivrà tutto l’anno in un prototipo di casa e dovrà gestire anche un piccolo terreno per le attività di ricerca agricola. Intanto la lista delle parti “riciclate” è davvero incredibile. Gli armadietti della fabbrica saranno utilizzati come fioriere e magazzino utensili, i piccoli contenitori di fissaggio che erano usati sulle catene di montaggio saranno utilizzati come vasi, il compensato che riveste il container arriva dagli imballaggi mentre dai pallet di legno e da altro legno di scarto arrivano le materie prime per i mobili, compresi tavoli da cucina e letti. Insomma un vero capolavoro di riciclaggio…

Vincenzo Borgomeo
(Fonte: «la Repubblica»)

«Cervelli di tutto il mondo, venite nella Silicon Valley»

8 maggio 2014

L’amministrazione Obama ha varato una serie di provvedimenti per attirare e far restare negli Usa i migliori talenti mondiali nel settore della tecnologia e della scienza.

Datemi le vostre persone stanche – implora un verso scritto sulla Statua della Libertà – i poveri, le masse oppresse che vogliono respirare liberamente. Adesso, però, queste righe potrebbero essere riscritte così: mandateci i vostri cervelli. Si capisce dai due provvedimenti esecutivi che l’amministrazione Obama, stanca dell’ostruzionismo repubblicano in Congresso sulla riforma dell’immigrazione, ha varato proprio per attirare e far restare negli Usa i migliori talenti mondiali nel settore della tecnologia e della scienza. Proprio come imploravano da tempo Mark Zuckerberg, e tutti i leader delle aziende della Silicon Valley.

La prima iniziativa, annunciata dal segretario al Commercio Penny Pritzker, riguarda i lavoratori che arrivano in America con i visti H-1B visas, riservati a chi opera nei settori della scienza, la tecnologia e l’ingegneria. Questi documenti consentono ai talenti di entrare nel Paese e lavorare, in attesa di ricevere la carta verde, ma non permettono ai famigliari di fare altrettanto. Così molti geni lasciano gli Stati Uniti, perché non possono portare con loro mogli o mariti, ai quali è vietato di prendere un qualunque impiego. La regola ora verrà annullata, consentendo così alle famiglie di riunirsi e stabilirsi in maniera definitiva in America. Sembra poco, ma è un problema che riguarda da subito 97.000 persone, capaci così di regolarizzare le loro condizioni, e nel futuro 30.000 immigrati all’anno.

Il secondo provvedimento, invece, offrirà ai datori di lavoro più margine sui metodi per dimostrare che i propri ricercatori e professori sono i migliori nei rispettivi settori. Questo è un elemento chiave per favorire l’immigrazioni dei talenti. Le università, i centri di studio, ma anche le aziende private, oggi possono sponsorizzare la carta verde per i propri dipendenti stranieri, se dimostrano che hanno capacità eccezionali per fare meglio di chiunque altro certi lavori. È una prassi usata abitualmente per ottenere la carta verde, ma il livello di documentazione richiesto per avviare la pratica è così alto che spesso scoraggia tutti. Fra sessanta giorni, però, la pratica cambierà. Per i datori di lavoro diventerà più facile dimostrare che hanno bisogno di certi dipendenti stranieri, che quindi saranno incentivati a venire e restare negli Stati Uniti.

Anche qui, si tratta di una novità indispensabile per competere sul mercato mondiale dei talenti. Molti di loro, infatti, ora vengono in America a studiare, si specializzano, e poi portano le capacità acquisite negli Usa a qualche concorrente straniero. «Non si capisce perché dovremmo farceli scappare», ha detto la Pritzker, aggiungendo di essere favorevole anche alla proposta di dare la carta verde automatica ai laureati stranieri che vogliono restare. Il 28% delle nuove aziende americane, infatti, è fondato da immigrati, così come il 40% delle migliori 500 compagnie, secondo la classifica delle rivista «Fortune». Senza una politica aperta sui visti, Andy Grove non sarebbe mai venuto dall’Ungheria per creare Intel, e Sergey Brin sarebbe ancora in Russia, invece di guidare Google da Mountain View.

Alcuni politici repubblicani hanno subito alzato la voce contro questi provvedimenti, che giudicano troppo permissivi, ma così si mettono contro la Silicon Valley, e decine di aziende in tutta l’America, che li reclamano a gran voce per continuare battere la concorrenza globale.

(Fonte: «La Stampa»)

Vicini alla vita artificiale. Creato il primo batterio “semi-sintetico” con Dna espanso

7 maggio 2014

Un batterio con un Dna espanso artificialmente è stato creato in laboratorio dagli scienziati dello Scripps Research Institute. Si apre così un nuovo capitolo della biologia sintetica, che porterà sviluppi ancora difficilmente prevedibili nella medicina, nella scienza dei materiali e nell’ingegneria. La ricerca di importanza storica è stata pubblicata dalla rivista «Nature».

Quello creato dagli studiosi del centro di ricerca statunitense è il primo organismo vivente artificiale ad avere un codice genetico potenziato. Ossia oltre alle tradizionali quattro lettere che costituiscono l’alfabeto della vita: A-T e C-G, ne possiede altre due, che non si trovano in natura, chiamate X e Y. Due molecole note come d5SICS e DNAM, che l’organismo semi-sintetico è capace di tramandare, riproducendosi, alle successive generazioni.

«La vita sulla Terra in tutta la sua diversità è codificata solo da due coppie di basi del Dna: AT e CG; quello che abbiamo fatto è stato realizzare un organismo (un comune batterio Escherichia coli ndr.) che contiene stabilmente quelle due coppie, più un terzo paio di basi non naturale», ha spiegato Floyd E. Romesberg, che ha guidato il gruppo di ricerca. «Questo dimostra che altre soluzioni sono possibili e, naturalmente, ci avvicina a una biologia a Dna espanso, che avrà molte applicazioni: da nuovi farmaci a nuovi tipi di nanotecnologie».

Il team di Romesberg ha lavorato dalla fine degli anni ’90 per individuare le molecole che potevano servire come basi del nuovo Dna e codificare proteine e organismi mai esistiti prima. Craig Venter, lo scienziato americano famoso per il primo sequenziamento del Dna umano, ci aveva già provato nel 2010, inserendo il Dna di un microrganismo, il Mycoplasma mycoides, nel “guscio” di un batterio privato del proprio codice genetico. Gli scienziati adesso hanno fatto un passo ancora più ampio, inserendo le molecole e facendole integrare perfettamente nel Dna di un batterio.

«La grande sfida è stata quella di far lavorare le nuove basi in un ambiente molto più complesso, come quello di una cellula vivente», ha spiegato Denis A. Malyshev. Il prossimo obiettivo dei ricercatori è quello di inserire le nuove lettere in regioni più importanti del genoma e capire se possano essere usate attivamente dalla cellula per il suo funzionamento. Questo nuovo “alfabeto genetico” permetterà di codificare nuovi amminoacidi e proteine, oltre a consentire la realizzazione di composti ad hoc nel mondo dei nanomateriali.

(Fonte: «Il Fatto Quotidiano»)
(Approfondimenti: http://www.nature.com/news/first-life-with-alien-dna-1.15179)

I rischi mondiali dei prossimi 10 anni

8 maggio 2014

Il 16 gennaio 2014 il World Economic Forum (WEF), in vista dell’annuale incontro a Davos, pubblica il Global Risks 2014. Il rapporto, giunto alla nona edizione, valuta la natura e il peso di 31 rischi globali che potrebbero avere un impatto negativo sul tessuto economico mondiale. I rischi si possono intrecciare amplificando il proprio potenziale impatto negativo, che a sua volta ha conseguenze sistemiche a livello geopolitico ed economico.

Il WEF ha chiesto a 700 suoi membri di identificare le minacce più significative per l’economia globale dei prossimi 10 anni. I rischi, organizzati in 5 macro categorie (economica, ambientale, geopolitica, sociale e tecnologica), sono stati valutati a partire dalla probabilità che si concretizzino e dal loro potenziale impatto.

Ecco cosa è emerso:
1 – Crisi fiscale in Stati-chiave
2 – Alti tassi disoccupazione/sottoccupazione strutturale
3 – Crisi idrica
4 – Drastiche disparità di reddito
5 – Fallimento delle azioni mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici
6 – Maggiore incidenza di fenomeni meteorologici estremi
7 – Fallimento della governance globale
8 – Crisi alimentari
9 – Fallimento dei principali meccanismi/istituzioni finanziarie
10 – Profonda instabilità politica e sociale

Ma come è evoluta la percezione dei rischi negli ultimi anni? A partire dal 2010 prendono corpo inquietudini ambientali. In particolare preoccupano le tematiche dell’acqua (crisi idriche e fenomeni idrici estremi) e più in generale il cambiamento climatico. Mentre i temi della salute – pandemie e malattie croniche – sembrano lasciare il posto ai timori di attacchi informatici, complice senz’altro il caso Snowden. Naturalmente si mantiene inalterata la preoccupazione per le minacce economiche, vuoi per il profilo dei rispondenti, vuoi per la crisi economico-finanziaria in atto.

Il 2010 è dunque l’anno spartiacque. Per capire perché il 2010 e non il 2007 (che segna virtualmente l’inizio della crisi economica mondiale) è necessario guardare all’intreccio dei rischi, a partire da un innesco ‘qualsiasi’, in questo caso l’acqua.
È un anno di disastrose alluvioni in Europa centrale e in Pakistan, India e Cina. Ma, per la legge del contrappasso, è anche l’anno della peggior siccità degli ultimi 50 anni in Russia. I raccolti del granaio d’Europa e dintorni (ma anche del Nord Africa e del Medio Oriente) vanno persi, aumenta il prezzo del grano e, in un’area già caratterizzata da instabilità politica, si aggravano tensioni sociali latenti. Scoppia la Primavera Araba che, sebbene perda vigore nei mesi successivi, lascia sul terreno la guerra civile in Siria. Un conflitto che mette a rischio la già instabile situazione in Medio Oriente e su cui aleggia il sospetto uso di armi chimiche che porta alla reazione della comunità internazionale. E così via, una tessera dietro l’altra come in una partita a domino. Un gioco che ci porta dritti al rischio sistemico globale, ossia al rischio che l’intera economia mondiale entri in una nuova recessione. Questa porta con sé l’inevitabile aumento della disoccupazione e della disparità di reddito innescando instabilità sociale e politica.

Pochi giorni dopo la pubblicazione del rapporto è partita la kermesse di Davos. La 44esima edizione del Forum dal titolo “Rimodellare il mondo. Conseguenze per la società, la politica e gli affari” ha messo sul piatto oltre 200 workshop e un programma punteggiato da questioni ambientali, di salute e di lavoro. In particolare ha dedicato 23 sessioni al cambiamento climatico, alla sicurezza delle risorse (idriche e alimentari) e alla sostenibilità.

I leader economici mondiali abbracciano la causa dell’ambiente e dell’equità. Di fatto senza consumatori non esisterebbe un mercato, e senza risorse diventa impossibile produrre qualsivoglia bene di consumo. Lo hanno capito molto bene Coca-Cola e Nike. Ed è chiaro al WEF che la componente economica non deve (può?) correre da sola. Nel rapporto ricorrono i richiami alle strategie di gestione e mitigazione dei rischi. Entrambi presuppongono – come evidenziato anche dai rapporti IPCC – una intensa e costruttiva collaborazione internazionale e importanti investimenti economici ed organizzativi per ridurre la vulnerabilità ai rischi sistemici.

Per far fronte agli investimenti necessari il WEF suggerisce di incentivare le partnership pubblico-privato a tutti i livelli (regionale, nazionale e internazionale). Tuttavia gli investimenti, soprattutto economici, non sono alla portata di buona parte dei Paesi poveri già alle prese con gli alti tassi di interesse imposti dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale. Negli stessi Paesi ricchi la crisi economica ha prostrato ampi strati della popolazione e la componente pubblica della next generation public-private partnership a stento riesce a far fronte ai bisogni dei propri cittadini.

Lo stesso termine next generation, utilizzato dal WEF, presuppone un cambiamento culturale che avrà bisogno di tempo per configurarsi. Ma, stando alla mappa dei rischi e alle loro interconnessioni, la sensazione è che i tempi siano stretti. Il primo importante banco di prova per testare consapevolezza e buoni propositi sarà la Conferenza sul clima di Parigi nel 2015.

Tanya Salandin
(Fonte: «Scienza in Rete»)
(Approfondimenti: http://www3.weforum.org/docs/WEF_GlobalRisks_Report_2014.pdf)

Litigi in famiglia o col partner triplicano il rischio di morte prematura

9 maggio 2014

Troppi litigi in famiglia, specie col partner, o tra parenti possono raddoppiare, o anche triplicare, il rischio di morire per qualunque causa per gli individui di mezza età. Influiscono anche le continue preoccupazioni e richieste eccessive di partner e figli.

Lo rivela un maxi-studio durato 11 anni e pubblicato sul «Journal of Epidemiology & Community Health», di Rikke Lund dell’Università di Copenaghen. I più vulnerabili a incessanti richieste e preoccupazioni sono risultati gli uomini, specie quelli con problemi di occupazione o senza lavoro.

La ricerca ha coinvolto 10.000 individui di 36-52 anni, cui è stato chiesto di compilare un questionario sulle loro relazioni, su svariati aspetti della loro vita, con particolare riferimento a eventuali fattori di stress come litigi in famiglia o tra parenti e amici, fonti di preoccupazione o richieste eccessive da parte di partner e figli. Negli 11 anni di osservazione sono stati registrati tutti i decessi tra il campione.

È emerso che se si hanno conflitti frequenti in famiglia – specie col partner – il rischio di morte per qualunque causa è da raddoppiato a triplicato. Mentre il rischio può essere del 50% in più o addirittura raddoppiato (+100%), in caso di eccessive fonti di preoccupazione e richieste da parte di partner e figli.

Anche se l’indole personale può avere un peso sul rischio di morte, influenzando il modo di percepire e reagire a liti, preoccupazioni e altri fattori di stress, questi risultati indicano che molto in termini di prevenzione delle morti premature si potrebbe fare anche con un adeguato supporto sociale alle famiglie e fornendo agli individui abilità nella gestione dei conflitti.

(Fonte: «la Repubblica»)

Aspirina e prevenzione cardiovascolare primaria, Fda dice no

9 maggio 2014

La Food and drug administration americana ha annunciato pubblicamente di aver infine respinto la richiesta presentata una decina di anni fa da Bayer per ampliare l’indicazione dell’acido acetilsalicilico estendendola alla prevenzione cardiovascolare primaria.

Molte linee-guida internazionali – tra cui quelle dell’American Heart Association – ne suggeriscono l’impiego non solo nella prevenzione secondaria, nei pazienti con una storia clinica di infarto o ictus, ma anche in quelli che senza aver ancora avuto alcun accidente cardiocerebrovascolare presentano un profilo di rischio particolarmente elevato.

Ora nel suo rapporto la FDA spiega di aver «riesaminato i dati disponibili e di non credere che le dimostrazioni di efficacia giustifichino un uso generalizzato di aspirina per la prevenzione primaria dell’infarto o dell’ictus. In effetti» prosegue il documento «ci sono gravi rischi associati all’uso di aspirina, compreso un aumento di rischio di emorragia nello stomaco e nel cervello».

La lunga attesa è stata spiegata con la volontà di raccogliere un maggior numero di dati: «Dopo l’incontro del 2003 del comitato consultivo, la FDA sapeva che erano in corso alcuni studi per la prevenzione primaria nei pazienti con diabete e malattia vascolare periferica. Abbiamo scelto di aspettare l’esito di questi studi, che sono stati pubblicati nell’arco degli ultimi anni, e non hanno dimostrato un beneficio significativo per la prevenzione primaria».

(Fonte: «Farmacista 33»)

La vita sospesa

9 maggio 2014

All’Upmc presbyterian hospital di Pittsburgh, in Pennsylvania, i chirurghi si preparano a eseguire una nuova procedura d’emergenza, per guadagnare tempo e curare ferite altrimenti mortali.  «Sospendiamo la vita, ma l’espressione ‘animazione sospesa’ non ci piace perché suona un po’ fantascientica», spiega Samuel Tisherman, il chirurgo che coordina la sperimentazione. «Preferiamo chiamarla conservazione e rianimazione d’emergenza».

La tecnica comporta la sostituzione del sangue con una soluzione salina a bassa temperatura, che raffredda rapidamente il corpo interrompendo quasi ogni attività cellulare. «Se arriva un paziente in fin di vita e lo mettiamo in uno stato di sospensione, possiamo rianimarlo dopo averlo curato», sostiene il chirurgo Peter Rhee, dell’università dell’Arizona di Tucson, che ha contribuito a sviluppare la tecnica. I benefici del raffreddamento, o ipotermia indotta, sono noti da tempo. Alla normale temperatura corporea, intorno ai 37 gradi, le cellule hanno bisogno di un’ossigenazione costante per produrre energia. Quando il cuore smette di battere, il sangue non porta più ossigeno alle cellule e, senza ossigeno, il cervello sopravvive appena cinque minuti prima che il danno diventi irreversibile. A temperature più basse, invece, le cellule hanno bisogno di meno ossigeno perché tutte le reazioni chimiche rallentano. Ecco perché a volte è possibile rianimare una persona caduta in un lago ghiacciato anche più di mezz’ora dopo che ha smesso di respirare. In certi casi, poco prima di un intervento al cuore o al cervello, i medici abbassano la temperatura corporea con impacchi di ghiaccio o fanno scorrere il sangue del paziente in un dispositivo di raffreddamento esterno, guadagnando fino a 45 minuti per fermare il flusso sanguigno e operare.

Il processo di raffreddamento, però, richiede tempo e un’accurata preparazione. Per chi arriva al pronto soccorso con una lesione traumatica da arma da fuoco o da taglio il raffreddamento lento è impraticabile. Spesso il cuore ha smesso di battere per l’eccessiva perdita di sangue, concedendo ai medici solo pochi minuti per fermare l’emorragia e farlo ripartire. Anche se l’emorragia si può fermare, in seguito non è come riempire un serbatoio vuoto. La rianimazione sottopone il corpo a un’improvvisa carica di ossigeno che può causare danni da ri-perfusione mortali. Nei casi di emergenza raffreddare il corpo potrebbe concedere ai medici più tempo.

La tecnica, sperimentata nel 2000 da Rhee e colleghi sui maiali, sarà adesso sperimentata per la prima volta sugli esseri umani. I medici, però, dovranno aspettare il paziente giusto: dovrà aver subìto un arresto cardiaco in seguito a una lesione traumatica e non aver risposto ai tentativi di rianimazione. In quei casi la probabilità di sopravvivenza non raggiunge il 7 per cento. Per prima cosa l’équipe inietterà una soluzione salina fredda e in un quarto d’ora la temperatura scenderà a dieci gradi. A quel punto il paziente non avrà più sangue nel corpo, non respirerà e non ci sarà attività cerebrale. Sarà clinicamente morto. Poi sarà staccato dai macchinari e portato in sala operatoria, dove i chirurghi avranno a disposizione due ore per intervenire sulla ferita. La soluzione salina sarà poi sostituita con il sangue. Se il cuore non dovesse ripartire da solo il paziente sarà rianimato. Il nuovo sangue riscalderà il corpo lentamente, contribuendo a evitare i danni da ri-perfusione.

La tecnica sarà testata su dieci persone e l’esito confrontato con altre dieci che, pur soddisfacendo i criteri, non saranno state curate così perché l’équipe non era disponibile. La procedura sarà perfezionata e poi sperimentata su altre dieci persone, spiega Tisherman, finché i risultati da analizzare non saranno sufficienti. Introdurre la tecnica negli ospedali non è stato facile: poiché la sperimentazione avverrà durante un’emergenza, né il paziente né i familiari potranno dare il consenso. Ma l’ente di controllo statunitense su farmaci e alimenti (Fda) la ritiene esente dal consenso informato perché riguarda persone con probabili lesioni mortali per le quali non c’è alternativa. L’équipe ha cercato di informare la cittadinanza sulla sperimentazione. Chi vuole può rinunciare online. Finora, nessuno l’ha fatto. (u sdf)

Helen Thomson

(Fonte:«Internazionale/New Scientist»)

I ricordi dell’infanzia? Ecco perché li dimentichiamo

10 maggio 2014

Molto spesso ci soffermiamo a pensare a quando eravamo bambini ma molti di quei ricordi risultano sbiaditi e poco chiari. Perché? La risposta arriva da uno studio appena pubblicato su «Science» che suggerisce che la neurogenesi, la generazione di nuovi neuroni, è responsabile della perdita di una parte della memoria in diverse specie, compreso l’uomo. Secondo lo studio, infatti, i neuroni di nuova formazione dell’ippocampo – l’area del cervello coinvolta nella formazione della memoria – potrebbero compromettere le informazioni precedentemente acquisite.

«È stata una scoperta sorprendente. La maggior parte di noi pensa che avere dei nuovi neuroni possa solo migliorare la memoria», spiega Sheena Josselyn, neuroscienziata che ha condotto lo studio insieme al marito Paul Frankland presso l’Hospital for Sick Children di Toronto.

I ricercatori hanno testato topi neonati e adulti su una paura condizionata: l’associazione tra un determinato ambiente e uno shock elettrico. Tutti i topi hanno imparato il compito in modo rapido, ma mentre i topi neonati ricordavano l’esperienza negativa per un solo giorno dopo l’allenamento, i topi adulti conservavano il ricordo per diverse settimane. Alla base una differenza nella proliferazione neuronale.

Il team di Josselyn ha provato, allora, a migliorare la persistenza dei ricordi nei topi neonati attraverso modifiche genetiche e chimiche che hanno agito rallentando la crescita dei neuroni. Nei topi più giovani, dove era stata inibita la formazione di nuovi neuroni, gli animali hanno mantenuto il ricordo della paura condizionata meglio dei topi non trattati.

Anche se apparentemente poco intuitivo, alcuni modelli teorici avevano già previsto questo effetto. La memoria si basa su un circuito, quindi se si aggiunge un elemento a questo circuito ci sono possibilità di modificarlo.

«La neurogenesi ha, quindi, un duplice effetto sulla memoria. L’integrazione dei nuovi neuroni nell’ippocampo facilita la codifica di nuove memorie ma aiuta anche a pulire il vecchio. Questa pulizia è importante perché aiuta la memoria a lavorare in modo più efficiente», ha spiegato Paul Frankland.

(Fonte: «Scienza in Rete»)

Mortalità infantile in calo globale, ma molto rimane da fare

12 maggio 2014

Sono 27 i Paesi in via di sviluppo che con ogni probabilità raggiungeranno il Millennium Development Goal 4 (Mdg 4), che consiste nel ridurre la mortalità infantile di due terzi tra il 1990 e il 2015. E ciò avverrà anche grazie al calo dei tassi di mortalità nei bambini sotto i 5 anni, che sta accelerando in molti Paesi in via di sviluppo, specie in Africa subsahariana.

I risultati, che giungono da un nuovo studio pubblicato su ««The Lancet» coordinato dall’Institute for Health Metrics and Evaluation (Ihme) dell’Università di Washington a Seattle, forniscono un’analisi approfondita dei progressi mondiali e nazionali verso la riduzione della mortalità infantile. «Negli ultimi decenni la riduzione della mortalità infantile è stata al centro di una grande attenzione politica e scientifica, con numerose iniziative fortemente volute da diversi leader mondiali che hanno portato alla definizione dell’Mdg 4» spiega Haidong Wang, primo firmatario dell’articolo, sottolineando che attori chiave, quali i governi degli Stati Uniti, Etiopia e India stanno ancora discutendo assieme all’Unicef di come ridurre ulteriormente la mortalità infantile dopo il 2015 azzerando entro il 2035 i decessi per cause prevenibili.

«L’Mdg 4 è motivato non solo dalle enormi disparità tra le nazioni, ma anche da prove convincenti che la mortalità infantile può essere ridotta anche in condizioni di scarsa disponibilità di risorse» afferma il ricercatore dell’Ihme. Tuttavia, anche se la tendenza a lungo termine punta a un generale ribasso, restano importanti disomogeneità tra i diversi Paesi, e comprenderne le cause può aiutare a individuare le aree critiche su cui focalizzare maggiore attenzione.

Tenere alto l’impegno politico per garantire anche in futuro l’implementazione di tecnologie salvavita in ambito pediatrico sarà cruciale, come anche la necessità di concentrarsi sui Paesi in cui i progressi sono stati finora deludenti. «L’obiettivo sono oltre tre milioni di morti infantili evitabili nel 2030, e non raggiungerlo sarebbe un feroce atto d’accusa nei confronti della comunità internazionale, colpevole di aver fallito nel garantire l’ulteriore riduzione di mortalità infantile che tutti si aspettano» conclude Wang.

(Fonte: «Pediatria 33»)
(Approfondimenti http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24797572)

Alcol. È una strage: ogni anno 3,3 milioni di morti nel mondo. Ma in Italia consumi sotto la media europea. Il rapporto dell’Oms

12 maggio 2014

In tutto il mondo nel 2012 3.3 milioni di persone sono morte come conseguenza dell’abuso di alcol. Questo il dato drammatico evidenziato dall’ultimo rapporto dell’Oms diffuso il 12 maggio. Il consumo di alcol – sottolinea l’Oms – può portare non solo alla dipendenza, ma aumenta anche il rischio di sviluppare più di 200 malattie, tra cui la cirrosi epatica e diversi tipi di cancro. Senza contare i rischi connessi alle conseguenze di comportamenti violenti verso terzi da parte di persone sotto gli effetti dell’alcol.

Il rapporto rileva inoltre come l’abuso di alcol renda le persone più suscettibili alle malattie infettive come la tubercolosi e la polmonite e fornisce anche i profili del consumo di alcol in 194 Stati membri dell’Oms, l’impatto sulle risposte di salute e di ordine pubblico.

«Molto deve essere fatto per proteggere le popolazioni dalle conseguenze negative sulla salute del consumo di alcool» , dice il dott. Oleg Chestnov , vice direttore generale dell’Oms per le malattie non trasmissibili e la salute mentale . «Il rapporto mostra chiaramente che non c’è spazio per il compiacimento quando si tratta di ridurre l’abuso di alcol».

Alcuni Paesi stanno già rafforzando le misure per proteggere le persone. Queste includono l’aumento delle tasse sugli alcolici, limitando la disponibilità di alcol innalzando il limite di età e regolando la commercializzazione di bevande alcoliche.

La relazione sottolinea inoltre la necessità di un’azione da parte dei Paesi, tra cui:

– leadership nazionale per sviluppare politiche per ridurre l’abuso di alcol (66 Stati membri dell’Oms hanno già messo a punto politiche nazionali di alcol nel 2012);
– attività nazionali di sensibilizzazione (quasi 140 Paesi hanno riferito di almeno una di queste attività negli ultimi tre anni;
– servizi sanitari per fornire servizi di prevenzione e di trattamento, in particolare aumentando la prevenzione, il trattamento e la cura per i pazienti e le loro famiglie, e iniziative di sostegno per lo screening e brevi interventi.
Inoltre, il rapporto evidenzia la necessità per la comunità ad essere impegnata nel ridurre l’uso nocivo di alcol.

In media ogni persona nel mondo di età compresa oltre i 15 consuma 6.2 litri di alcol puro all’anno. Ma dato che meno della metà della popolazione (38,3 % ), in realtà beve alcool, questo significa che coloro che ne fanno uso regolarmente ne consumano in media 17 litri all’anno.

La relazione sottolinea inoltre il fatto che una più alta percentuale di decessi tra gli uomini che tra le donne sono per cause alcol-correlate (7,6 % dei decessi degli uomini e il 4 % delle morti delle donne) anche se ci sono prove che le donne possono essere più vulnerabili all’alcol se si considerano le condizioni di salute correlate. Inoltre gli autori notano che c’è preoccupazione per il costante aumento dell’uso di alcol tra le donne.

«Abbiamo scoperto che in tutto il mondo circa il 16 % dei bevitori sono soggetti al cosiddetto ‘ binge – drinking ‘ – che è la forma di consumo più nocivo per la salute», spiega il dottor Shekhar Saxena , direttore per la Salute Mentale e Abuso di sostanze dell’Oms . «I gruppi a basso reddito sono i più colpiti dalle conseguenze sociali e sanitarie dell’alcol. Spesso manca un’assistenza sanitaria di qualità e sono meno protetti da reti familiari o comunitarie funzionali».

A livello globale , l’Europa è la regione con il più alto consumo di alcol pro capite, con alcuni dei suoi Paesi che hanno consumi particolarmente elevati. L’analisi dei trend mostra che il livello di consumo è stabile negli ultimi 5 anni nella regione, così come in Africa e nelle Americhe, anche se aumenti sono stati segnalati nel Sud-Est asiatico e nelle regioni occidentali del Pacifico.

Attraverso una rete globale, l’Oms sostiene i Paesi nel loro sviluppo e per l’attuazione di politiche volte a ridurre l’uso nocivo di alcol. La necessità di un’azione più intensa è stata approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2011, individuando l’alcol come uno dei quattro fattori di rischio comuni per le malattie non trasmissibili (Mnt) epidemiche.

(Fonte: «Quotidiano Sanità»)
(Approfondimenti: http://www.quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=7728534.pdf
http://www.quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=3285017.pdf)

International labour organization (Ilo): nel mondo tutela della maternità insufficiente per il 71,6% delle donne

12 maggio 2014

Nel mondo la tutela della maternità è inadeguata per il 71,6% delle lavoratrici, 830 milioni di donne. Lo rivela il rapporto dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) intitolato “Maternity and paternity at work: Law and practice across the world”. Si va dai 410 giorni di congedo previsti dalla normativa croata ai 30 della Tunisia, alla situazione degli Stati Uniti, con Oman e Papua Nuova Guinea uniche nazioni in cui l’assenza per maternità non è retribuita.

ITALIA IN CHIAROSCURO. Per quanto riguarda l’Italia, l’Ilo mette in evidenza luci e ombre: il nostro Paese garantisce 154 giorni di congedo (più di Germania, Francia e Spagna), ma è ancora indietro per quanto riguarda i permessi concessi ai padri e soprattutto per le lettere di dimissioni in bianco che vengono fatte firmare alle lavoratrici al momento dell’assunzione in modo che possano essere licenziate senza problemi quando restino incinte. Una prassi di cui in Italia si fa “largo uso”, segnalata anche in Croazia, Grecia e Portogallo.

Sempre sul fronte italiano, l’Ilo esprime apprezzamento per la riforma attuata nel 2013, che prevede che le madri possano rinunciare al congedo parentale (sei mesi di astensione dal lavoro al 30% della retribuzione) in cambio di un voucher da spendere per una baby sitter o un nido. Si tratta, secondo l’Organizzazione, di un esempio di «politiche innovative tese a promuovere il ritorno delle donne sul posto di lavoro consentendo di soddisfare le responsabilità legate alla cura del bambino».

LA SITUAZIONE GENERALE. Come detto, nel mondo il 71,6% delle lavoratrici, 830 milioni di donne, non è tutelato in modo adeguato in caso di maternità. L’80% delle donne non tutelate, si legge nel rapporto, si trova in Africa o in Asia, dove “il lavoro nero è predominante e i tassi di mortalità materna e infantile sono ancora molto elevati”.

Le lavoratrici che sono protette in maniera efficace e si avvalgono di benefici economici durante il periodo di maternità sono quindi il 28,4%. La percentuale di quelle che legalmente ha diritto a tutele è però più elevata: il 40,6%, laddove l’obbligo di congedo di maternità retribuito copre il 34,4% del totale. «C’è una differenza tra il numero di lavoratrici legalmente protette da sistemi di tutela della maternità e il numero di coloro che se ne avvalgono nei fatti», spiega l’Ilo, «la disparità tra i due dati dipende da come le leggi vengono applicate e garantite». La differenza tra le percentuali summenzionate deriva pertanto da «mancata conoscenza dei diritti legali e dei benefici, capacità contributiva insufficiente, disparità nei sistemi di sicurezza sociale, controlli inadeguati, pratiche discriminatorie, lavoro nero ed esclusione sociale».

«Tra i 185 Paesi presi in considerazione – si legge nel rapporto – 98 (il 53%) rispettano i criteri Ilo di almeno 14 giorni di congedo, 42 di essi raggiungono o superano le 18 settimane, mentre 27 Paesi, il 15%, ne garantiscono solo 12». Tra i Paesi europei, registrano dati superiori all’Italia: Regno Unito (un anno), Norvegia (315 giorni), Irlanda (294 giorni), Svezia (180 giorni) e alcuni Paesi dell’Europa dell’Est. Al di fuori del territorio Ue, si distinguono invece Vietnam (183 giorni), Cile (156 giorni) e Russia (140 giorni) a fronte di una media mondiale che si aggira grossomodo intorno ai 100 giorni.

I PADRI RESTANO AL LAVORO. Un neo padre norvegese, tra congedo di paternità e congedo parentale, può avvalersi di 112 giorni obbligatori di astensione dal lavoro, un record mondiale, mentre in Italia si ha diritto inderogabile ad appena un giorno di congedo retribuito. «In Italia si ha diritto a un totale di 10 mesi di congedo parentale complessivo per la famiglia, periodo che può aumentare di un mese se il padre si prende almeno tre mesi», spiega Laura Addati, autrice del rapporto, «in Italia durante il congedo parentale viene però corrisposto solo il 30% della retribuzione, quindi molti padri preferiscono rinunciarvi e lasciare alla madre l’utilizzo di tutto il congedo parentale, mentre in Paesi come la Svezia c’è un maggiore incentivo ad avvalersene perché viene corrisposto l’80% dello stipendio».

Le nazioni in cui i periodi di astensione retribuita dal lavoro garantiti ai neo padri (cumulando sempre sia il congedo di paternità che il congedo parentale) superano i 15 giorni sono comunque pochissimi. La Norvegia è seguita in classifica da Islanda e Slovenia (90 giorni), Svezia (70 giorni) e Finlandia (54 giorni). A fare compagnia all’Italia in fondo alla lista troviamo, con due giorni, Grecia, Olanda e Lussemburgo. Va ancora peggio, però, ai novelli papà tedeschi, che non hanno diritto a nemmeno un giorno di paternità, così come irlandesi, austriaci, cechi e slovacchi. Molto variegato il quadro al di fuori dell’Europa.

(Fonte: «la Repubblica»)

L’Europa riconosce dignità al «fine vita». La «Guida» sulle scelte rovescia luoghi comuni

13 maggio 2014

Caro direttore,

la «Guida sulle decisioni di fine vita», pubblicata una settimana fa dal Consiglio d’Europa, merita un supplemento di riflessione e non sarebbe saggio rigettarla affrettatamente perché non del tutto in sintonia con i nostri valori etici. Certo, l’enfasi posta sull’autonomia del paziente potrebbe essere pericolosa, se il principio di autonomia venisse assolutizzato. Ma essa viene mitigata dal richiamo agli altri princìpi che debbono fare da supporto alle decisioni: beneficenza, non maleficenza (primum non nocere!) e non discriminazione. Peraltro, la stessa distinzione tra interventi proporzionati e non proporzionati può essere di aiuto nelle decisioni.

La Guida affronta anche la controversa questione dell’idratazione e della nutrizione, riconoscendo significativamente per esse il ruolo di supporti esterni che «soddisfano esigenze fisiologiche». Dunque, «il cibo e le bevande sono elementi essenziali della cura al paziente che dovrebbero sempre essere assicurati, a meno che il paziente non li rifiuti». Del resto, cosa si potrebbe fare di diverso in un paziente mentalmente competente?

Nel caso dei pazienti che non sono in grado di assumere decisioni la Guida descrive bene la disputa in corso, senza assumere una posizione definitiva. Essa, tuttavia, pone significativi limiti all’uso (e all’abuso) delle Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) per affrettare la morte di disabili incompetenti. Si consiglia, infatti, che esse siano prodotte in forma scritta e autenticate da un legale, che abbiano attinenza alla specifica situazione, che anzi, per garantire una maggiore comprensione e consapevolezza del paziente, siano state preferibilmente redatte quando il processo patologico si era già avviato.

Si suggerisce inoltre il periodico rinnovo delle Dat, affinché esse presentino caratteristiche di attualità. In pratica si richiede che esse non siano state compilate quando il paziente poteva avere una percezione molto diversa di quella che sarebbe stata la sua condizione.

Inoltre, pur prendendo atto della Raccomandazione 11/2009 del Comitato dei Ministri in cui si consente agli Stati membri di conferire maggiore a minore vincolatività alla Dat, la Guida riconosce che anche negli Stati in cui il valore delle Dat è più cogente non esiste per il medico un obbligo assoluto di rispettare pedissequamente le decisioni manifestate dal paziente, per esempio quando esse siano datate e quando il progresso delle conoscenze scientifiche o le mutate possibilità di cura possano avere un «impatto significativo sul loro contenuto» rispetto al momento in cui le Dat furono redatte.

Si conferma ed esplicita così quanto previsto dall’articolo 9 della Convenzione di Oviedo, secondo cui i desideri precedentemente espressi da parte di un paziente che non è in grado di esprimere la sua volontà «saranno tenuti in considerazione», senza per questo costituire un obbligo per il medico, quando contrastino con il suo giudizio clinico o con le sue convinzioni etiche.
Che questa debba essere l’interpretazione sembra essere confermato dal fatto che nell’illustrare il principio di autonomia la Guida si richiama anche esplicitamente all’articolo 6 della Convenzione di Oviedo, secondo cui «un intervento non può essere effettuato su una persona che non ha capacità di dare consenso, se non per un diretto beneficio della stessa».

In sintesi, la Guida riconosce il ruolo professionale del medico, negando implicitamente la visione contrattualista che lo vorrebbe un mero esecutore dei voleri del “cliente” che sceglie di avvalersi delle sue prestazioni. Secondo la Commissione, infatti, «l’autonomia non implica il diritto del paziente di ricevere qualsiasi trattamento voglia, in particolare se si tratta di un trattamento considerato inappropriato», dovendosi piuttosto ricercare una «conciliazione tra la volontà del paziente e la valutazione della situazione da parte di un professionista». Tra medico e paziente si auspica dunque una relazione fondata sull’alleanza terapeutica: l’alleanza tra una fiducia e una coscienza.

Affinché non si affermi in Europa una “bioetica della maggioranza” a fondamento della convivenza civile, è necessario ripartire dal minimo comune denominatore che ci unisce tutti attorno al valore dell’uomo e alla deontologia professionale. La Guida proposta dal Consiglio d’Europa può costituire anche in Italia un’utile base per una riflessione, soprattutto nel momento in cui i medici si accingono ad adottare, non senza divisioni, un nuovo codice deontologico.

Gian Luigi Gigli – Deputato dei Popolari per l’Italia, neurologo
(Fonte: «Avvenire»)

Corte Ue: «Motore ricerca responsabile dati». Google: «Decisione deludente»

13 maggio 2014

«Il gestore di un motore di ricerca su Internet è responsabile del trattamento effettuato dei dati personali che appaiono su pagine web pubblicate da terzi»: così i giudici della Corte Ue in merito alla causa di un cittadino spagnolo contro Google. Insomma, da internet si può e si deve poter scomparire quando si vuole, e Google e gli altri motori di ricerca devono intervenire per assicurare questo “diritto all’oblio” anche su siti non controllati da loro, ma che nei loro risultati compaiono, facendo sparire dalle ricerche le tracce della persona che vuole essere “dimenticata”. La decisione ha colto di sorpresa Big G. «Si tratta di una decisione deludente per i motori di ricerca e per gli editori online in generale», ha fatto sapere un portavoce di Mountain View. «Siamo molto sorpresi che differisca così drasticamente dall’opinione espressa dall’Advocate General Ue e da tutti gli avvertimenti e le conseguenze che lui aveva evidenziato. Adesso abbiamo bisogno di tempo per analizzarne le implicazioni».

Così – spiegano i giudici del Lussemburgo – nel caso in cui, in seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona, l’elenco di risultati mostra un link verso una pagina web che contiene informazioni sulla persona in questione, questa può rivolgersi direttamente al gestore per la soppressione del collegamento. Nel caso in cui il gestore non dia seguito alla domanda, la persona può adire le autorità competenti per ottenere, in presenza di determinate condizioni, la soppressione di tale link dall’elenco di risultati. Tuttavia, poiché la soppressione di link dall’elenco di risultati potrebbe, a seconda dell’informazione, avere ripercussioni sul legittimo interesse degli utenti di Internet, la Corte constata che occorre ricercare un giusto equilibrio tra questo interesse e il diritto al rispetto della vita privata e il diritto alla protezione dei dati personali.

La Corte si è pronunciata su un caso che riguardava Google in Spagna: nel 2009 Mario Costeja, avvocato, si rese conto che cercando sul motore di ricerca il suo nome veniva fuori una nota legale del 1998 pubblicata sul sito del quotidiano «La Vanguardia» che elencava i suoi debiti dell’epoca. Quando «La Vanguardia» si rifiutò di rimuovere le informazioni, e Google si rifiutò di far sparire i link, Costeja si rivolse all’Agenzia spagnola di protezione dati che impose a Google di cancellare il link e non disse nulla al quotidiano. Google fece ricorso, e nonostante l’anno scorso l’avvocato generale della Corte avesse dato ragione all’azienda di Mountain View, oggi la Corte ha ribaltato quel parere (che non è mai vincolante).

La sentenza apre adesso a uno scenario inedito: oltre 500 milioni di cittadini dei 28 Paesi europei avranno il diritto di chiedere a Google la rimozione di link anche se sono contenuti legali e restano online sul sito che li ha pubblicati, attribuendo di fatto ai motori di ricerca il ruolo di decidere quale diritto deve prevalere tra diritto alla privacy, alla libertà di espressione o l’interesse pubblico di accedere all’informazione. Di vittoria parla invece chi, come la commissaria alla Giustizia Viviane Reding, in Europa si batte per regole sulla privacy più stringenti, che mettano un freno ai comportamenti ritenuti ‘spregiudicati’ di Google e Facebook. Secondo la Reding la sentenza «vendica» gli sforzi finora andati a vuoto per riformare le regole della protezione dati: «Le società ora non potranno più nascondersi dietro i loro server in California o altrove», ha scritto sul suo account Facebook. La sentenza del 13 maggio si basa sulla legge sulla protezione dati del 1995, e ha stabilito che compagnie come Google dovrebbero consentire ai loro utenti di essere “dimenticati” cancellando i link alle pagine web che contengono i loro dati “a meno che non vi siano ragioni particolari, come il ruolo pubblico del soggetto».

(Fonte: «la Repubblica»)

Colpevole o innocente? Il (neuro)giudice ti leggerà il cervello

14 maggio 2014

Primo interrogativo: perché un adolescente, alla ricerca di sensazioni forti, si droga, pur essendo consapevole del pericolo? Secondo interrogativo: a partire da quale istante un individuo non è capace di intendere e di volere, trasformandosi in un criminale che non riesce più a inibire i propri istinti? Nonostante le evidenti differenze, i due casi sollevano questioni simili: metodologiche, etiche e anche giuridiche.

Il professor Pietro Pietrini, un decennio passato agli Istituti nazionali di Sanità degli Usa, è oggi direttore dell’unità operativa di psicologia clinica all’Università di Pisa. Lo psichiatra – uno dei periti della prima sentenza in Europa ad aver tenuto in considerazione dati genetici e neuroscientifici, con la conseguente riduzione di pena – interverrà al convegno internazionale organizzato dalla Sine, la Società italiana di neuroetica, al via il 14 maggio a Padova. E proprio sul piano giuridico – si tratta di una questione-chiave – quanto è rilevante sapere quando un giovane non può non reagire in modo incontrollato? «Le indagini sulla struttura morfologica e funzionale rivelano che nell’adolescente il cervello è ancora in una fase di sviluppo, che poi prosegue anche dopo la maggiore età, a partire dalla quale si è considerati imputabili – spiega Pietrini -. Le modificazioni riguardano dimensioni, struttura e collegamento tra le diverse aree: le ultime a giungere a maturazione sono le connessioni della corteccia prefrontale, quella che più delle altre si è sviluppata nel corso dell’evoluzione e che è deputata alla regolazione del comportamento sociale e al controllo degli impulsi. A stabilire se un giovane potrà scivolare in una carriera criminale concorrono quindi molti fattori: oltre a quelli ambientali, si aggiungono diversi fattori genetici e neurobiologici, elementi che non sono più ignorabili con il pretesto dell’incompletezza delle conoscenze».

L’espressione dell’aggressività è un comportamento istintivo, funzionale alla sopravvivenza, che in noi – com’è noto – è modulato dalla ragione. La patologia subentra quando «salta» il meccanismo di regolazione, che oggi possiamo fotografare. «Le tecniche di neuroimmagine, infatti, permettono di osservare nel dettaglio la struttura e il funzionamento del cervello e confrontare l’architettura cerebrale e i modelli di attivazione neurale di chi ha compiuto dei crimini e di chi, invece, non presenta disturbi del comportamento, in situazioni nelle quali sono in gioco, di volta in volta, l’aggressività, l’empatia e il controllo degli impulsi». E i risultati delle osservazioni sono chiari. «Il cervello di alcuni criminali è diverso – aggiunge lo psichiatra -: la sostanza grigia prefrontale è ridotta di oltre il 20%, è più piccolo il fascio che unisce l’amigdala alle aree prefrontali del controllo cognitivo, detto fascicolo uncinato, così come è ridotta l’attivazione delle aree temporali e della corteccia orbitofrontale, legate all’empatia e all’autocontrollo».

Ma la questione è ancora più complessa. Avere identificato i circuiti neurali coinvolti nei processi decisionali e averne identificato una disfunzione in chi ha già commesso un crimine non significa approdare a conclusioni rozzamente deterministiche. Configurazioni geniche sfavorevoli, infatti, pur indicando una serie di predisposizioni ad agire in modo impulsivo, non sono condizioni necessarie né sufficienti per il crimine o per venire giudicati «tout court» incapaci di intendere e di volere. Le interazioni con l’ambiente – vale a dire le specifiche condizioni sociali e familiari – restano importantissime nel convertire in comportamento effettivo alcune predisposizioni neurobiologiche ad alto rischio.

L’essere umano, non a caso, si interroga da sempre sulla libertà di scelta. L’esercizio del libero arbitrio è la capacità di procrastinare la risposta a un impulso e, dunque, il ruolo dei lobi frontali è fondamentale. «Grazie alle neuroscienze potremo in futuro distinguere con precisione crescente tra coloro che agiscono al di fuori della legalità in modo consapevole – i cattivi per scelta – e quelli che invece sono incapaci di operare altrimenti – i malati -: questi ultimi non perseguibili dalla società, la quale potrà mettere in atto dei meccanismi di tipo protettivo».

Ma allora, affinati gli strumenti a disposizione, che differenza ci sarebbe tra un individuo che tace non perché reticente, ma perché le sue aree del linguaggio non funzionano correttamente, e un criminale con pesanti alterazioni a carico dei network cerebrali decisivi per il controllo degli impulsi? «Appare chiaro che la ricerca neuroscientifica – conclude Pietrini – impone una rivisitazione in ambito forense dei criteri con cui si stabiliscono la capacità di delinquere e di pari passo fornisce, e fornirà, nuove e più efficaci strategie di intervento educativo e rieducativo. Obiettivo: porre rimedio alle varie forme del disagio giovanile, fino a quello estremo che potrebbe sfociare in comportamenti criminali».

Nicla Panciera
(Fonte: «Tuttoscienze – La Stampa»)

World Health Statistics 2014. Ottant’anni per gli uomini e 85 per le donne: l’aspettativa di vita degli italiani. Europa mai così in buona salute

16 maggio 2014

Pubblicato ogni anno dal 2005 dal WHO, World Health Statistics è la maggiore fonte di informazioni sulla salute delle persone di tutto il mondo. Esso contiene i dati provenienti da 194 Paesi su una serie di indicatori: mortalità, malattie, tra cui l’aspettativa di vita, malattie e decessi per malattie importanti, servizi e trattamenti sanitari, investimenti finanziari nella sanità, così come i fattori di rischio e comportamenti che riguardano la salute.

Il 2014: grandi guadagni della speranza di vita. Ovunque le persone vivono più a lungo, secondo il “World Health Statistics 2014” pubblicato il 15 maggio dall’Oms. Basato su medie globali, una ragazza nata nel 2012 può aspettarsi di vivere per circa 73 anni e un ragazzo per 68 anni. Sono sei anni in più rispetto l’aspettativa media di vita globale per un bambino nato nel 1990.

«Una ragione importante per cui l’aspettativa di vita globale è migliorata così tanto è che meno bambini muoiono prima del loro quinto compleanno», dice il dott. Margaret Chan, direttore generale dell’Oms. «Ma c’è ancora un grande divario tra ricchi e poveri: persone in Paesi ad alto reddito continuano ad avere molte più possibilità di vivere più a lungo rispetto alle persone nei paesi a basso reddito».

I gap tra Paesi ricchi e poveri. Un ragazzo nato nel 2012 in un Paese ad alto reddito può aspettarsi di vivere fino all’età di circa 76, 16 anni in più di un ragazzo nato in un Paese a basso reddito (60 anni). Per le ragazze, la differenza è ancora più ampia; un gap di 19 anni separa l’aspettativa di vita in alto reddito (82 anni) e Paesi a basso reddito (63 anni).

Ovunque vivano nel mondo, le donne vivono più degli uomini. Il divario tra maschi e l’aspettativa di vita femminile è maggiore nei Paesi ad alto reddito dove le donne vivono circa sei anni più degli uomini. Nei Paesi a basso reddito, la differenza è di circa tre anni.

Le donne in Giappone hanno l’aspettativa di vita più lunga del mondo a 87 anni, seguita da Spagna, Svizzera e Singapore. L’aspettativa di vita femminile in tutti i primi 10 Paesi aveva 84 anni o più. L’aspettativa di vita tra gli uomini è di 80 anni o più in nove Paesi, con la più lunga aspettativa di vita maschile in Islanda, Svizzera e Australia.

«Nei Paesi ad alto reddito, gran parte del guadagno della speranza di vita è dovuto al successo nella lotta contro le malattie non trasmissibili», dice il dott. Ties Boerma, Direttore del Dipartimento di Statistica Sanitaria e Sistemi Informativi presso l’OMS. «Meno uomini e donne muoiono prima di arrivare al loro 60° compleanno di malattie cardiache e ictus. I Paesi più ricchi sono diventati più bravi nel monitorare e gestire la pressione alta, per esempio». Il calo dell’uso del tabacco è anche un fattore chiave per aiutare le persone a vivere più a lungo in diversi Paesi. All’altra estremità della scala, l’aspettativa di vita per uomini e donne è ancora inferiore a 55 anni in nove Paesi africani – Angola, Repubblica Centrafricana, Ciad, Costa d’Avorio, Repubblica Democratica del Congo, Lesotho, Mozambico, Nigeria e Sierra Leone.

Alcuni fattori chiave della “World Health Statistics 2014”. Le prime tre cause di anni di vita persi a causa di morte prematura sono la malattia coronarica, infezioni delle vie respiratorie inferiori (come la polmonite) e l’ictus.

In tutto il mondo, un grande cambiamento sta avvenendo nelle cause e nelle età di morte. In 22 Paesi (tutti in Africa), il 70% o più di anni di vita persi (a causa di morti premature) sono ancora causate da malattie infettive e patologie correlate. Nel frattempo, in 47 Paesi (per lo più ad alto reddito), malattie croniche e le lesioni causano oltre il 90% degli anni di vita persi. Più di 100 Paesi stanno passando rapidamente verso una maggiore proporzione di morti per malattie croniche e lesioni.

Intorno a 44 milioni (6,7%) dei bambini di tutto il mondo di età inferiore ai cinque anni erano in sovrappeso o obesi nel 2012. Dieci milioni di questi bambini erano nella regione africana dell’OMS dove i livelli di obesità infantile sono aumentati rapidamente. La maggior parte delle morti -si verificano tra i bambini nati prematuramente (17,3%); la polmonite è responsabile per il maggior numero di decessi (15,2%).

Tra il 1995 e il 2012, 56 milioni di persone sono state trattate con successo per la tubercolosi e 22 milioni di vite sono state salvate. Nel 2012, circa 450 000 persone nel mondo hanno sviluppato multi-tubercolosi resistente ai farmaci. Solo un terzo di tutte le morti nel mondo sono registrate nei registri civili insieme alle informazioni di causa-di-morte.

Insomma, le grandi sfide che attendono i sistemi sanitari sono l’invecchiamento della popolazione con il suo carico di cronicità, le malattie trasmissibili, gli stili di vita e perciò la prevenzione, l’equità di accesso ai sistemi di cura. Non si sfugge, da qui si misura ogni forma di reingegnerizzazione dei sistemi e del loro costo/sostenibilità.

I Sistemi sanitari europei quindi devono adattarsi al mutevole panorama demografico e al drammatico aumento delle malattie non trasmissibili e croniche.

La popolazione in Europa non è mai stata in migliore salute, ma i miglioramenti sanitari compiuti negli ultimi decenni sono in pericolo. Il panorama in costante evoluzione demografica e sociale e il carico di malattie non trasmissibili e croniche che affliggono la regione europea, con le sfide che portano alla sanità, sono ben documentati. Crescente urbanizzazione, maggiore mobilità internazionale, persistente ed elevato consumo di tabacco e alcol, obesità e sovrappeso specie tra gli adolescenti, vita sedentaria, stanno contribuendo ad uno spostamento del carico di malattia.

I sistemi sanitari devono ripensarsi per affrontare il conseguente aumento delle malattie croniche, come il diabete, malattie cardiache, malattie mentali, il cancro, la minaccia di epidemie di malattie infettive, così come essere in grado di rispondere alle esigenze di una popolazione che invecchia.

L’attuale crisi economica – che colpisce reddito, occupazione, istruzione, nutrizione, scelte di vita e determinanti sociali – con un impatto negativo complessivo sulla salute, nonché le limitazioni poste ai sistemi sanitari a causa delle politiche di austerità specie nei Paesi ad elevato debito pubblico, propongono riflessioni aggiuntive. Costruito intorno a Health 2020, il quadro politico europeo per la salute e il benessere, è radicato fermamente nei valori di solidarietà ed equità e sul miglioramento della leadership e della governance per la salute.

Health 2020 pone l’accento sulla creazione di solidi sistemi sanitari centrati sulle persone che siano sostenibili ed efficaci, e lo sviluppo di servizi sanitari pubblici moderni con una forte attenzione alla prevenzione e promozione della salute. Health 2020 dà una forte motivazione economica per investire nella prevenzione.

Ma, nonostante le sue sfide, la crisi economica è anche un’opportunità per i decisori di valutare i sistemi sanitari, adottare misure per migliorarne l’efficienza e riallinearli alle esigenze future, come ad esempio: l’eliminazione dei servizi inefficaci e inadeguati, migliorare l’uso razionale dei farmaci; reingegnerizzazione della salute primaria e delle prestazioni specialistiche ambulatoriali sul territorio, investire in infrastrutture sanitarie che sono meno costose da gestire (“investire per salvare”), e ridurre il volume dei servizi meno efficaci.

Consapevoli del mutato contesto socio-economico e demografico di oggi, e che i sistemi di salute sono chiamati a ripensarsi in profondità per essere all’altezza di fornire servizi appropriati e sensibili ai bisogni di tutti i cittadini, occorre quindi lavorare in tutti i settori per garantire che la promozione della salute sia al centro di tutte le decisioni di governo. Solo così, apportando modifiche profonde ai nostri sistemi sanitari adesso, potremo assicurare la prosperità, l’inclusione sociale e lo sviluppo della società in futuro.

Mi auguro che il nuovo Patto per la salute, la riforma del titolo V della Costituzione vadano in questo senso, sennò il nostro SSN rischia di implodere.

Grazia Labate
Ricercatore in economia sanitaria, già sottosegretario alla sanità
(Fonte: «Quotidiano Sanità»)
(Approfondimenti: http://www.quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=2203586.pdf)

Usa: primo sì a Internet a due velocità, neutralità della Rete a rischio

16 maggio 2014

Tutti i bit sono uguali, ma alcuni lo sono di più. E così gli Stati Uniti potrebbero avviarsi verso un’internet a due velocità. La Federal Communications Commission (Fcc), l’agenzia federale che regola le comunicazioni , ha dato l’ok all’apertura di un periodo di commenti di quattro mesi sul progetto di legge che potrebbe consentire ai grandi gruppi che gestiscono le telecomunicazioni, come Verizon o AT&T, di offrire ai loro clienti (Google, Netflix, ad esempio) la possibilità di avere più banda e priorità sulla rete pagando di più.

Un simile scenario finirebbe per tagliar fuori dalla corsia preferenziale di internet start up e aziende minori, che potrebbero non essere in grado di sopportare i costi più elevati necessari per garantire un servizio migliore. Intanto, se i grandi nomi delle telecomunicazioni sono favorevoli, i critici sono parecchi: i consumatori, che temono prezzi finali più alti, ma pure molte aziende della Silicon Valley, che solo la scorsa settimana avevano inviato una lettera ai regolatori federali sostenendo che le loro proposte fossero una «grave minacce a Internet». Importanti nomi della musica e dello spettacolo stanno cercando di far leva sulla coscienza civile degli americani in nome del principio che tutti i bit sono uguali. I sostenitori della neutralità della Rete il 16 maggio hanno fatto sentire la propria voce davanti alla sede della Fcc: un centinaio di persone si sono radunate con cartelloni che incitavano a salvare internet e hanno interrotto per due volte i lavori della commissione.

Il via libera alla proposta non significa che questa diventa subito legge: la misura sarà sottoposta a un periodo di due mesi per i commenti e le osservazioni pubbliche e poi le autorità avranno altri due mesi per replicare e accogliere eventuali suggerimenti.

Anche la commissione che l’ha approvata si è spaccata: se il voto ufficiale, tre a favore e due contrari, riflette le divisioni fra i due partiti, è anche vero che i democratici che l’hanno votata sono scettici. «Il processo che ha portato al voto è stato fallato. Avrei preferito un ritardo» afferma la democratica Jessica Rosenworcel, sottolineando di aver votato a favore solo dopo i «significativi aggiustamenti» apportati dal presidente della commissione, Tom Wheeler. «C’è un solo internet, non un internet veloce o un internet lento. Oggi ci siamo schierati con i consumatori per un internet aperto» mette in evidenza Wheeler, precisando che la commissione «è dedicata a proteggere e tutelare un internet aperto. Quella di oggi è una proposta sulla quale chiediamo commenti specifici su diversi approcci ai quali possiamo ricorrere per raggiungere lo stesso obiettivo, un internet aperto».

Un paio di punti del dibattito sembrano particolarmente interessanti: intanto l’istituzione di standard minimi per garantire la qualità dei servizi internet. Vanno ovviamente definiti i livelli del servizio, ma è anche indispensabile un servizio di controllo per essere certi che gli standard vengano rispettati. Il secondo punto è più controverso: si discute se considerare la banda larga come un servizio di interesse generale (accade ad esempio per il telefono e l’acqua pubblica). In questo caso, i provider di servizi internet a banda larga sarebbero tenuti per legge a fornire certi livelli di connessione a costi contenuti: è questa la speranza dei sostenitori della neutralità della Rete.

Wheeler è stato nominato alla guida della Federal Comunication Commission dal presidente americano Barack Obama, che finora non si è pronunciato sull’argomento nonostante le forti polemiche delle ultime settimane.

Bruno Ruffilli
(Fonte:«La Stampa»)

La famiglia è il cuore dello sviluppo umano

16 maggio 2014

In occasione del 20° anniversario dell’Anno Internazionale della Famiglia, monsignor Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia ha ricordato che la famiglia “non solo ‘conta’ ma è davvero al cuore dello sviluppo umano, indispensabile e insostituibile, e al tempo stesso bella ed accogliente”.

Il presule è intervenuto il 15 maggio alle Nazioni Unite al congresso sul tema “The Family at the Heart of Human Development”, sottolineando quanto la famiglia sia “una risorsa preziosa” ed “una incomparabile fonte di vita per gli aspetti spirituali, affettivi, generativi e di servizio agli altri dell’esistenza umana”.

La famiglia, ha proseguito monsignor Paglia, è un “fenomeno sociale unico” che dura nel tempo e che combina “due tipi di relazioni caratterizzati da radicali differenze: l’essere maschio e femmina e l’essere genitore e figlio”.

Lontana dagli assiomi dell’individualismo e da una nozione di eguaglianza e di diritti di tipo “quantitativo”, la famiglia vive di una “reciprocità asimmetrica”, ovvero di differenze tra i suoi membri che sono “qualitative e irriducibili”.

La famiglia è una vera e propria scuola di educazione all’“alterità” che non potremo mai trovare, quando cerchiamo “soltanto qualcuno che è come noi”: in tal caso la nostra vita si riduce a “una grande sala degli specchi, una cassa di risonanza”.

Quanto alla famiglia come fattore di “sviluppo”, Paglia ha sottolineato come nelle culture dove le relazioni maschio/femmina e genitore/figlio non presentano sufficienti livelli di integrazione, “lo sviluppo è più difficile”.

Poco prima dell’avvento dell’era cristiana fu Cicerone a riconoscere nella famiglia il “principium urbis et quasi seminarium rei publicae”, ovvero “principio della città” e “terreno fertile per la repubblica”. Senza la capacità di auto-organizzazione da parte della famiglia, ha aggiunto monsignor Paglia, “lo sviluppo della società come la conosciamo, sarebbe stato quasi impossibile”.

Se da un lato, nel corso dei secoli, la famiglia si è “purificata” da idee come la “possessione” e da certe storture disegualitarie, dall’altro non è pensabile abrogare “certe caratteristiche che sono state sempre identificate con la famiglia e con il rispetto della dignità di ogni individuo”.

È stato papa Francesco, nel suo recente messaggio alle Nazioni Unite, a ribadire i principi della sacralità della vita “dal concepimento alla morte naturale” e della protezione della famiglia come “elemento essenziale di ogni sviluppo economico o sociale”, in antitesi alla “economia dell’esclusione”, della “cultura dello scarto” e della “cultura della morte”.

Il rischio opposto all’individualismo, sottolineato da monsignor Paglia è quello del “familismo”, fenomeno per il quale la famiglia viene concepita come avulsa dalla società, in contrapposizione ai principi della comunità, diventando così scenario di abusi “amorali”.

Numerosi sono gli elementi di crisi della famiglia nella società di oggi: l’incremento dei divorzi, delle nascite fuori dal matrimonio e delle famiglie monoparentali, la diminuzione dei matrimoni, con la conseguenza di “anomalie demografiche”, di “fallimenti educativi e della socializzazione”, fino all’abbandono degli anziani e alla diffusione di “disturbi che portano alla violenza”.

Ciononostante, tali elementi di crisi della famiglia “possono essere anche un’opportunità di crescita”, ha aggiunto il presule. Tutto dipenderà da quanto sapremo essere “più attenti al più profondo desiderio degli uomini e delle donne d’oggi”. Serve, in altre parole, una famiglia che sappia “comprendere di più se stessa, più rispettosa dei legami con ciò che la circonda, più attenta alla qualità delle sue relazioni interne, più capace di vivere in armonia con altre famiglie”.

Nonostante le famiglie siano in numero minore che in passato, “non esiste luogo migliore della famiglia per la completa umanizzazione di chi vive in questo mondo”. Con i suoi difetti e limiti, essa rimane “il luogo del mistero della vita e della storia”.

È anche per questo che “la Chiesa Cattolica, da parte sua, non smetterà mai di sostenere ed assistere la famiglia” e che papa Francesco, “consapevole della sua indispensabilità e del suo dinamismo”, ha convocato un Sinodo sulla Famiglia, mettendola “al centro della Chiesa e di tutta l’umana riflessione”.

Al Sinodo non ci sarà posto per “dibattiti ideologici” ma, piuttosto, per “una considerazione della realtà della famiglia oggi e della sua missione nella società contemporanea”, nell’intento di trovare una connessione virtuosa tra “la famiglia” e “la famiglia dei popoli”, ha quindi concluso monsignor Paglia.

Luca Marcolivio
(Fonte: «Zenit»)

Yamamoto (Fujitsu): «Mondo sempre più connesso, ma le persone vanno messe al centro»

17 maggio 2014

Pagare o identificarsi mostrando semplicemente il palmo della mano. Guidare leggendo un libro. Negozi-camaleonte che si adattano a (gusti e comportamenti) dei clienti. E ancora: tablet con feedback tattile per percepire anche la ruvida corazza di un coccodrillo. Oppure: mangiare un’insalata nata in laboratorio, sotto la sapiente cura di tecnici. Sono solo alcune delle avveniristiche sfide che Fujitsu, il gigante giapponese di elettronica e Information Technology nato nel 1935 – e tra l’altro nuovo official partner del Milan – ha lanciato ed esposto in questi giorni a Tokyo al Fujitsu Forum, giunto alla sua seconda edizione.

«Vogliamo espanderci sempre di più, anche in Europa e nei Paesi emergenti», dice il presidente del colosso, Masami Yamamoto, durante una rara tavola rotonda con alcuni giornalisti di testate straniere, tra cui Repubblica. Dopo l’annuncio del Supercomputer K, “il più veloce del mondo”, alla base del nuovo corso Fujitsu, stimolato come già visto in altri gruppi nipponici (quale Panasonic) anche dalle aggressive politiche economiche e monetarie del premier Shinzo Abe, ci sono tre concetti molto semplici: lo tsunami dei Big Data – ossia l’enorme massa di informazioni che forniamo spesso inconsapevolmente ai server di tutto il mondo – il concetto di “cloud” e, di riflesso, quella che Yamamoto definisce human centric intelligent society. E cioè l’idea di una nuova società ultra-intelligente, di un ecosistema digitale, iperconnesso e costantemente migliorabile grazie a una information and communication technology (Ict) basata su bisogni e voleri delle persone e soprattutto sui dati che queste possono fornire alla sterminata “nuvola” di informazioni e ai Big Data.

Dalla semplice efficienza alla rigogliosa creatività dei singoli – che rispetto al passato hanno molti più modi e mezzi per esprimersi – dalle informazioni alla conoscenza, dal possesso alla condivisione sempre più esasperata: si tratta un cambio radicale di prospettiva e approccio alla vita cui dovremo presto abituarci, spiega Yamamoto. Del resto, fa notare l’analista americano Vernon Turner presente al Forum, nel 2020 il mondo ospiterà l’abnorme cifra di 30 miliardi (ma alcune stime della stessa Fujitsu parlano addirittura di 50 miliardi) di apparecchi e device connessi.

Una base sterminata per raggiungere l’obiettivo della human centric intelligent society, su una Terra che nel 2030 arriverà a contenere oltre 8 miliardi di abitanti, soprattutto nelle città (ben il 60%, fonte Onu). «Il brand non si costruisce più su un singolo prodotto», sostiene Yamamoto davanti ai giornalisti:«È vero che avere il proprio logo su uno smartphone è una sorta di legame diretto con il cliente, ma la cosa fondamentale oggi è lavorare contemporaneamente su software e hardware per creare le basi di una nuova società».

Esempio: c’è un ferito grave, causa incidente stradale. Nella società ventura per cui si sta impegnando Fujitsu, soccorritori, ambulanze, polizia e medici avranno tutti accesso a un enorme database per avere informazioni in tempo reale su traffico, sintomi del paziente, casi simili precedenti, ospedali con le migliore attrezzature, eccetera. Obiettivo: tagliare tempi, costi e soprattutto agire nel migliore dei modi, spesso automaticamente.

Ma questo è solo l’incipit di una lunga storia: nel futuro di Fujitsu, infatti, le automobili saranno quasi completamente assistite da un computer di bordo che eviterà incidenti e semplificherà molto la vita unendo e sintetizzando i dati di traffico, vettura e condizioni esterne, come del resto sta sperimentando Google da molto tempo. Non solo. Operai e lavoratori, per esempio, avranno uno speciale casco visore Hmd (Head-mounted-display) che, grazie a videocamere Ar (realtà aumentata) e sensori, ridurrà errori e rischi sul lavoro, assisterà gli operai in ogni momento, comunicherà istantaneamente alla centrale stato ed eventuali guasti dei macchinari, sintetizzando e analizzando in tempo reale i risultati di produzione. Questo perché, alla base della nuova società ipertecnologica ma umanocentrica di Fujitsu, oltre alla cloud, c’è l’M2M, ossia l’insieme di attività e interconnessioni machine to machine, tra macchina e macchina.

Nel campo dei servizi It, dove Fujitsu è leader in Giappone e seconda nel mondo per fatturato (dietro a Ibm), una delle novità più intriganti che Repubblica ha sperimentato nei laboratori a Kawasaki è il Palm vein personal authentication, ossia l’identificazione di una persona tramite lo scanner delle vene del palmo della mano (oltre alle impronte digitali di tre dita della stessa). Questo grazie a un microchip oramai piccolissimo, soli 5 millimetri di diametro, che riesce a individuare il soggetto tra ben 10 milioni di suoi simili e nel tempo record di due secondi. Ma ci sono anche chicche più semplici, come bastoni ultratech e il sistema di assistenza per anziani Spatiow (che monitorano ogni anomalia della persona sotto controllo, anche di abitudini), oltre a insospettabili collarini per cani (già in commercio) che, a distanza, monitorizzano costantemente la salute dell’animale.

Affascinanti, poi, le novità per lo shopping, che tuttavia potrebbero indispettire i più severi avvocati della privacy. Ad esempio, il sistema Shopping assistance with Eye Tracking mediante sensori sensibili allo sguardo riesce a percepire dove e per quanto tempo finisce più spesso l’occhio del cliente e come compara i prodotti, anche in riferimento a sue precedenti visite. Questo per calibrare meglio le strategie di vendita ed evitare sprechi, anche di energia. Oppure, ecco Sales spaces, ossia la rilevazione delle aree del negozio più occupate o calcate dai consumatori – effettuata mediante sensori laser e smartphone – per, sostiene Fujitsu, posizionare i propri prodotti in maniera più strategica.

O addirittura, e qui siamo al progetto Promotion for individual customers, all’ingresso del negozio compariranno su uno schermo consigli e promozioni personalizzate, in base a gusti, tracce e comportamenti di ogni singolo cliente, registrati di volta in volta dai sensori. Tutto questo senza Big Data non sarebbe possibile. «Capisco le inquietudini delle persone – dichiara Yamamoto – ma il futuro sarà sempre più iperconnesso. Oramai si condivide tutto. Le aziende se vogliono sopravvivere devono concentrarsi soprattutto su questo. E noi vogliamo mettere le persone al centro di questo storico passaggio».

Antonello Guerrera
(Fonte: «La Repubblica»)

Contrordine: vino e cioccolato non allungano la vita. Né aiutano a combattere il cancro e le malattie cardiovascolari

18 maggio 2014

È una doccia fredda per gli amanti del buon vino e i golosi e arriva dalle pagine elettroniche di «Jama»: il resveratrolo, un polifenolo che abbonda nel vino rosso e nella cioccolata, ma anche nelle noccioline, in alcune bacche e radici di piante asiatiche, considerato fino ad oggi un elisir di lunga vita per le sue proprietà anti-ossidanti, antinfiammatorie e anti-cancro, non sarebbe in realtà di grande utilità per la salute dell’uomo.

Lo dimostra lo studio di coorte ‘Invecchiare in Chianti’ (InCHIANTI), condotto a più mani da ricercatori della Johns Hopkins University, dell’Università di Barcellona e dell’INRCA IRCCS Istituto Nazionale di Riposo e Cura per Anziani di Ancona, tra il 1998 e il 2009, presso due villaggi dell’area omonima (Greve in Chianti e Bagno a Ripoli), prendendo in considerazione un campione popolazione di 783 persone di età pari o superiore ai 65 anni.

Per valutare se il resveratrolo assunto con gli alimenti, potesse rappresentare uno scudo protettivo contro l’infiammazione, il cancro, le malattie cardiovascolari e la mortalità, nei partecipanti allo studio sono stati dosati i metaboliti urinari del resveratrolo, insieme a PCR, IL-6, IL1 beta, TNF; questi dati di laboratorio sono stati messi in correlazione con la comparsa di malattie cardiovascolari, cancro e la mortalità (nel corso dei 9 anni di follow up, è deceduto il 34,3% dei partecipanti). Risultato: nessuna relazione tra le concentrazioni dei metaboliti urinari del resveratrolo e la comparsa di malattie o la longevità. Questo studio dimostrerebbe insomma che il resveratrolo assunto con la dieta da persone adulte-anziane non esercita alcuna influenza protettiva nei confronti di infarto o tumori, né allunga la vita.

Maria Rita Montebelli
(Fonte: «Quotidiano Sanità»)
(Approfondimenti: http://archinte.jamanetwork.com/article.aspx?articleid=1868537)

Cannabis, legalizzazione andata in fumo

18 maggio 2014

La cannabis è, fra le sostanze illecite, quella utilizzata dal maggior numero di individui nel corso della vita. L’uso di cannabis ha un picco massimo di utilizzazione intorno ai 16 anni, cioè, nella tarda adolescenza e un inizio precoce, tra i 12 e i 13 anni, riducendosi drasticamente nell’adulto. L’alta prevalenza della cannabis corrisponde ad una percezione sociale di un rischio associato relativamente basso. Così, nel sondaggio del 2013 effettuato dalla Gallup negli Usa, alla domanda «Pensi che l’uso della marijuana debba essere legalizzato o no?», il 58% degli intervistati ha risposto sì. Paradossalmente, la percezione della cannabis come droga benigna contrasta con i risultati della ricerca che mostrano come un uso pesante di cannabis iniziato nell’adolescenza (prima dei 18 anni) produca deficit cognitivi che si traducono nell’adulto in una riduzione globale del coefficiente di intelligenza.

E sebbene un consumo iniziato in età adulta non sia associato a deficit cognitivi, questa apparente normalità è ottenuta al prezzo di un abnorme aumento dell’attività funzionale in alcune aree cerebrali o al reclutamento di aree che di norma non sono attivate. D’altra parte, se è vero che il potenziale d’abuso e dipendenza della cannabis è circa un terzo dell’eroina, la diffusione della cannabis è tale che il numero dei soggetti ad essa dipendenti è circa 10 volte quello dei soggetti dipendenti all’eroina. Infine, la marijuana attuale ha un titolo in THC, il suo principio attivo, almeno 10 volte più elevato di quella che circolava ai tempi nei quali chi scrive era poco più che ventenne, cioè nel ’68.

Come mai dunque, i dati della ricerca scientifica, pur significativi, non hanno scalfito la nozione della cannabis come “soft drug”? Sicuramente un fattore che ha fortemente contribuito a questo è che, al contrario di altre droghe, alcol compreso, la cannabis è priva di effetti letali anche a dosi elevate. Tanto che secondo alcuni epidemiologi, un effetto positivo della legalizzazione della cannabis potrebbe derivare dal fatto che, nelle abitudini dei giovani, essa si sostituisca all’alcol “to get stoned”, come cantava Bob Dylan, cioè come droga da sballo. Il pericolo è, però, che la cannabis si aggiunga all’alcol, con effetti micidiali sulla guida. Se è quindi vero che di cannabis non si muore, se non indirettamente, non c’è dubbio che il suo uso ha un costo sanitario in termini di globale disabilità, che, da un punto di vista socio-economico, è equivalente a un numero di anni di vita persi circa il doppio di quello correlato all’uso di cocaina, una droga considerata pesante.

Sicuramente negli Usa fattori politici e legislativi hanno contribuito a ridurre la percezione del rischio associato alla cannabis, primo fra tutti il fatto che la sua assunzione attraverso il fumo, cioè la stessa via che viene utilizzata per il suo consumo ricreazionale, sia stata legalizzata per uso medico attraverso referendum che in Europa sarebbero inconcepibili, in quanto privi di quorum. Tuttavia, l’uso del fumo di cannabis come via di somministrazione a scopo terapeutico è un non senso farmacologico, dato che non consente un preciso e prevedibile dosaggio dei principi attivi in esso contenuti, siano essi il THC o il cannabidiolo, e in più espone agli stessi principi cancerogeni contenuti nel fumo di sigaretta. È ormai palese infatti che negli Usa la legalizzazione del fumo di cannabis per uso medico non sia stato altro che un escamotage per produrre, vendere e consumare la cannabis a scopo ricreazionale senza incorrere nei reati penali che la legge federale comporta. Così, meno del 5% dei soggetti abilitati a consumare cannabis medica sono affetti da condizioni che giustificano un uso terapeutico, come tumori in stadio terminale, cachessia e sclerosi multipla; la stragrande maggioranza denuncia dolori non meglio specificati e di natura non organica.

A questo proposito, non bisogna confondere la cosiddetta medical cannabis o medical marijuana, legalizzata negli Usa, con la cannabis terapeutica di cui si parla in Italia e in Europa. Con questo termine infatti non ci si riferisce al fumo di cannabis, ma a quei preparati, approvati dagli enti regolatori, Emea per l’Europa, e Aifa per l’Italia, che hanno caratteristiche di medicinali. Tra questi, un estratto acquoso contenente THC e cannabidiolo, approvato per l’uso nella sclerosi multipla o un analogo sintetico del THC, il nabilone. L’uso di tali medicinali a scopo ricreazionale è reso insostenibile dal costo e dal fatto che non sono fumabili. I derivati della cannabis per il momento disponibili sono comunque medicinali di seconda scelta, dato che, per le stesse indicazioni (come analgesici o antispastici) esistono farmaci più efficaci. Ciò ovviamente non esclude che in futuro possano essere sviluppati nuovi farmaci cannabinoidi ben più utili degli attuali.

L’esperienza degli Usa, dove 20 Stati hanno legalizzato il fumo di cannabis per uso medico e due anche per uso ricreazionale, indica che la legalizzazione della cannabis aumenta soprattutto la quantità consumata pro capite. Perciò è prevedibile che il guadagno per gli Stati derivante dall’introito delle accise applicate alla cannabis legale potrebbe venire annullato dalle maggiori spese connesse al trattamento dei suoi effetti cronici. L’esperienza Usa indica che i due mercati, legale e illecito, sono strettamente connessi.

Così, quantità sostanziali di marijuana medica prodotta in eccesso grazie ad economie di scala, sono dirottate verso il mercato clandestino. Tuttavia, negli Usa gli adolescenti non possono accedere alla cannabis legale. Paradossalmente, quindi, la legalizzazione non riguarda i minori, cioè i maggiori consumatori di cannabis e quelli più a rischio per i suoi effetti a lungo termine. Risultato: negli Usa la legalizzazione della cannabis non ha eliminato il mercato illegale ma ne ha semplicemente ristretto la clientela agli adolescenti e agli adulti che non possono permettersi il costo elevato della cannabis legale. La legalizzazione della cannabis negli Usa rappresenta un colossale esperimento in natura, da cui l’Europa farà bene a imparare, prima di affrettarsi ad imitarlo.

Gaetano Di Chiara
(Fonte: «Il Sole 24 Ore»)

Biodiversità, Onu: «L’uomo una minaccia per tutte le specie». Italia in ritardo

21 maggio 2014

L’uomo potrebbe rappresentare oggi per molte specie animali e vegetali ciò che un asteroide fu per i dinosauri 65 milioni di anni fa: una minaccia di estinzione di massa. La sesta, in ordine di tempo, tra quelle conosciute dalla Terra dalla comparsa della vita pluricellulare. Come ammonimento contro questo rischio, paventato da molti biologi e naturalisti, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite a partire dal 2000 ha proclamato il 22 maggio, data in cui fu adottata nel 1992 la Convenzione sulla diversità biologica, Giornata mondiale della biodiversità.

I PRIMI PROFUGHI CLIMATICI POTREBBERO ESSERE ESCHIMESI. La scelta dell’Onu quest’anno è caduta sull’ecosistema delle isole, in particolar modo le più piccole, in cui vive circa un decimo della popolazione mondiale. Un habitat considerato tra i più vulnerabili ai mutamenti climatici, basti pensare alla fragilità delle barriere coralline. I pericoli maggiori per questi ecosistemi, secondo gli ultimi rapporti dell’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc), l’organismo delle Nazioni Unite per lo studio del clima, sono rappresentati dall’innalzamento del livello degli oceani, stimato dall’Ipcc tra 0,18 e 0,59 metri entro la fine del secolo, e dalle tempeste sempre più frequenti e violente, che rischiano di creare profughi climatici. I primi potrebbero essere i 400 eschimesi che abitano la piccola isola di Kivalina, di fronte la costa ovest dell’Alaska, che secondo gli esperti potrebbe essere tra le prime a sparire entro il 2025.

Le isole sono un’importante cartina al tornasole della biodiversità. Lo sapeva bene Charles Darwin che, grazie anche alle osservazioni compiute su un habitat insulare, le Galapagos, riuscì a elaborare la sua teoria dell’evoluzione. E lo confermano le indagini della cosiddetta Lista rossa delle specie in pericolo, che proprio quest’anno compie 50 anni, in base alle quali il 90% degli uccelli e il 75% delle specie animali estinte a partire dal 17esimo secolo vivevano in habitat insulari. Vero e proprio “Barometro della vita”, secondo una definizione della rivista «Science», la Lista, messa a punto dall’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn), assegna a più di 70mila specie una categoria di rischio. Si va dalle specie estinte a quelle fuori pericolo, passando dagli organismi che ormai sopravvivono solo in cattività a quelli che, a vari livelli, sono minacciati di estinzione.

BIODIVERSITÀ, 30MILA SPECIE PERSE OGNI ANNO. Ma perché è così importante la biodiversità? Questo termine è usato comunemente per indicare l’insieme degli individui e delle specie che vivono in una determinata area. Definizione che, estesa all’intero Pianeta, porta a descrivere la biodiversità come “la varietà della vita sulla Terra a tutti i livelli”. Un concetto che può sembrare in apparenza generico e lontano. Ma che, espresso in termini di relazione degli organismi tra loro e con l’ambiente, come amano fare gli scienziati, riguarda da vicino una specie in particolare e il suo modo di vivere il rapporto con la natura, l’Homo sapiens. Specie che, a dispetto del nome, sta modificando sempre più gli equilibri esistenti tra gli ecosistemi, con seri rischi per l’ambiente. Il biologo di Harvard Edward Owen Wilson più di un decennio fa ha quantificato in 30mila specie l’anno la perdita di biodiversità terrestre, e sintetizzato il peso dell’uomo sulla diversità biologica coniando un curioso acronimo, “HIPPO”. Parola in cui la “H” sta per “Habitat loss”, cioè la perdita di ambiente naturale in favore di coltivazioni e insediamenti umani; la “I” per “Invasive species”, le specie aliene introdotte dall’uomo in ecosistemi diversi da quelli di origine, che proliferano in maniera incontrollata fino a sterminare quelle indigene; le due “P” per “Pollution”, l’inquinamento antropico e “Population”, a indicare la continua crescita della popolazione umana, giunta ormai a superare i sette miliardi di individui; infine la “O” che sta per “Overharvesting”, il crescente sequestro delle risorse ambientali fino al loro completo depauperamento. Pressioni ambientali cui va, inoltre, aggiunto il mutamento globale del clima.

IPCC, INCREMENTO AREE URBANE E PERDITA DI SUOLO FERTILE. “Maggiore è il grado di biodiversità, più grande sarà la capacità degli ecosistemi di sopportare perturbazioni esterne, indotte ad esempio dai cambiamenti climatici”, affermano gli scienziati dell’Ipcc per sottolineare l’importanza della diversità biologica. “L’incremento e la diffusione delle aree urbane e delle relative infrastrutture – aggiungono gli esperti della Convenzione Onu sulla biodiversità – ha determinato un aumento dei trasporti e del consumo energetico, con la conseguente crescita delle emissioni di gas serra e inquinanti atmosferici. Inoltre – sottolineano gli studiosi di biodiversità – la trasformazione dei terreni da naturali, come le foreste, ad altre destinazioni d’uso, semi-naturali come le coltivazioni, o artificiali come le infrastrutture, non solo sta provocando la permanente, e in molti casi irreversibile, perdita di suolo fertile, ma ha anche altri effetti negativi, come l’alterazione degli equilibri idrogeologici”.

L’ITALIA PERDE 8 METRI QUADRATI DI TERRENO AL SECONDO. L’Italia, proprio sul tema del dissesto idrogeologico, sta ancora perdendo terreno. Letteralmente. Secondo l’ultimo report dell’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale la crisi non sembra aver affatto frenato il consumo di suolo nel nostro Paese. “Il fenomeno è in aumento, al ritmo di 8 m2 al secondo. Negli ultimi tre anni – affermano gli esperti italiani – abbiamo divorato un’area di 720 km2, grande come cinque capoluoghi di regione, Milano, Firenze, Bologna, Napoli e Palermo, perdendo così la capacità di trattenere 270 milioni di tonnellate d’acqua. Il 7,3% del territorio è ormai da considerare perso. La cementificazione – si legge inoltre nel rapporto – ha comportato tra il 2009 e il 2012 l’immissione in atmosfera di 21 milioni di tonnellate di CO2, valore pari a 4 milioni di utilitarie in più, l’11% dei veicoli circolanti nel 2012”.

EPPURE, IL NOSTRO PAESE PARTE DA UNA CONDIZIONE DI PRIVILEGIO. “L’Italia – sottolineano gli esperti Onu sulla biodiversità – grazie alla sua varietà geografica che comprende regioni alpine, continentali e mediterranee, e alle sue coste che si estendono per 7400 km, è un Paese estremamente ricco in biodiversità, con il più elevato numero e la maggiore densità di specie animali e vegetali dell’Unione Europea. La stima – in base ai dati delle Nazioni Unite – è di 58mila specie animali, il 95% delle quali rappresentate da invertebrati, 6.700 specie vegetali e 20mila fungine. Ogni anno, inoltre, sono almeno 20 le nuove specie classificate sul territorio nazionale, di cui una percentuale superiore al 10% è rappresentata da aree protette”.

Ma costa sta facendo il nostro Paese per mantenere questo primato europeo? Se in ambito economico e finanziario ha preso provvedimenti, spesso all’insegna di austerità e rigore, con la motivazione che erano richiesti dall’Europa, sulla diversità biologica, dopo aver ratificato nel 1994 la Convenzione Onu, l’Italia è in linea con gli organismi internazionali?

DOPO LA CONVENZIONE ONU, CARENZE E MANCANZA DI COORDINAMENTO. Nel 2010, in occasione dell’Anno internazionale della diversità biologica, il ministero dell’Ambiente ha messo a punto la “Strategia nazionale per la biodiversità” , un documento suddiviso in tre punti cardine: biodiversità ed ecosistemi, biodiversità e cambiamento climatico, biodiversità e politiche economiche, che devono trovare attuazione nel decennio 2011-2020. Nel 2015, anno di scadenza dei cosiddetti Obiettivi del millennio tra i quali c’è, al settimo punto, quello di assicurare la sostenibilità ambientale, ad esempio riducendo proprio la perdita di biodiversità – è in programma una verifica approfondita sulla validità dell’impostazione della strategia.

Ma un primo parziale bilancio esiste già. È rappresentato dalla prima analisi, tra quelle previste con cadenza biennale, dello stato di attuazione della strategia nazionale. Nelle conclusioni del rapporto, redatto dallo stesso ministero dell’Ambiente e riferito agli anni 2011-2012, emergono ancora molte ombre. Nella tabella delle quindici aree di lavoro in cui è stata suddivisa la strategia, la scala cromatica che evidenzia lo stato di attuazione degli interventi mostra solo un piccolo quadratino verde, come segno tangibile di un risultato positivo, in mezzo a tanti grigi. Nel report si parla, ad esempio, di “Carenze dovute ad un assetto nazionale e locale che spesso risente della mancanza di coordinamento nell’adempiere agli obblighi assunti” e di “Ritardi e scarsa incisività che spesso comportano l’apertura di procedure d’infrazione”. Si sottolinea, inoltre, che “Lo stato di crisi globale, comunitaria e nazionale, non facilita l’interesse verso i temi della conservazione della biodiversità, malgrado rappresentino una risorsa fondamentale su cui fare affidamento”.

IL PALEONTOLOGO ELDREDGE: “LA VITA SI È SEMPRE RIPRESA DOPO UNA ESTINZIONE”. Ma la Natura, a dispetto del disinteresse umano, potrebbe da sola trovare le giuste contromisure. “La vita ha capacità di recupero incredibili e si è sempre ripresa, anche se dopo lunghi intervalli di tempo, in seguito a spasmi di estinzione importanti – afferma Niles Eldredge, paleontologo dell’American museum of natural history di New York, in un’enciclopedia integrata della biodiversità, dell’ecologia e dell’evoluzione, dal titolo “La vita sulla Terra”. Ma questa ripresa è sempre avvenuta solo dopo la scomparsa di ciò che aveva provocato l’estinzione. E, poiché nel caso della sesta estinzione la causa siamo noi, l’Homo sapiens, questo significherebbe la nostra stessa scomparsa. A meno che – auspica lo studioso americano – non scegliamo di modificare i nostri comportamenti nei confronti dell’ecosistema globale”.

Davide Patitucci
(Fonte: «l Fatto Quotidiano»)
(Approfondimenti. http://www.cbd.int/idb/;
http://discovermagazine.com/2001/dec/breakdialogue;
http://www.isprambiente.gov.it/it/pubblicazioni/rapporti/il-consumo-di-suolo-in-italia/view;
http://www.codiceedizioni.it/files/2010/07/8875780099.pdf)

Di fronte all’OMS la Chiesa difende la centralità della persona umana

21 maggio 2014

“È mio vivo desiderio, infine, che il lavoro di questa Assemblea ci aiuti a riaffermare la centralità della persona umana in tutti i nostri sforzi per la promozione della salute”. Con queste parole l’arcivescovo Zygmunt Zimowski ,Capo della Delegazione della Santa Sede, ha concluso il suo intervento alla 67a Assemblea Mondiale della Sanità che si sta svolgendo a Ginevra.

Facendo riferimento alla crisi ambientale e agli effetti che le politiche di sfruttamento utilitaristico hanno sulle popolazioni e sull’ambiente, Monsignor Zimowski ha sottolineato che “dobbiamo guardare al di là delle questioni puramente scientifiche, mediche ed economiche” connesse con i disastri ambientali e “incontrare le persone che ne sono più colpite”. Citando san Giovanni Paolo II, il capo delegazione della Santa Sede ha ricordato che “la difesa della vita e la conseguente promozione della salute, specialmente nelle popolazioni più povere e in via di sviluppo, sarà ad un tempo il metro e il criterio di fondo dell’orizzonte ecologico a livello regionale e mondiale”.

Monsignor Zimowski ha lodato il Segretariato dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, (OMS) per gli sforzi compiuti nel trattamento dei disturbi dello spettro autistico, sfatando alcuni dei miti che circondano l’autismo, sviluppando una partnership con organizzazioni della società civile impegnate a migliorare i servizi e a definire le priorità delle azioni nazionali e sub-nazionali.

È sincera speranza della delegazione della Santa Sede di alleviare la situazione di molte famiglie, che spesso devono assumersi da sole il carico emotivo ed economico derivanti dalla impegnativa responsabilità di prendersi cura dei bambini affetti da questi disturbi.

“La Santa Sede – ha aggiunto l’arcivescovo – desidera contribuire a questi sforzi con una Conferenza Internazionale organizzata dal Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, che si terrà in Vaticano dal 20 al 22 novembre prossimi, sul tema: ‘La persona con disturbi dello spettro autistico: animare la speranza’ ”.

Per quanto riguarda l’alimentazione materna, dei lattanti e dei bambini, la delegazione della Santa Sede ha ribadito che “l’allattamento al seno è una protezione importante contro la malnutrizione infantile e deve quindi essere difeso e incoraggiato nell’ambito dell’assistenza sanitaria primaria”.

A questo proposito monsignor Zimoski ha ricordato che papa Francesco, durante una funzione battesimale nella Cappella Sistina lo scorso gennaio, ha incoraggiato le madri a superare l’esitazione di allattare al seno i loro bambini quando avessero avuto fame.

Antonio Gaspari
(Fonte: «Zenit»)

Una Task force contro la multi-resistenza

22 maggio 2014

Evocata da più parti come un’emergenza planetaria, il fenomeno della multi-resistenza agli antibiotici ha persuaso il primo ministro dell’Unione europea e il presidente degli Stati Uniti d’America a istituire nel 2009 una Task Force transatlantica (Tatfar). L’obiettivo è studiare le cause e mettere all’opera le strategie necessarie a soddisfare le 17 raccomandazioni per incentivare l’appropriatezza d’uso di questi farmaci e la prevenzione degli esiti sfavorevoli. In questi ultimi cinque anni gli esperti si sono riuniti regolarmente e un Progress report, pubblicato ora sul sito dell’Agenzia europea del farmaco, riassume il lavoro svolto.

In Europa si stimano 25.000 morti l’anno a causa dell’antibiotico-resistenza. Questo dato dà la misura della gravità della situazione, la presenza di microrganismi sempre più resistenti ai farmaci è considerata una minaccia seria, e già in atto, anche dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). L’aggiornamento della Task Force transatlantica si concentra innanzitutto sulle cause della resistenza, individuate nella rapida crescita dell’uso improprio e dell’abuso di antibiotici e, d’altra parte, sulla scarsità di investimenti dedicati alla ricerca di nuovi antimicrobici. Gli esperti sostengono che, se non verrà invertita la rotta, a soli 70 anni dall’introduzione degli antibiotici, le nuove generazioni non avranno armi a disposizione per fronteggiare infezioni banali, come una sbucciatura al ginocchio. La pratica della medicina, inoltre, stenterà ad adottare procedure innovative e a fare progressi per colpa dell’antibiotico-resistenza.

Nella complessa partita della lotta ai batteri avrà un ruolo cruciale anche lo sviluppo di protocolli comuni di impiego degli antibiotici in ospedale basati sia sui dati più recenti pubblicati dalla Cochrane collaboration sia su unità di misura paragonabili a livello internazionale come Ddd (Defined daily dose) e Dot (giorni di terapia). Fondamentali saranno anche il monitoraggio dell’impiego di antibiotici nel settore veterinario e nei mangimi (in relazione al rischio di resistenza trasmessa agli uomini), la diffusione di campagne di informazione sull’uso corretto e altre iniziative volte ad alzare la guardia contro il rischio di perdere una guerra che la medicina aveva già vinto brillantemente.

Perché interessa il farmacista: l’Italia è uno dei Paesi in testa al consumo eccessivo di antibiotici. Il farmacista è la figura ideale per trasmettere al pubblico indicazioni sull’effettiva utilità di questi farmaci e sui rischi di interrompere la terapia prima dei tempi indicati.

Marvi Tonus
(Fonte:«Farmacista 33»)

Infezione umana da nuovo Coronavirus (Middle East respiratory syndrome coronavirus infection, Mers CoV)

22 maggio 2014

Al 16 maggio 2014, sono stati notificati all’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) globalmente 614 casi umani confermati di infezione da un nuovo coronavirus (Mers CoV), di cui 181 sono deceduti.

In Medio Oriente, hanno notificato casi umani confermati di Mers Cov: Giordania, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Yemen e Libano. Casi confermati sono stati riportati da Paesi dell’Unione europea (Francia, Germania, Regno Unito, Italia, Olanda e Grecia), del Nord Africa (Tunisia ed Egitto), Asiatici (Malesia e Filippine) e delle Americhe (Stati Uniti).
La distribuzione del casi umani confermati di Mers CoV al 16 maggio 2014, è riportata dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc). La maggior parte dei casi si è verificata in Paesi del Medio Oriente o in persone che avevano recentemente viaggiato in questa regione. In Francia, Tunisia e Regno Unito si sono verificati limitati casi di trasmissione interumana in soggetti che non si erano recati in Medio Oriente ma che erano stati a stretto contatto con casi confermati o probabili che, a loro volta, avevano viaggiato in Medio Oriente.

Dalla metà del mese di marzo 2014 è stato registrato un aumento nel numero di casi umani di Mers CoV, principalmente dovuto a due grandi cluster epidemici nosocomiali in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi. La maggior parte dei questi casi erano secondari, tra personale sanitario con presentazione clinica pauci o asintomatica. La trasmissione interumana di Mers CoV non sembra, tuttavia, essere sostenuta e, ad oggi, sono stati riportati solo due possibili casi terziari di infezione.
Sebbene i dromedari siano stati indicati come una possibile fonte primaria di infezione per l’uomo, i serbatoi dell’infezione e le vie di trasmissione non sono ancora stati individuati. Pertanto non è ancora possibile mettere in atto misure di prevenzione specifiche volte ad evitare l’esposizione a Mers Cov.

Come riportato dall’Oms nel risk assessment del 24 aprile, questo è il terzo anno consecutivo in cui viene registrato un aumento del numero dei casi umani di Mers CoV nel periodo tra marzo-aprile, suggerendo un possibile andamento stagionale dell’infezione. Una valutazione epidemiologica realizzata da esperti dell’Oms in Arabia Saudita a maggio 2014 ha inoltre concluso che non vi è evidenza che l’aumento del numero di casi rifletta un cambiamento significativo nella trasmissibilità del virus.

Il rischio di trasmissione secondaria di Mers Cov nell’Unione europea rimane basso secondo la valutazione del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (fonte: Updated Rapid Risk Assessment, Ecdc, 24 aprile 2014, pdf 1,1 Mb). Una attenta valutazione del rischio di esposizione a Mers Cov in pazienti con sintomi respiratori e fra i loro contatti e una corretta applicazione delle misure di prevenzione e controllo delle infezioni in fase di diagnosi, sono strumenti utili a ridurre ulteriormente questo rischio, ed in particolare a prevenire la trasmissione nosocomiale di questo.

Ecdc raccomanda a viaggiatori e residenti dell’Ue nella penisola arabica di seguire le generali precauzioni volte a limitare il rischio di infezioni tra cui: lavare frequentemente le mani con acqua e sapone, evitare il consumo di carne poco cotta e latte non pastorizzato (specialmente se di camelidi), consumare frutta e verdura solo se adeguatamente lavata, evitare contatti non necessari con animali (in particolare camelidi), adottare idonee precauzioni in caso di contatto stretto con persone affette da sindromi respiratorie acute, diarrea o altre possibili patologie infettive, contattare il proprio medico se affetti da condizioni mediche pre-esistenti (ad esempio diabete, patologie croniche renali o polmonari) che possano aumentare il rischio di malattia o complicanze e/o se si ha avuto un contatto con strutture sanitarie durante il viaggio. Ecdc raccomanda inoltre ai viaggiatori di non viaggiare se affetti da una patologia infettiva acuta e di informare anticipatamente il personale sanitario del possibile rischio di esposizione a Mers Cov nel caso in cui, al rientro in Ue, si sviluppino sintomi respiratori o diarrea (fonte: Updated Rapid Risk Assessment, Ecdc, 24 aprile 2014).

A cura del reparto di Epidemiologia delle malattie infettive, Cnesps-Iss
(Fonte: «Epicentro»)
(Approfondimenti: http://www.salute.gov.it/portale/p5_1_1.jsp?lingua=italiano&id=159;
http://www.who.int/csr/disease/coronavirus_infections/en/;
http://www.eurosurveillance.org/ViewArticle.aspx?ArticleId=20783)

Test richiesti dai pazienti oncologici quasi sempre appropriati

22 maggio 2014

Si ribadisce spesso che i trattamenti inappropriati costituiscono un problema in medicina, determinando un inutile aumento dei costi sanitari. Eppure molti dei test e delle terapie richieste dai pazienti oncologici sono perfettamente appropriati. Almeno, ciò è quanto risulta da una nuova ricerca che sarà presentata ai primi di giugno a Chicago, in occasione del meeting annuale dell’American society of clinical oncology (Asco).

Il gruppo di studiosi – guidato da Keerthi Gogineni, oncologo presso l’Abramson cancer center di Philadelphia (Usa) – che ha tratto queste conclusioni si è basato su un sondaggio effettuato su 26 oncologi e infermieri dopo 2.050 visite a pazienti (età media: 60 anni) in trattamento o in fase terminale. In 177 visite, i pazienti avevano richiesto un test o un trattamento. Gli autori dello studio hanno quindi rianalizzato questi casi per verificare quanto spesso i pazienti richiedessero test o trattamenti non appropriati in base alle specifiche diagnosi. Tali richieste includevano esami del sangue o imaging, farmaci sperimentali o trial clinici. I risultati hanno evidenziato che l’80% delle volte le richieste avanzate dal paziente sono state ritenute appropriate dal clinico. In circa il 18% dei casi (pari a 32 visite su 177) il medico non ha accettato le richieste del paziente: nell’84% di questi casi (27 su 32) ciò era dovuto al fatto che il testo o il trattamento appariva inappropriato o non apportatore di benefici.

«I risultati di questa survey aiutano a ridimensionare molte delle idee sbagliate riguardo le pretese dei pazienti che portano alla prescrizione di test e trattamenti non necessari, a loro volta fonte dei più alti costi per la sanità Usa» commenta Gogineni. «Questi dati suggeriscono invece che gli oncologi e gli infermieri non sono guidati per la maggior parte del tempo da pazienti che vogliono siano impiegate cure di basso valore ma di alto costo. I provider piuttosto incorporano i desiderata degli assistiti all’interno di un piano d’azione percorribile». Lo dimostra una cifra inequivocabile emersa dallo studio: la quota dei medici che hanno prescritto un test o un trattamento inappropriato si è attestata a un livello inferiore all’1% delle visite (4 su 2.050).

Arturo Zenorini
(Fonte: «Doctor 33»)

Anestesia ostetrica: le complicanze sono rare

22 maggio 2014

Le donne incinte preoccupate di dover partorire in anestesia epidurale, spinale o generale possono tirare un sospiro di sollievo. Secondo uno studio pubblicato su «Anesthesiology», la rivista ufficiale della Società Americana di Anestesia (ASA), le complicazioni gravi da anestesia durante il parto sono rare, all’incirca una ogni 3.000 casi. «Il nostro è il primo trial multicentrico realizzato per valutare l’incidenza di gravi complicanze associate all’anestesia ostetrica» esordisce Robert D’Angelo, anestesista alla Wake Forest University School of Medicine di Winston-Salem in North Carolina e coautore dell’articolo.

«Siamo lieti di scoprire che gravi complicazioni come emorragie, infezioni, paralisi infantile e decesso della madre sono estremamente rare. Tuttavia, poiché molte di esse possono condurre a risultati catastrofici, è importante che gli anestesisti restino comunque vigili e pronti a diagnosticare e trattare tempestivamente qualsiasi evento inaspettato dovesse capitare» continua il ricercatore, che assieme ai colleghi ha usato i dati del Society for Obstetric Anesthesia and Perinatology’s (SOAP’s) Serious Complication Repository (SCORE) project – un archivio informatico in cui vengono inserite sistematicamente le statistiche relative ai parti e alle loro complicanze. Così facendo gli autori dello studio hanno identificato oltre 257.000 parti vaginali e cesarei con somministrazione di anestesia epidurale, spinale o generale avvenuti in trenta centri ospedalieri statunitensi nell’arco di cinque anni, dal 2004 al 2009. Ebbene, le complicazioni segnalate sono state 157 di cui 85 legate all’anestesia.

«Questi risultati possono essere usati non solo per migliorare il consenso informato dei pazienti, ma anche per costruire un registro nazionale di complicanze durante l’anestesia ostetrica come parte del sistema di Incident Reporting sviluppato dall’Anesthesia Quality Institute dell’ASA» conclude D’Angelo, sottolineando che gli eventi avversi inseriti nel registro verranno utilizzati per generare nuovi avvisi agli anestesisti e nuovi materiali didattici per promuovere la sicurezza della paziente.

(Fonte: «Doctor 33»)

L’iperattività viene curata con i farmaci anche nei più piccoli

26 maggio 2014

Oltre 10.000 bambini statunitensi di età compresa tra i 2 e i 3 anni ricevono un trattamento farmacologico per curare il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (Adhd). Lo sottolineano i Centers For Disease Control and Prevention (Cdc) in un rapporto da poco pubblicato. E, come sottolineano gli esperti, la situazione è piuttosto allarmante: le linee guida pediatriche USA infatti non contemplano neppure la diagnosi di questo disturbo nei bimbi con meno di 3 anni anche perché efficacia e sicurezza farmaci in genere utilizzati per l’adhd non sono state adeguatamente valutate in questa fascia di età.

Si tratta nella maggior parte dei casi di farmaci come il metilfenidato (noto con il nome commerciale di Ritalin) e di anfetamine (come Adderall), utilizzati benché solo Adderall sia stato approvato dalla Food and Drugs Administration per l’utilizzo in pazienti al di sotto dei 6 anni di età. E in effetti le ragioni per dubitare del trattamento farmacologico in bambini così piccoli sono molte e sono soprattutto legate agli effetti collaterali: se infatti iperattività e impulsività diminuiscono, aumenta il rischio di sopprimere la crescita e di provocare insonnia e allucinazioni al bambino.

«I medici che fanno tali prescrizioni per bimbi di 2 o 3 anni non tengono conto dello standard terapeutico e dovrebbero essere accusati di cattiva pratica medica se succede qualcosa ai bambini» spiega Lawrence H. Diller, pediatra comportamentale di Walnut Creek, in California. Diverso l’approccio di chi approva l’utilizzo di questi farmaci anche nei bimbi più piccoli e che fa notare come l’uso off-label di metilfenidato abbia dato risultati incoraggianti in bambini di età prescolare tanto da indurre gli esperti della American Academy of Pediatrics ad autorizzarne l’uso anche in bambini di 4 e 5 anni. A patto però che prima siano state tentate, senza successo, altre vie come per esempio training ai genitori e agli insegnanti su come migliorare l’ambiente nel quale il bimbo vive e si muove.

«Queste nuove linee guida non parlano di bimbi con meno di 4 anni di età perché iperattività e impulsività sono importanti e positive in questa delicata fase dello sviluppo e serve più tempo per capire se si è davvero in presenza di malattia» precisano gli esperti. E come afferma Susanna N. Visser, curatrice del rapporto, la situazione è complessa: «I consigli su come affrontare in modo non farmacologico il problema sono spesso ignorati dalle famiglie che si rivolgono al medico e che, troppo spesso, tornano a casa con la prescrizione di un farmaco che può mettere a rischio la salute dei bambini».

(Fonte: «Pediatria 33»)
(Approfondimenti: http://www.cdc.gov/ncbddd/ADHD/)

Sono oltre un milione i decessi nel mondo tra i ragazzi nel 2012

26 maggio 2014

Nel mondo le tre principali cause di morte tra gli adolescenti tra 10 e 19 anni sono gli incidenti stradali, le infezioni da Hiv/Aids e i suicidi, mentre la depressione è la prima causa di disabilità e morbilità. A rivelarlo è il Rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) dal titolo “Health for the world’s adolescents”, che segnala come nel 2012 siano morti per queste cause circa 1,3 milioni di adolescenti a livello globale. Per questo l’Oms raccomanda ai governi un rafforzamento delle azioni per fare fronte ai bisogni fisici e mentali degli adolescenti. «Finora il mondo non ha dimostrato sufficiente attenzione alla salute di ragazzi e adolescenti. Speriamo che questo Rapporto serva come trampolino di lancio per un’azione accelerata in favore di questa fascia della popolazione» afferma Flavia Bustreo dell’Oms.

Gli esperti dell’Organizzazione mondiale della sanità sottolineano inoltre come l’adolescenza sia il periodo più critico per la prevenzione delle malattie croniche e per gettare le basi di una buona salute da adulti. Spiega Jane Ferguson, autrice principale del documento Oms: «Se trascurati, comportamenti e problemi di salute che emergono nell’adolescenza hanno potenziali effetti devastanti per la salute da adulti».

E dal rapporto emerge come siano gli incidenti stradali la prima causa di morte tra i ragazzi, con i maschi coinvolti tre volte più delle femmine. Diminuiscono invece i decessi da gravidanza e parto specie in Asia e Africa, anche se la mortalità materna resta ancora la seconda causa di morte mondiale per le ragazze tra 15 e 19 anni dopo il suicidio. La seconda causa di morte globale tra gli adolescenti, con stime in crescita, è l’Aids, principalmente in Africa. Ma a uccidere sono anche altre infezioni: diarrea, infezioni respiratorie e meningite sono responsabili del 18% delle morti tra 10 e 14 anni. Per i giovani del mondo molto è stato fatto, ma molto rimane da fare: dall’analisi delle politiche per la salute dei 109 Paesi considerati nel rapporto Oms emerge che l’84% dedica attenzione particolare agli adolescenti. E nei tre quarti dei casi l’attenzione è per la salute.

(Fonte: «Pediatria 33»)

Evitare le strette di mano negli ospedali per ridurre le infezioni

26 maggio 2014

Zone negli ospedali in cui è vietato stringersi la mano: è quanto propone Mark Sklansky dell”università della California in un editoriale pubblicato dalla rivista «Jama» allo scopo di limitare la diffusione delle infezioni.

Sostituire la classica stretta di mano, magari con un inchino, può apparire un’idea bizzarra, eppure molti studi hanno già provato che le mani sono un veicolo ideale per la trasmissione di diversi germi, compreso il Clostridium difficile, uno dei più temuti negli ospedali.

Del resto, come osserva Giuseppe Ippolito, Direttore scientifico dell’Istituto nazionale per le malattie infettive “Lazzaro Spallanzani” di Roma, «il mancato lavaggio delle mani costituisce il primo fattore di rischio di trasmissione delle infezioni in ambito ospedaliero, tanto che pochi giorni fa l’Organizzazione mondiale della sanità ha promosso una giornata mondiale dedicata. E il problema non riguarda soltanto il personale ma anche le persone che vengono a contatto con i pazienti, oppure con suppellettili o altro, attraverso cui si possono trasmettere germi ospedalieri».

Ricordando che la possibilità di provocare infezioni attraverso la stretta di una mano, sulla quale magari una persona ha starnutito, non riguarda solo gli ambiti ospedalieri, il professor Ippolito ritiene che sia importante prendere in considerazione qualsiasi proposta che possa essere utile. Infatti la consapevolezza del problema delle infezioni appare abbastanza diffusa tra il personale sanitario, ma «una cosa è la consapevolezza e un’altra è l’applicazione scrupolosa dei programmi di lavaggio delle mani; e i dati dimostrano che in molti Paesi Occidentali, inclusa l’Italia, non vi sono standard di lavaggio delle mani ottimali».

I risultati che si potrebbero ottenere sono significativi: «Eliminare il contagio attraverso le mani, – dice l’infettivologo – porterebbe a un abbattimento del 20% delle infezioni in ospedale; servirebbe poi diffondere una gestione corretta dei cateteri urinari e di quelli vascolari, oltre a una maggiore attenzione per identificare precocemente le infezioni stesse».

Renato Torlaschi
(Fonte: «Doctor 33»)

Per l’Unione europea l’embrione non è “uno di noi”

28 maggio 2014

L’ultimo colpo di coda della Commissione europea, all’indomani delle elezioni e nel giorno che sancisce il termine del suo mandato, lascia a chi sostiene la dignità dell’embrione umano un sapore d’amaro in bocca. La petizione Uno di Noi, nonostante le sue 1.901.947 firme raccolte nei 28 Paesi della Ue, non verrà presentata come proposta legislativa al Parlamento europeo.

La Commissione ha motivato la sua scelta spiegando che “gli Stati membri e il Parlamento europeo hanno discusso e deciso la politica della Ue in questo settore solo recentemente” e dunque ritiene inutile proporre a Strasburgo i contenuti di Uno di Noi. E la politica decisa – va detto – verte in senso opposto rispetto a quanto chiedeva la petizione; si tratta infatti di finanziamento con soldi pubblici europei della ricerca scientifica con embrioni umani e di progetti di cooperazione internazionale che implicano la diffusione dell’aborto e farmaci abortivi.

Ciò significa che il parere di quasi due milioni di cittadini europei è stato ritenuto ininfluente, indegno di essere sottoposto all’Europarlamento, l’unica istituzione eletta dal popolo. A nulla è valsa una mobilitazione che ha permesso all’iniziativa di raccogliere una cifra d’adesioni record, ben al di sopra di quanto fosse finora successo con altre petizioni. Lo strumento di democrazia diretta sancito dal Trattato di Lisbona, evidentemente, non gode di ampia considerazione da parte della Commissione uscente.

Di questo avviso è anche Carlo Casini, presidente del Movimento per la vita e del Comitato italiano per Uno di Noi, il quale parla di “deficit di democrazia” che rappresenta “il problema più grave che affligge l’Unione e che pone a rischio il futuro del grande sogno europeo”. Casini rincara poi la dose, definendo i membri della Commissione “burocrati” che “hanno sfoggiato la migliore saccenza di cui sono capaci negando che altri oltre loro stessi siano in grado di decidere su una questione che, comunque la si guardi, è dirimente del livello di umanità della società che si vorrebbe costruire”. Trova inoltre “subdolo” il fatto che abbiano atteso la fine delle elezioni per prendere questa decisione. “Ma quei burocrati e le lobby che li sostengono non si illudano di aver messo definitivamente in cantina la questione”, chiosa ancora il presidente del Mpv. Il suo riferimento è alla nascita di un’associazione sovranazionale, che erediterà il nome Uno di Noi, la quale riunisce le associazioni pro-vita di 28 Paesi europei e “riprenderà le fila della mobilitazione per i diritti umani e per la loro estensione a tutti gli esseri umani senza eccezioni e condizioni”.

A raccogliere l’auspicio per il futuro espresso da Carlo Casini, è l’Associazione Scienza & Vita. Paola Ricci Sindoni e Domenico Coviello, Presidente e copresidente nazionali, sperano che il nuovo Parlamento “sappia esprimersi con fermezza al riguardo, riportando al centro la dignità della vita umana fin dal concepimento, così come chiesto dagli stessi elettori europei”. I due rappresentanti di Scienza & Vita rammentano dunque che “due milioni di persone aspettano una risposta”, perché l’Europa sia “una democrazia fondata sulla tutela e sul rispetto del più debole”.

Nel documento prodotto dalla Commissione, che attesta il verdetto contrario a Uno di Noi, si legge che “le cellule staminali embrionali sono uniche e servono per cure che possono salvare la vita, e per le quali sono già in corso sperimentazioni cliniche”. Argomentazione che tuttavia veniva contestata, in maniera approfondita, da Uno di Noi.

Se nulla è stato ancora dimostrato circa i risultati terapeutici legati all’uso di embrioni umani, la scienza sta acquisendo sempre più riscontri nel campo delle staminali adulte riprogrammate. Il tema rimarrà però al di fuori dei gangli decisionali d’Europa. Questo il diktat dei “burocrati” di Bruxelles.

(Fonte: «Zenit»)

Giornata mondiale senza tabacco. L’OMS: «Gli Stati portino le tasse sul fumo al 50%. In tre anni si salverebbero 11 milioni di vite»

28 maggio 2014

In occasione della Giornata mondiale senza tabacco (31 maggio ), l’OMS invita i Paesi ad aumentare le tasse sul tabacco per incoraggiare gli utenti a smettere di fumare e impedire ad altre persone di diventare dipendenti da tabacco. Sulla base dei dati 2012 , si stima che aumentando le tasse del tabacco del 50 %, tutti i Paesi potrebbero ridurre il numero dei fumatori di 49 milioni entro i prossimi tre anni e, infine, salvare 11 milioni di vite.

Oggi, ogni 6 secondi qualcuno muore per consumo di tabacco. Il tabacco uccide fino alla metà dei suoi utenti. Esso comporta anche notevoli costi per famiglie , imprese e governi. Curare malattie legate al tabacco, come cancro e malattie cardiache è infatti molto costoso. E le malattie legate al tabacco spesso colpiscono le persone nel pieno della loro vita lavorativa, incidendo sulla produttività e sui redditi. “Aumentare le tasse sul tabacco è il modo più efficace per ridurne l’uso e salvare vite umane”, dice il direttore generale Margaret Chan.

Più tasse sul fumo scoraggerebbero soprattutto i giovani e i meno abbienti. I prezzi elevati sono particolarmente efficaci nel dissuadere i giovani (che spesso hanno redditi più limitati rispetto agli adulti più anziani) dal cominciare a fumare. Inoltre incoraggerebbero i giovani fumatori esistenti a ridurre l’uso di tabacco o a smettere del tutto di fumare.

“Gli aumenti dei prezzi sono 2-3 volte più efficaci nel ridurre il consumo di tabacco tra i giovani che tra gli adulti più anziani”, conferma il dott. Douglas Bettcher, direttore del Dipartimento per la prevenzione delle malattie non trasmissibili presso l’OMS. “La politica fiscale può essere divisiva, ma in questo caso è un aumento delle imposte che tutti possono sostenere. Come le tasse sul tabacco salgono, la morte e la malattia vanno giù”.

E in più ci guadagnerebbero anche le casse pubbliche. L’OMS calcola che se tutti i paesi aumentassero le tasse del tabacco del 50 % per confezione , i governi dovrebbero guadagnare un extra di 101 miliardi di dollari di incasso fiscale globale. “Questi fondi supplementari potrebbero – e dovrebbero – essere utilizzati per avanzare altri programmi sanitari e sociali “, aggiunge il dottor Bettcher.

Paesi come la Francia e le Filippine hanno già visto i benefici conseguenti all’imposizione di tasse elevate sul fumo. Tra i primi anni 1990 e il 2005, la Francia ha triplicato i prezzi delle sigarette. A questa misura è seguito un calo delle vendite di oltre il 50 %. Pochi anni dopo il numero di giovani morti di cancro al polmone in Francia ha iniziato a scendere. Nelle Filippine, un anno dopo l’aumento delle tasse, il governo ha raccolto entrate previsto e ha deciso di spendere l’85 % di questi introiti sui servizi sanitari .

Le tasse sul tabacco sono un elemento centrale della lotta contro il tabagismo. L’uso del tabacco è la principale causa evitabile di morte in tutto il mondo. Il tabacco uccide quasi 6 milioni di persone ogni anno, di cui più di 600 mila sono non fumatori che muoiono per colpa del fumo passivo. Se non si interviene, il tabacco ucciderà più di 8 milioni di persone ogni anno entro il 2030, oltre il 80% di queste tra le persone che vivono in Paesi a basso e medio reddito .

L’aumento delle tasse sul tabacco a sostegno della riduzione del consumo di tabacco è un elemento centrale della convenzione quadro dell’OMS sul controllo del tabacco (FCTC) , un trattato internazionale entrato in vigore nel 2005 e approvato da 178 Paesi. L’articolo 6 del WHO FCTC , “Prezzo e misure fiscali per ridurre la domanda di tabacco”, riconosce che “misure finanziarie e fiscali sono un mezzo efficace ed importante per ridurre il consumo di tabacco in vari segmenti della popolazione, in particolare i giovani “.

(Fonte: «Comunicato stampa WHO»– «Quotidiano Sanità»)

Obesità. È emergenza globale: sovrappeso 2,1 miliardi di persone in tutto il mondo. Ma la metà è concentrata in soli dieci Paesi

29 maggio 2014

Quello che è sotto gli occhi di tutti, da oggi è anche un numero. L’aumento vertiginoso dei tassi di sovrappeso e obesità è un fenomeno che interessa il mondo intero e ha riguardato sia gli adulti (+ 28%), che i bambini (+47%) negli ultimi 33 anni. In questo periodo i numeri dell’obesità sono letteralmente esplosi, passando dagli 857 milioni del 1980, ai 2,1 miliardi del 2013, secondo una nuova analisi del Global Burden of Disease Study 2013, pubblicata su «Lancet», che ha preso in esame i dati relativi a 188 nazioni, tra il 1980 e il 2013.

Metà degli obesi di tutto il mondo vive in appena 10 Paesi: USA (13%), Cina e India (15%), Russia, Brasile, Messico, Egitto, Germania, Pakistan e Indonesia. Le donne più ‘rotonde’ del mondo vivono in Egitto, Arabia Saudita, Oman, Honduras e Bahrein, mentre gli uomini più obesi si trovano in Nuova Zelanda, Bahrein, Arabia Saudita e USA. A considerare solo le nazioni più sviluppate, l’incremento maggiore dei tassi di obesità si registra negli USA, dove ad essere obeso è un terzo circa della popolazione, in Australia (sono obesi il 28% dei maschi e l 30% delle femmine) e in Gran Bretagna, con un quarto della popolazione obesa.

“Sovrappeso e obesità – afferma il professor Hermann Toplak, Presidente eletto della European Association for the Study of Obesity – sono diventati, vista la loro prevalenza, il problema di salute più importante del 21° secolo. La modernizzazione e tecnologie hanno ridotto a tutti i livelli l’attività fisica. Ed è noto che le persone che smettono di fare esercizio fisico perdono il controllo dell’assunzione del cibo, mentre chi resta attivo, tende a mangiare in maniera adeguata in relazione alle sue necessità energetiche.

E il problema dell’obesità non ha risparmiato le nazioni in via di sviluppo, dove la disponibilità di cibo – in particolare sotto forma di fast food – è aumentata a partire dalla fine degli anni ’70. Questi elementi hanno contribuito a far sì che molti ragazzi (e naturalmente anche molti adulti) non mettono più su massa magra e hanno perso la cultura dell’alimentazione ‘tradizionale’, rimpiazzata da un’incontrollata assunzione di calorie, attraverso spuntini e cultura del mangiare, spalmata lungo tutto il giorno”.

Il boom nella prevalenza dell’obesità si è avuto tra il 1992 e il 2002 e ha interessato soprattutto la fascia tra i 20 e i 40 anni. Preoccupanti anche le percentuali di sovrappeso-obesità registrati tra i ragazzi dei Paesi industrializzati: nei maschi si è passati dal 17% del 1980 al 24% del 2013 e nelle ragazze dal 16 al 23% nello stesso periodo. Nel 2013 il tasso di obesità tra le ragazze ha raggiunto il 23% in Kuwait e il 30% a Samoa, in Micronesia e Kiribati. In Europa si va dal 14% di ragazzi obesi in Israele e dal 13% di Malta, al 4% di Olanda e Svezia. Le ragazzine più obese vivono invece in Lussemburgo (13%) e Israele (11%), quelle più in forma in Olanda, Norvegia e Svezia. Fortunatamente, almeno per quanto riguarda le nazioni industrializzate, i tassi di incidenza dell’obesità tra gli adulti hanno cominciato a mostrare un rallentamento di crescita negli ultimi 8 anni. Una ‘magra’ consolazione, visto che in molti Paesi in via di sviluppo l’obesità ha ormai superato la soglia del 40%.

Numeri questi che rendono insomma poco realistico il target delle Nazioni Unite di arrestare la crescita dei tassi di obesità entro il 2025; e dunque, particolarmente urgente diventa la possibilità di intervenire con programmi e strategie ad hoc, in particolare nei Paesi a basso e medio reddito. “Per evitare conseguenze insostenibili – afferma il professor Klim McPherson dell’Università di Oxford – dobbiamo riportare il BMI (indice di massa corporea) a quello che era trent’anni fa”. Ma per ridurre il BMI ai livelli del 1980 in Gran Bretagna, sarebbe necessario tagliare dell’8% l’introito calorico, un fatto che costerebbe all’industria alimentare una perdita di circa 8,7 miliardi di sterline l’anno. Un boccone molto grosso da mandare giù.

Maria Rita Montebelli
(Fonte: «Quotidiano Sanità»)
(Approfondimenti: http://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(14)60460-8/abstract)

Da Wikipedia informazioni inaffidabili, Cochrane al lavoro per certificarle

29 maggio 2014

«Medici e pazienti dovrebbero evitare di prendere decisioni sulla base dei contenuti di Wikipedia e i risultati dello studio pubblicato sul «Daily Mail» non sorprendono; tuttavia le cose potrebbero presto migliorare». Eugenio Santoro, responsabile del Laboratorio di informatica medica dell’Irccs – Istituto Mario Negri di Milano si riferisce a un’indagine condotta dai ricercatori della Campbell University, secondo la quale nove su dieci tra le voci di argomento medico contenute in Wikipedia non sono sufficientemente accurate e quindi potrebbe essere molto pericoloso improvvisare una diagnosi a partire da quella fonte. Lo studio mette in guardia i pazienti, che rischiano in tal modo di rivolgersi in ritardo alla consulenza di un medico, ma anche i medici stessi che in molti casi hanno l’abitudine di accedere a questa enciclopedia informatica per colmare le proprie lacune.

Santoro non è certo contrario all’utilizzo del Web per acquisire informazioni, «ma i medici dovrebbero far riferimento ad altre enciclopedie mediche, indirizzate espressamente ai professionisti; certamente Wikipedia è uno strumento molto più semplice e immediato ma i contenuti non sono sempre affidabili».

È lo stesso Santoro a spiegare che un nuovo progetto potrebbe rappresentare una svolta: «La scorsa settimana, al Mario Negri, si è tenuto un convegno organizzato dall’Associazione Alessandro Liberati – Network italiano Cochrane; si è parlato di come comunicazione e ricerca possono andare d’accordo e in particolare di un progetto della Cochrane Collaboration condotto in partnership proprio con Wikipedia».

Gli articoli di medicina su Wikipedia sono letti 180 milioni di volte al mese, ma meno di uno su cento ha passato un processo formale di peer review; come spiega Santoro, «anche gli esperti della Cochrane si sono resi conto che questo rappresenta un problema e si sono offerti di migliorarne i contenuti; hanno dunque deciso di avviare un’attività di revisione che li porterà a farsene garanti, almeno per le voci scritte in lingua inglese».

Renato Torlaschi
(Fonte: «Doctor 33»)

Gli scienziati: «Embrionali ricerca inutile»

30 maggio 2014

«La Medicina può curare senza utilizzare gli embrioni umani», è il titolo del Manifesto scientifico lanciato in questi giorni dalla Federazione Europea One of Us, fondata il 10 aprile scorso a sostegno della campagna omonima che, attraverso una mobilitazione senza precedenti, ha raccolto quasi due milioni di firme per fermare la sperimentazione sugli embrioni umani. Secondo i componenti della Federazione, infatti, non può essere lasciata senza conseguenze la decisione con cui il 28 maggio la Commissione europea ha, di fatto, bocciato la richiesta di tutela giunta dai cittadini di 28 Paesi europei.

«Il Manifesto è stato scritto diversi mesi fa, tradotto in tutte le lingue europee e presentato alla Commissione», spiega Massimo Gandolfini, neurochirurgo, membro del board italiano che ha preparato il documento insieme al neurologo Gian Luigi Gigli e al ginecologo Pino Noia. «Obiettivo è dimostrare che l’embrione è un essere umano a tutti gli effetti e per questo non può essere oggetto di sperimentazione – continua il neurochirurgo – per esplicitarlo abbiamo sviluppato questo  Manifesto in tre parti.Nella prima, attraverso molti dettagli tematici che descrivono il complesso e irripetibile rapporto materno-fetale dal concepimento all’annidamento dell’embrione, fino alla nascita, si vuole sottolineare l’umanità dell’embrione stesso».

Da questo fatto discende una logica conseguenza, evidenziata nel secondo punto: «Se l’embrione è qualcuno e non qualcosa, la ricerca sugli embrioni è gravemente lesiva dell’identità biologica e dell’identità ontologica». Infine, nella terza parte, si ricorda che: «l’uomo è sempre fine e mai mezzo, per questo la sperimentazione deve in ogni caso essere a favore dell’essere umano, mai contro».

Alla base del documento resta ineludibile la domanda relativa alla dignità dell’embrione. «Se anche il nodo scientifico può essere dubitativo – chiarisce Gandolfini – perché ad oggi non vi sono risultati dalla ricerca con le cellule staminali embrionali, vi è a monte un’istanza che è precedente a quella scientifica ed è un’insuperabile barriera antropologica. Come tempo fa si era risposto negativamente alla domanda se l’uomo possa essere considerato un serbatoio di organi da espianto, a maggior ragione questo va riconfermato nel momento in cui è in gioco l’essere umano nelle sue primissime fasi, ma già portatore del diritto alla vita».

«Questa iniziativa – sottolinea da parte sua Jakub Baltroszewicz coordinatore per la Polonia, che, con le sue 250mila firme raccolte, è seconda solo all’Italia – ha dimostrato la contrarietà alla dichiarazione di “successo” degli standard di tutela sbandierata dall’Ue. Quasi 2 milioni di cittadini di 28 Paesi dell’Unione europea invocano cambiamenti nella legislazione. Speriamo che il nuovo Parlamento spieghi basandosi sui fatti e non sull’ideologia, la “mancanza di bisogno”», sottolinea.

Cosa fare dunque all’indomani della decisione della Commissione e a campagna chiusa? Baltroszewicz non ha dubbi: «Come sottolineato dai deputati nel corso della pubblica udienza, per la prima volta in molti anni nel Parlamento Ue e, in generale, all’interno delle Istituzioni europee, si è potuto tenere un dibattito aperto e libero sul diritto alla vita. La nostra presenza ha reso la discussione possibile, per questo deve continuare».

Sulla bocciatura di Uno di Noi è intervenuto anche Francesco Belletti, presidente del Forum delle associazioni familiari: «La decisione della Commissione europea di porre il veto sull’iniziativa Uno Di Noi lascia veramente stupefatti, ma non ci sorprende. Quello che si è voluto impedire è che le Istituzioni si pronunciassero sul livello di umanità del bambino non nato». Si è usata un’arma burocratica per evitare un confronto democratico. «Riconoscere che l’embrione è uomo a tutti gli effetti fin dal concepimento – commenta Belletti – sbarrerebbe la strada a potenti interessi».

Emanuela Vinai
(Fonte:«Avvenire»)

© Bioetica News Torino, Giugno 2014 - Riproduzione Vietata