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14 Novembre 2013
Supplemento Le cure palliative

Notizie dal mondo

1. Il Comitato etico francese elimina i religiosi. È la laïcité muscolare

1 ottobre 2013

Per la prima volta in trent’anni di esistenza e in occasione del rinnovo parziale dei suoi componenti, dal Comitato consultivo nazionale di etica francese sono stati eliminati i rappresentanti religiosi. Tra le trentanove personalità che ne fanno parte (per statuto, cinque appartenenti alle principali “famiglie filosofiche e spirituali”, diciannove scelte per “competenza e interesse ai problemi etici” e quindici appartenenti al mondo della ricerca) non figurano più, dal 22 settembre, né il pastore protestante Louis Schweitzer né il rabbino Michaël Azoulay. In tempi di laïcité di Stato, a occupare i cinque seggi citati all’inizio sono stati chiamati altrettanti “specialisti” di questioni ebraiche, cattoliche, protestanti e islamiche. Così stabilivano i princìpi del Comitato all’epoca della sua fondazione, ha puntualizzato l’Eliseo.

Ma è impossibile non notare che tra i nuovi ingressi nel Ccne spiccano personaggi noti per la loro vicinanza al presidente François Hollande, come l’avvocato socialista Jean-Pierre Mignard. E se al presidente della Repubblica toccano le nomine, è tradizione che le autorità delle diverse religioni siano almeno consultate, prima di scegliere chi dovrebbe rappresentarle in seno al Comitato. Stavolta, invece, e per la prima volta, si è preferito il fatto compiuto.

«Il messaggio dell’assenza di religiosi è chiaro: si ritorna a una laicità muscolare», ha protestato il pastore Schweitzer. L’esponente protestante pensa che si vogliano «far scontare ai rappresentanti religiosi le loro posizioni piuttosto ostili al mariage pour tous (il matrimonio omosessuale, ndr). Escludendoli dalle riflessioni su questioni che riguardano la società, il governo impone una visione della laicità chiusa, a rischio di impoverire il confronto». Secondo il rabbino Azoulay, aver stabilito che i religiosi, in quanto tali, non hanno voce in capitolo, significa considerarli, per natura, incapaci di entrare nel processo di “messa in comune delle convinzioni”.

È evidente il legame tra l’anomalo rinnovo del Ccne e i prossimi dibattiti su eutanasia e procreazione medicalmente assistita per le coppie omosessuali (tema sul quale il pronunciamento del Ccne è atteso per l’inizio del prossimo anno). Che il presidente Hollande e il suo governo abbiano voluto fabbricarsi in fretta un organismo consultivo assai più disponibile nei confronti degli orientamenti della maggioranza politica è qualcosa di più che un sospetto malevolo. L’obiettivo è evitare battute d’arresto nella marcia dei “nuovi diritti” previsti dall’agenda di governo. Perché, per esempio, non abbiano a ripetersi noie come quella rappresentata dal pronunciamento dell’ottanta per cento del Ccne uscente, nello scorso giugno, contro una nuova legge che legalizzi l’eutanasia e il suicidio assistito (legge della quale il presidente è sostenitore).

Lo stesso deputato dell’Ump che nel 2005 aveva firmato la legge sulla fine della vita ora giudicata insufficiente, Jean  Leonetti, ha detto che «si fanno fuori i religiosi e si mettono dentro i militanti per uniformare i pareri del Ccne a quelli del governo. Invece di cambiare parere sulle grandi questioni etiche, il governo preferisce cambiare il comitato di etica! François Hollande non aveva già preparato la trappola, annunciando che, sulla procreazione medicalmente assistita, si conformerà al parere del comitato?». Anche il Comitato nazionale di bioetica italiano – transitato indenne dal governo Prodi a oggi – è arrivato a fine mandato. La nuova nomina aspetta, chissà per quanto, tempi meno caotici per l’esecutivo.

Nicoletta Tiliacos
(Fonte: «Il Foglio»)

2. Rapporto State of Oncology, verso epidemia mondiale tumori

2 ottobre 2013

Proprio come per molte malattie infettive, il cui carico pesa come un macigno soprattutto sui Paesi in via di sviluppo e ha già provocato una mobilitazione internazionale, anche i tumori faranno proprio nei Paesi che in questo momento sono più poveri la maggior parte dei milioni di vittime future. La maggior longevità, unita al grande aumento della popolazione e all’adozione di stili di vita occidentali, avverte il rapporto “State of Oncology 2013”, rischia di creare una vera e propria epidemia di cancro che le fragili istituzioni sanitarie non saranno mai in grado di affrontare senza un aiuto internazionale. Tanto che la proposta è quella di creare un fondo globale contro i tumori, come quello nato per combattere l’Aids.

Il rapporto presentato allo European Cancer Congress di Amsterdam dall’International Prevention Research Institute di Lione combina le proiezioni sull’aumento della popolazione mondiale con le variazioni negli stili di vita e nella longevità dei 50 Stati più popolosi al mondo, con il risultato di dipingere un futuro preoccupante soprattutto per Paesi come Cina, India o Nigeria, indicati come quelli “trainanti” nella crescita dei casi. Entro il 2030, sottolineano i ricercatori, ci saranno 26,4 milioni di nuovi casi di tumore all’anno, con un numero di morti vicino ai 17 milioni. «Molti Paesi al mondo – ha sottolineato Peter Boyle, curatore del rapporto – non sono attrezzati per far fronte alla situazione attuale, figuriamoci a quello che li aspetta».

In Africa, sottolinea il rapporto, ci sono solo il 20% dei servizi di radioterapia richiesti, e in Asia invece di 4 mila necessari ce ne sono appena 1200. Anche dal punto di vista delle diagnosi l’80% dei tumori nei Paesi in via di sviluppo viene scoperto in stadi avanzati e ormai incurabili. Il risultato è che la sopravvivenza varia molto a seconda del reddito: se ad esempio nei Paesi sviluppati guarisce il 75% dei tumori al seno, in quelli a più basso reddito la percentuale scende al 43%. «Servirebbero 217 miliardi di dollari l’anno per portare diagnosi e trattamenti nei Paesi poveri – ha ricordato Peter Boyle, curatore del rapporto.

Nessuna istituzione da sola può farcela, serve un’alleanza internazionale tra soggetti pubblici e privati, sull’esempio del fondo Globale per l’Hiv, la malaria e la Tbc. Anche le industrie dovrebbero impegnarsi di più, non solo donando fondi, ma mettendo a disposizione trattamenti, macchinari e educazione» (M.M.)

(Fonte: «Doctor 33»)

3. Lotta alla droga: strategie da rivedere

2 ottobre 2013

La guerra internazionale contro le droghe illecite non riesce a frenare l’aumento dei consumi, nonostante le risorse crescenti impiegate per contrastarne la diffusione, almeno secondo i dati pubblicati sulla rivista BMJ Open. Dice Evan Wood, direttore di Urban Health Research Initiative a Vancouver, Canada e coautore dell’articolo: «Dal 1990 il prezzo di strada delle droghe illegali è diminuito, a fronte di un’aumentata purezza e potenza di ciò che è in offerta. Ed entrambi sono indicatori di una buona disponibilità di materia prima».

Le Nazioni Unite hanno di recente stimato il valore del commercio illegale di stupefacenti ad almeno 350 miliardi di dollari l’anno, e la condivisione degli aghi è tra i fattori chiave sia per la trasmissione di infezioni come le epatiti e l’Hiv, sia per l’aumento dei tassi di violenza da parte di gang e cartelli della droga. «Negli ultimi decenni le strategie di controllo si sono concentrate sulle forze dell’ordine per frenare le forniture, nonostante le richieste di nuovi approcci come la depenalizzazione e una più rigorosa regolamentazione giuridica» riprende Wood, che assieme ai colleghi ha esaminato un decennio di dati su sequestri di droghe illegali nelle regioni di produzione, percentuali di consumo nei mercati, nonché su prezzo e purezza di cannabis, cocaina e oppiacei, eroina compresa.

«Le informazioni provenivano da sette sistemi di sorveglianza sulle droghe illegali: tre fornivano dati internazionali, tre dati statunitensi e uno dati provenienti dall’Australia. In alcuni casi le notizie arrivavano fino al 1975 e le più recenti al 2010» spiega il ricercatore. Morale: tra il 1990 e il 2010 in Europa, Stati Uniti e Australia, nonostante il consistente aumento dei sequestri, specie per cannabis ed eroina, la purezza e la potenza delle droghe illegali sono aumentate o sono rimaste stabili, mentre il prezzo al dettaglio è addirittura sceso. «Questi risultati suggeriscono che l’offerta di oppiacei e cannabis è in aumento, e che gli sforzi di contenere il mercato globale della droga illegale attraverso le forze dell’ordine stanno fallendo» sottolinea Wood. E conclude: «Si spera che questo studio serva da sprone per riesaminare l’efficacia delle strategie internazionali contro la droga, che privilegiano la riduzione dell’offerta a scapito della prevenzione».

(Fonti: «Doctor 33» e «BMJ Open» 2013; 3:e003077)
(Approfondimenti: http://www.bmjopen.bmj.com/content/3/9/e003077)

4. Il 70% dei medici americani contro il suicidio assistito

3 ottobre 2013

Un sondaggio online tra i medici lettori del prestigioso «New England Journal of Medicine» ha evidenziato che quasi il 70 per cento (67%) dei medici statunitensi sono contro la legalizzazione del suicidio assistito. Nel 2011 su «Palliative» un sondaggio sui medici inglesi aveva raggiunto risultati simili (80%).

Le ragioni principali per l’opposizione di tale pratica erano la violazione del giuramento dei medici a non uccidere e non fare del male, inoltre il fatto che l’apertura al suicidio assistito porterà probabilmente alla legalizzazione dell’eutanasia, una pratica ancora meno appetibile per i medici. L’indagine ha seguito il comunicato della “World Medical Association“ (WMA), che ha ribadito la sua forte opposizione all’eutanasia e al suicidio assistito.

Il WMA è in buona compagnia, tante altre associazioni mediche ufficiali si sono già opposte a qualsiasi modifica della legge per consentire il suicidio assistito o l’eutanasia: la British Medical Association (BMA), la Association for Palliative Medicine (APM), la British Geriatric Society (BGS), l’American Medical Association (AMA), la German Medical Association (GMA), l’Australian Medical Association (AMA), la New Zealand Medical Association , la Organización Médica Colegial de España , la Società di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva (Siaarti) ecc.

A volte in buona fede si può pensare di provocare intenzionalmente la morte di una persona sofferente allo scopo di porre fine al suo dolore (fisico o psichico), ma essa rimane un’azione gravemente contraria alla dignità della persona umana. La medicina ha proprio il compito di evitare ogni sofferenza e il diritto ad interrompere procedure mediche sproporzionate rispetto ai risultati attesi, ma non quello di eliminare il malato per eliminare la malattia. Fortunatamente è possibile usufruire oggi di valide cure palliative per annullare ogni tipo di dolore fisico ed è doveroso accompagnare le persone sofferenti, aiutandole eventualmente a ritrovare il gusto e il senso della vita, anche in mezzo alla disperazione.

(Fonte: http://www.uccronline.it/)

5. Scienza web, c’è una fabbrica delle “bufale” a pagamento

5 ottobre 2013

Un autentico Far West fra le riviste accademico-scientifiche online cosiddette open access. I cui contenuti sono cioè disponibili più o meno gratuitamente al pubblico, specializzato o meno. Una situazione in mano al lucro, fatta di tante ombre e pochissime sicurezze, portata alla luce da un’inchiesta basata su uno studio scientifico del tutto privo di fondamento. A firmare sia l’inchiesta che l’operazione sotto copertura, il collaboratore di «Science» e biologo molecolare John Bohannon.

La finta ricerca, dedicata al presunto effetto di alcune molecole estratte dai licheni sulle cellule tumorali, è stata volontariamente costellata di errori elementari. Tanto che qualsiasi recensore “con non più di una conoscenza in chimica da scuola superiore e l’abilità di capire lo sviluppo dei dati” avrebbe dovuto cestinarla in un batter d’occhio. Peccato non sia andata così: negli ultimi otto mesi, fra gennaio e agosto, ben 157 riviste online su 304 hanno accettato di pubblicare la clamorosa bufala scientifica. Spesso senza richiedere alcuna modifica al misterioso autore. La ricerca fittizia architettata dal cronista del magazine è stata infatti respinta da soli 98 comitati scientifici mentre devono ancora rispondere all’appello 49 testate. Di queste, 29 sembrano abbandonate a sé stesse e la restante ventina ha fatto sapere al giornalista di essere ancora in fase di valutazione.

Bufale scientifiche, riviste web nel mirino

L’inchiesta, pubblicata su «Science», non ha lasciato nulla al caso. Bohannon ha realizzato versioni superficialmente diverse dello stesso paper – così si chiamano i documenti scientifici che vengono sottoposti all’approvazione delle riviste specializzate – pur tenendo fermi i contenuti, le conclusioni e i dati. «Il paper – spiega nel suo lungo servizio – ha preso questa struttura: la molecola X estratta dalle specie Y di licheni inibisce la crescita delle cellule tumorali Z. Per sostituire queste variabili ho creato un database di molecole, licheni e cellule cancerogene e ho scritto un programma per computer al fine di generare documenti diversi fra loro. A parte queste differenze, il contenuto scientifico di ogni paper è identico». Il documento contiene in particolare un paio di esperimenti segnati da stravaganti inesattezze: uno è pieno di errori, l’altro, in teoria dedicato ad approfondire come l’uso di quelle molecole renda più sensibili le cellule alla radioterapia, perfino privo di conclusioni.

Fra l’altro, Bohannon ha curato nel dettaglio ogni aspetto dell’operazione, visto che ha inoltrato le centinaia di proposte di pubblicazione, al ritmo di una decina a settimana, sotto falsa identità. Ha ideato infatti un ricercatore africano di fantasia, battezzato Ocorrafoo M. L. Cobange, in forze all’altrettanto fantomatico Wassee Institute of Medicine. Come se non bastasse ha curato anche l’aspetto linguistico, dando al documento – grazie a una serie di risciacqui su Google Translate – un tono grammaticalmente corretto ma che desse l’idea di un autore non madrelingua inglese. Insomma: c’erano tutti i segnali per sbugiardarlo a una prima e perfino parziale lettura della sua proposta.

Quanto ai destinatari, sono finite nel mirino riviste formalmente dedicate alle scienze farmaceutiche o alla biologia, alla medicina generale e alla chimica. Nomi come «European Journal of Chemistry» o «Journal of International Medical Research». Testate all’apparenza affidabili e spesso legate, a scorrere la catena di controllo, a titanici gruppi industriali come Elsevier, il più grande editore mondiale in ambito medico, Sage o Wolters Kluwer. E invece spesso contraddistinte da board scientifici piuttosto oscuri, sedi misteriose e magari localizzate nei Paesi del Terzo mondo. Un terzo addirittura in India, che sembra il vero motore di questo genere di business della bufala, o almeno dell’imprecisione. Uffici e persone con cui è difficile entrare in contatto. Se non, questo il dato che accomuna il settore, nel caso del pagamento della tassa di pubblicazione. Quando una ricerca viene ritenuta affidabile e ne viene dunque deliberata la pubblicazione, il ricercatore è infatti tenuto a pagare un obolo che, nel caso di Bohannon, oscilla fra i 150 e i 3100 dollari.

D’altronde è il modello finanziario sul quale si regge la Babele della scienza open access: «Dalle umili e idealistiche origini, circa un decennio fa, le riviste scientifiche open access si sono trasformate in un’industria globale, sorretta dalle tasse di pubblicazione richieste agli autori piuttosto che dai tradizionali abbonamenti – ha scritto Bohannon – molte di queste sono torbide. L’identità e la residenza dei direttori e dei revisori, così come i finanziamenti dei loro editori, sono spesso appositamente oscurati». In sostanza, mentre le riviste scientifiche tradizionali si affidano a salati e spesso inaccessibili abbonamenti, quelle a libera consultazione vivono di questo scivoloso meccanismo. Che conduce a una facile equazione: più pubblicazioni uguale più guadagni.

«Se fossero finite nel mirino le classiche riviste in abbonamento – ha detto David Ross, biologo dell’Università della Pennsylvania che più di un anno fa ha dato a Bohannon lo spunto per l’indagine – credo fortemente che si sarebbero ottenuti gli stessi risultati. Ma senz’altro l’open access ha moltiplicato questa sottoclasse di riviste e il numero delle ricerche che pubblicano. Tutti pensiamo che la consultazione libera sia un’ottima cosa, la questione è come arrivarci davvero». Risultati sconfortanti, dunque, dal test: per il 60 per cento dei paper sottoposti al giudizio delle varie riviste non sembra esserci stata infatti alcuna revisione collettiva. In caso di rigetto la notizia può essere magari letta positivamente, ma nei tanti via libera collezionati – la regola, non l’eccezione – significa davvero che nessuno ha neanche letto lo sconclusionato documento.

Anche quando qualche modifica è stata richiesta, ha raccontato il biologo, si è trattato spesso di spicciole questioni di formattazione, modifiche testuali, allungamento dell’abstract o di fornire qualche immagine in più. Appena 36 comitati hanno mosso obiezioni sulla sostanza scientifica della ricerca firmata dal professor Ocorrafoo Cobange.

Simone Cosimi
(Fonte: «La Repubblica»)

6. Non è sempre colpa del parto prematuro

7 ottobre 2013

C’è un forte legame tra nascita pretermine e mortalità neonatale e da adulti, autismo e Adhd, la sindrome da deficit dell’attenzione. Ma altre minacce che incombono sui nati prima del termine sono più strettamente correlate all’ambiente familiare, sono condivise anche dai fratelli nati a termine e non sembrano quindi legate alla durata della gestazione: malattie mentali, disturbi dell’apprendimento, suicidio e problemi economici. Dipinge questo quadro uno studio svolto al Department of psychological and brain sciences dell’Indiana University a Bloomington e pubblicato online su «Jama Psychiatry».

Dice Brian D’Onofrio, professore associato di psichiatria e primo autore dell’articolo: «Sottolineando i pericoli del parto pretermine, i nostri dati si accordano con gli studi precedenti. Ma a differenza di questi, che hanno genericamente messo a confronto neonati pretermine e non, il nostro ha paragonato i prematuri con i fratelli e i cugini non pretermine, un approccio che ha permesso di fare nuova luce sulla questione ponendo particolare attenzione all’ambiente familiare» spiega il ricercatore, che assieme ai colleghi del Dipartimento di epidemiologia e biostatistica medica del Karolinska institutet di Stoccolma ha esaminato i dati clinici di 3,3 milioni di bambini nati in Svezia tra il 1973 e il 2008.

Utilizzando il confronto tra fratelli in un’ampia coorte di prematurità gestazionale, lo studio ha verificato le associazioni tra nascita pretermine e mortalità, salute psicologica, risultati scolastici e inserimento sociale» sottolinea lo psichiatra. E aggiunge: «Lo studio ci ha dato spunti come nessun’altro prima: la numerosità del campione ha permesso conclusioni significative su condizioni relativamente rare come la nascita tra 25 e 30 settimane, l’autismo o la schizofrenia». E i risultati? «È emersa una relazione dose-risposta tra precocità dell’età gestazionale e misure di esito» riprende D’Onofrio. In altre parole, più il parto era pretermine, più evidente era il legame con la mortalità infantile, l’autismo, la sindrome da deficit dell’attenzione del nuovo nato rispetto ai fratelli nati a termine, mentre le differenze tra i fratelli si attenuano o scompaiono quando si prendono in considerazione condizioni psichiatriche gravi come la schizofrenia o l’istinto suicidario.

«Lo studio conferma che la nascita pretermine può essere un’importante questione di salute pubblica e sottolinea la necessità di servizi sociali che riducano l’incidenza del parto prematuro estendendo l’attenzione anche all’ambiente familiare. In termini di politica sanitaria, ciò significa che tutta la famiglia, fratelli compresi, è a rischio» conclude il ricercatore.

(Fonte:«Doctor33»
(Approfondimenti: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24068297http:/www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24068297)

 

7. Nobel medicina va a tre biologi per il sistema postale delle cellule

8 ottobre 2013

La scoperta del traffico vescicolare, ovvero il sistema di trasporto delle nostre cellule, che aiuta gli scienziati a capire come un carico viene recapitato nel posto giusto al momento giusto all’interno delle cellule. Un cattivo funzionamento di questo sistema può portare a malattie neurologiche, diabete o disturbi immunologici. È questa la ragione che ha portato all’assegnazione del Nobel per la Medicina 2013 a James Rothman, Randy Schekman e Thomas Sudhof. Una ricerca di base, che pur non avendo portato a cure mediche vere e proprie, è stata fondamentale per svelare i fondamenti del funzionamento del nostro organismo. Rothman, 62 anni e insegna alla Yale University, Schekman, 64 anni e insegna all’Università della California a Berkeley e Sudhof, 58 anni e insegna all’Università di Stanford.

Studi importantissimi che rappresentano le fondamenta per chiarire i meccanismi cruciali nel funzionamento delle cellule e per contrastare un gran numero di patologie, come la fibrosi cistica, commenta il genetista Edoardo Boncinelli. «Credevo avessero già ottenuto il Nobel anni fa!», ha aggiunto Boncinelli. «Sono studi importanti per la comprensione di un grande numero di patologie dovute a un difetto del meccanismo di trasporto, come ad esempio la fibrosi cistica e molte malattie del sistema nervoso», ha osservato il genetista dell’Università Vita e Salute di Milano. «Congiuntamente, ma lavorando in maniera indipendente e autonoma, questi tre ricercatori – prosegue – hanno chiarito uno dei meccanismi cruciali del funzionamento delle cellule, ossia come funziona il traffico delle molecole che devono essere portate all’interno e di quelle che devono essere portate fuori»

(Fonte: «Doctor33»)

8. Aifa e Bmj concordano: l’attività fisica equivale ai farmaci

8 ottobre 2013

Esercizio fisico contro farmaci: non è certo una contrapposizione, perché possono svolgere un’azione sinergica, ma quanto a efficacia il primo può addirittura prevalere sui secondi. Si parla in questo caso di pazienti con problemi cardiaci e a presentare dati autorevoli in proposito è il «British medical journal», sulla scorta di una revisione sistematica degli studi pubblicati nella letteratura scientifica. Se ne sono incaricati i ricercatori inglesi della London School of Economics e americani delle università di Harvard e di Stanford, che hanno effettuato una meta-analisi di 305 studi che complessivamente hanno preso in esame 340 mila persone.

Hanno fatto parte del campione pazienti con patologie come ictus, scompenso cardiaco e diabete: sottoposti a trattamenti farmacologici oppure impegnati in programmi di attività fisica, hanno ottenuto una riduzione di mortalità del tutto simile o, come si dice in statistica, “senza differenze significative”. Se nello scompenso cardiaco l’assunzione di diuretici ha comportato un’efficacia superiore, per l’ictus l’esercizio fisico si è mostrato ancora più valido dei medicinali, tanto che gli autori dello studio hanno proposto di inserire l’attività fisica nell’elenco delle terapie.

Ma l’attività fisica ha un effetto benefico che va oltre le patologie cardiache. Sull’argomento si è espresso recentemente il presidente dell’Agenzia italiana del farmaco Sergio Pecorelli che, intervenendo all’ottavo European Sport Medicine Congress di Strasburgo ha dichiarato che ormai «i dati dimostrano che l’attività motoria quotidiana e continuativa a tutte le età permette non solo di conservare o di acquisire una buona forma fisica, ma soprattutto di mantenere una buona attività cerebrale, prevenendo il decadimento cognitivo». Anche i medici dovranno sempre più tenerne conto: «La prescrizione dell’attività fisica – ha riaffermato Pecorelli – deve essere considerata al pari di un medicinale e diventare uno stile di vita a tutti gli effetti».

Renato Torlaschi
(Fonte:«Farmacista33»)

9. Donazione organi: Consiglio d’Europa, nel 2011 morti ogni giorno 12 pazienti in lista d’attesa

8 ottobre 2013

Nel 2011 in Europa 68.073 persone erano in attesa di trapianto di rene, e ogni giorno 12 pazienti in lista sono morti a causa della mancanza di organi disponibili; «12 persone, quindi, che avrebbero potuto essere salvate se un organo fosse arrivato in tempo». A rammentarlo sulla sua homepage (http://hub.coe.int/), in vista della Giornata europea della donazione e del trapianto di organi (12 ottobre), è il Consiglio d’Europa, lanciando la campagna 2013 della Direzione europea della qualità dei medicinali e cura della salute, con la messa online dei primi due clip d’animazione sulla donazione degli organi.

Ogni settimana verrà pubblicato online un nuovo clip, fino al 12 ottobre, data della celebrazione ufficiale della Giornata europea a Bruxelles. Obiettivo della campagna e della Giornata, giunta alla 15ma edizione, «accrescere il numero di potenziali donatori iscritti in tutta Europa» per tentare di «far diminuire i dati impressionanti sui decessi di pazienti in attesa di trapianto». Reni, fegato, cuore, polmone, pancreas, intestino, midollo osseo e numerosi altri tessuti e cellule possono essere trapiantati, e non c’è limite di età per il dono.

La campagna di sensibilizzazione su scala europea è stata avviata online con le storie, disponibili su YouTube, di personaggi chiamati Julia, Anna, Daniel e George. Creata, inoltre, una pagina sulla piattaforma Thunderclap.

(Fonte: «Sir»)

10. Profughi e migranti: Barnier (Commissione Ue), «Problema europeo, non nazionale»

9 ottobre 2013

«Dobbiamo aspettarci nuovi massicci afflussi in Europa di profughi siriani», mentre «i Paesi vicini, dal Libano alla Giordania», sono allo stremo per quanto riguarda l’accoglienza dei rifugiati. «Anche Turchia, Grecia e Bulgaria stanno facendo molto per ospitare siriani in fuga». Michel Barnier fa il punto della situazione, a nome della Commissione europea, sul fronte mediorientale; poi arriva al Mediterraneo. «Non meno grave, pur con numeri diversi, è la situazione degli sbarchi a Lampedusa», mentre cresce la pressione su Italia, Malta e Cipro con arrivi di «persone in fuga» dall’Africa. Barnier, all’indomani del Consiglio dei ministri Ue di Lussemburgo, torna a ripetere che «occorre rafforzare Frontex, mostrare solidarietà nell’accogliere gli immigrati» che giungono sulle coste meridionali dell’Europa, nonché «trovare un approccio coerente dell’Unione europea verso le migrazioni». Barnier ringrazia «la popolazione di Lampedusa per la solidarietà e il senso di ospitalità» che sta mostrando, ma «non possiamo lasciare soli gli Stati» di approdo di profughi e migranti. Il commissario francese ribadisce il «principio di non respingimento» per chi cerca asilo. «Queste non sono questioni nazionali – aggiunge – ma europee, e servono più mezzi e più finanziamenti»: esattamente ciò che nel bilancio Ue continua a mancare per il “no” dei governi degli Stati membri.

(Fonte: «Sir Europa»)

11. Con benessere economico aumenta mortalità anziani

9 ottobre 2013

Nelle fasi di boom economico, quando il benessere di un Paese è in fase di crescita, aumenta anche la mortalità delle persone più anziane. Potrebbe sembrare un paradosso, ma si tratta invece delle conclusioni alle quali sono giunti i ricercatori olandesi guidati da Herbert J. A. Rolden della Leyden Academy on Vitality and Ageing senza però riuscire a spiegare fino in fondo le cause di questo fenomeno apparentemente piuttosto bizzarro.

«L’aspettativa di vita è in costante aumento nei Paesi sviluppati grazie anche a una riduzione della mortalità nelle fasce di età più avanzate», spiega Rolden dalle pagine della rivista «Journal of Epidemiology and Community Health». «Per questo motivo è molto importante capire quali sono le principali cause della mortalità in questo gruppo di persone».

Si dice in genere che «il benessere genera salute» e, di conseguenza, la recessione che si trovano oggi ad affrontare molte nazioni sviluppate dovrebbe avere un impatto negativo sulla salute delle persone più anziane. Ma la realtà appare diversa. Come affermano gli autori della ricerca, è vero che il benessere economico sul lungo periodo porta in effetti a una riduzione della mortalità, ma se si guarda ai cicli macroeconomici si nota che nelle fasi di crescita attiva la mortalità è più elevata: una maggiore disoccupazione e un prodotto interno lordo – il Pil – più basso sono infatti associati a percentuali più basse di decessi.

Per cercare di comprendere meglio il legame tra benessere economico e mortalità in età avanzata, Rolden e colleghi hanno quindi analizzato i dati relativi a questi due parametri in 19 Paesi sviluppati per il periodo 1950-2008. Come indicatore del benessere economico è stato scelto il Pil, e sono stati coinvolti nello studio soggetti appartenenti a due diverse fasce di età (40-44 anni e 70-74 anni) per poter meglio definire le differenze nelle diverse fasce di popolazione. I risultati parlano chiaro: per ogni punto percentuale di aumento del Pil i tassi di mortalità aumentano dello 0,36% negli uomini over 70 e dello 0,38% in quelli attorno ai 40 anni. Stesso risultato, anche se con numeri leggermente inferiori, anche per le donne con percentuali pari a 0,18% nella fascia di età più avanzata e di 0,16% nelle quarantenni.

«Di solito si attribuisce questo fenomeno al fatto che con più lavoro e più elevato benessere economico salgono anche lo stress e il numero di incidenti stradali, ma questa spiegazione non giustifica un aumento della mortalità nella popolazione più anziana che ormai è fuori dalle dinamiche del mondo del lavoro», afferma Rolden, che continua: «Le ragioni di questa maggiore mortalità negli anziani sono da ricercare altrove». Secondo gli autori la spiegazione potrebbe essere legata ai cambiamenti a livello di supporto sociale agli anziani: nei periodi di boom economico un tasso di occupazione più elevato si può infatti tradurre in una minore attenzione dedicata a chi è avanti con gli anni anche a causa del maggiore stress al quale sono sottoposti coloro che in genere degli anziani si prendono cura.

(Fonte: «Doctor33»)
(Approfondimenti: http://jech.bmj.com/content/early/2013/09/19/jech-2013-202544.abstract)

12. Vaccino anti-Hiv: un altro buco nell’acqua

9 ottobre 2013

La terapia con il vaccino Dna/rAd5 non ha ridotto né il tasso di infezione da Hiv-1 né la carica virale nella popolazione studiata. Ecco le lapidarie ma definitive conclusioni di una ricerca del gruppo di studio Hiv Vaccine Trials Network (Hvtn) appena pubblicato sul «New England Journal of Medicine». L’epidemia da virus dell’immunodeficienza umana di tipo 1 (Hiv-1) è giunta alla sua quarta decade, con 2,5 milioni di nuovi casi stimati ogni anno nel mondo. «E il tasso di infezioni, anche se in diminuzione, supera di gran lunga il numero di pazienti che iniziano la terapia antiretrovirale», esordisce Scott Hammer, ricercatore del Dipartimento di Medicina della Columbia University e primo autore dell’articolo, aggiungendo che, nonostante una efficace serie di interventi preventivi tra cui la profilassi pre-esposizione, l’epidemia da Hiv sarà probabilmente domata solo con lo sviluppo di un vaccino sicuro ed efficace, obiettivo peraltro sfuggente.

Infatti, dei vaccini anti Hiv finora sviluppati, solo uno è stato capace di indurre una modesta riduzione, il 31%, delle nuove infezioni nella popolazione tailandese. «Il Dale and Betty Bumpers Vaccine Research Center (Vrc) del National Institute of Allergy and Infectious Diseases è stato istituito con l’obiettivo di facilitare lo sviluppo di un vaccino anti-Hiv che suscitasse risposte specifiche anticorpali e dei linfociti CD4 e CD8 contro i principali ceppi circolanti», prosegue il ricercatore. Il composto risultante, il Dna/rAd5, ha subito numerosi test preclinici, risultando sicuro e immunogeno. Il passo successivo è stato questo, uno studio di efficacia di fase 2b in cui il Dna/rAd5 è stato somministrato a una popolazione a rischio di 2.504 uomini o transessuali che faceva abitualmente sesso con uomini: 1.253 partecipanti sono stati vaccinati e 1.251 hanno ricevuto un placebo. E nel mese di aprile 2013 i dati di sorveglianza e sicurezza hanno fermato il programma di vaccinazioni per mancanza di efficacia sia nel prevenire l’infezione sia nel ridurre il carico virale. «Il nostro studio ha dato un risultato definitivo, anche se deludente, fornendo tuttavia informazioni utili nel futuro sviluppo di nuovi vaccini» conclude Hammer.

(Fonti: «Doctor33» e «NEJM» 2013 October 7)
(Approfondimenti: http://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMoa1310566)

13. Il software per progettare i figli divide l’America

10 ottobre 2013

Un bambino con un «fenotipo d’interesse che i futuri genitori desiderano vedere nei loro ipotetici figli». È la promessa di una società americana della Silicon Valley, la «23andMe», che ha recentemente brevettato un test genetico in grado – in teoria – di esaminare il patrimonio genetico di un embrione fecondato in vitro o dello sperma e ovuli di donatori, per selezionare i tratti preferiti da mamma e papà. E, potenzialmente, scartare i gameti o gli embrioni che non corrispondono alle aspettative dei genitori. L’interfaccia brevettata dall’azienda californiana sembra estremamente semplice da usare. Mostra vari menu, come quelli di Word, dove si può selezionare: «Preferisco un bambino con un basso rischio di cancro del colon», oppure «Preferisco un bambino con alte probabilità di avere gli occhi azzurri».

Naturalmente la concessione del brevetto non è passata inosservata, suscitando timori nella comunità scientifica e bioetica. La prospettiva che la tecnologia per progettare un bambino a tavolino sia a portata di mano, e che un’azienda privata sia disposta a sfruttarla, ha creato un nugolo di polemiche. «Sarebbe davvero irresponsabile per 23andMe o per chiunque altro offrire un prodotto basato su questo brevetto – spiega Marcy Darnovsky, direttrice del Centro per la genetica e la società –, crediamo che l’Ufficio brevetti abbia commesso un grave errore registrando questa tecnologia».

Anche Dov Fox, docente di Legge all’Università di San Diego, ha accusato il governo di essersi sottratto alle sue responsabilità morali. «Quando il governo brevetta un’invenzione – dice – implicitamente la approva come un’invenzione che merita diritti esclusivi». L’azienda ha annusato il rischio di un danno d’immagine ed è corsa ai ripari, assicurando che non ha nessuna intenzione di usare il «Calcolatore dei tratti genetici familiari» – come l’ha chiamato – per la programmazione di un essere umano con un codice genetico superiore.

«Abbiamo creato questa società con l’idea di fare qualcosa di rivoluzionario, di offrire ai consumatori centinaia di informazioni e rivoluzionare l’approccio alla salute e alla medicina – ha spiegato la fondatrice di 23andMe, Anne Wojcicki, moglie del fondatore di Google, Sergey Brin –. Quando abbiamo richiesto il brevetto, nel 2008, avevamo considerato le sue applicazioni nelle cliniche della fertilità, ma ora abbiamo deciso di escluderle».

Pericolo evitato, dunque? Fino a un certo punto. Alcuni esperti di genetica fanno notare che le esitazioni dell’azienda potrebbero essere frutto non di considerazioni etiche quanto dall’impossibilità scientifica di “fabbricare” un bambino su misura. «Per identificare un legame fra una sequenza di Dna e le caratteristiche fisiche che può esprimere occorrono molti geni – spiega Lori Andrews, studiosa di genetica all’Illinois Institute of Technology –. Gli scienziati non hanno ancora trovato prove certe di quali geni o combinazioni di essi definiscano specifici tratti, come l’intelligenza e la longevità. Quindi 23andMe non dispone di un metodo garantito ma di un modo per aumentare le probabilità che il neonato abbia le caratteristiche ritenute “giuste”».

Quello che la società ha già dimostrato di sapere fare, e in modo redditizio, è un’analisi del Dna fai-da-te. Pagando 99 dollari ci si vede recapitare a domicilio un kit per la raccolta di un campione di saliva, la cui analisi apre la porta ai “segreti” del proprio patrimonio genetico, dalle radici etniche della famiglia alla predisposizione a 240 malattie. Questo prodotto può essere personalizzato per futuri genitori, rivelando a una coppia quante probabilità ha di trasmettere geni non desiderabili ai propri figli. Alle cliniche per la fecondazione artificiale, inoltre, 23andMe offre la diagnosi pre-impianto degli embrioni, consentendo ai genitori di scartare quelli portatori di anomalie genetiche. Una pratica comune negli Stati Uniti. Ma persino quanti sono disposti ad accettare l’eliminazione di embrioni sulla base di gravi difetti del Dna temono le implicazioni di tecnologie così sofisticate.

Un recente editoriale della prestigiosa rivista americana «Genetics and Medicine» ha infatti messo in guardia le coppie dall’uso di metodi che permettono di selezionare i tratti genetici dei loro figli, invitandole a riflettere sui profili etici e sulle conseguenze. Ma il giudizio forse più acuto sulla vicenda viene da Darnovsky del Centro per la genetica e la società, ed è ancora più filosofico, e più amaro: «Se arriviamo a credere di poter selezionare certi tratti dei nostri bambini e a pensare che è il meglio che possiamo fare per far progredire la condizione umana, allora siamo davvero messi molto male».

Elena Molinari
(Fonte: «Avvenire»)

14. Ecuador, il socialista rivoluzionario contro l’aborto

13 ottobre 2013

Il caso di Rafael Correa ricorda quello del suo omologo dell’Uruguay Tabaré Vazquez che nel 2008 pose il veto alla legge che depenalizzava l’aborto in Uruguay dopo essere stata approvata di stretta misura dal Parlamento e fu costretto alle dimissioni. Adesso il presidente ecuadoriano, socialista come il collega dell’America del Sud, minaccia di fare la stessa cosa se l’Assemblea Nazionale del suo Paese approverà la proposta di legge che vorrebbe introdurre norme per la depenalizzazione dell’aborto, pratica che attualmente il codice penale del Paese andino vieta severamente.

Un gesto consapevole quello di Correa, che si è dichiarato pronto “da subito” a lasciare la presidenza della repubblica se il Congresso, e in particolare i parlamentari del suo partito “Alianza País”, daranno questo passo, un «vero tradimento e una grave slealtà» l’ha qualificato, ricordando di aver sempre detto con chiarezza di essere contrario a qualsiasi forma di legalizzazione dell’interruzione volontaria della gravidanza. «Non appartengo a quel tipo di persone che dicono una cosa e poi ne fanno un’altra», ha aggiunto il governante ecuadoriano, che si definisce «uomo di sinistra, umanista e cattolico», e ammiratore di Papa Francesco.

Rafael Correa, cui gli elettori hanno rinnovato il mandato per la terza volta nel mese di febbraio di quest’anno, e che pertanto dovrebbe governare fino al 2017, appartiene a quell’America Latina oggi maggioritaria di orientamento socialista. Avversario dell’ accordo di libero commercio promosso dagli Stati Uniti nel continente, critico delle politiche del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale per la gestione delle crisi economico-finanziarie dei Paesi in via di sviluppo, Correa ha imposto una riforma del settore petrolifero che aumenta la percentuale dei ricavi destinati a programmi sociali per i poveri, accusando le compagnie petrolifere straniere di non ottemperare alle norme ambientali e sugli investimenti e di trattenere l’80% del loro fatturato.

In ambito finanziario Correa ha smantellato le politiche neoliberiste dei predecessori. In politica estera si è mosso con prudenza tanto nel conflitto colombiano governo- FARC che con il Venezuela di Chavez, verso cui ha mantenuto una certa distanza. Non è la prima volta che Correa, che si definisce cattolico osservante ed in gioventù ha trascorso alcuni anni in Seminario, ha tentato di bloccare la legge sull’aborto. Nel 2008, nel corso del dibattito dell’Assemblea costituente, alcuni rappresentanti avevano già provato ad introdurre una riforma in senso liberalizzatore ma senza successo. Adesso ci riprovano e una volta ancora Correa scende in campo per opporsi.
Forte della maggioranza assoluta nelle ultime elezioni (56,9% contro il 23,8% dello sfidante), Correa ha ricordato ai liberalizzatori che la Costituzione ecuadoriana difende la vita sin dal concepimento e il Piano nazionale di sviluppo “che ha votato il popolo ecuadoriano” non contempla la depenalizzazione dell’aborto. «Per difendere la vita sono pronto a dimettermi, e la storia saprà giudicarmi», ha dichiarato con solennità.

Alver Metalli
(Fonte: «Zenit»)
(Approfondimenti: http://www.terredamerica.com/2013/10/12/socialista-rivoluzionario-contro-laborto-il-presidente-dellecuador-rafael-correa-pronto-a-lasciare-se-il-suo-partito-approvera-la-depenalizzazione-dellaborto/)

15. Giovani medici europei poco preparati in terapia del dolore

14 ottobre 2013

Le scuole di medicina e chirurgia europee non prevedono un adeguato insegnamento in materia di Medicina del dolore. È quanto emerge dallo studio Appeal (Advancing the provision of pain education and learning) – la prima ricerca a livello europeo sull’erogazione della didattica relativa alla terapia antalgica – i cui risultati sono stati presentati a Firenze, durante il congresso annuale dell’European pain federation (Efic).

«Anche quando sono previsti corsi obbligatori, in media si richiedono soltanto 12 ore di frequenza nell’arco dei 6 anni del corso di laurea, equivalenti ad appena lo 0,2% della didattica erogata», ha affermato Hans G. Kress, presidente dell’Efic. Lo studio ha coinvolto 242 atenei in 15 Paesi europei, riscontrando che l’82% di tali istituzioni non prevede alcun corso obbligatorio di Terapia del dolore. «Dai dati raccolti si evidenzia l’eterogeneità nelle varie nazioni dell’educazione al dolore nei corsi di laurea in medicina» spiega Daniele Battelli, membro della Committee education Efic e medico in formazione specialistica dell’università di Modena. «In alcuni Paesi si vedono gap importanti, in quanto non si riscontra evidenza di formazione in Medicina del dolore. E questo nonostante il dolore sia la prima causa di visita e una patologia pienamente riconosciuta, specie quando cronicizza, per le comorbidità che comporta in termini di depressione, disabilità, assenze lavorative, elevati costi sociali. Questa iniziativa europea tenterà di creare una cornice intorno cui costruire un’educazione di buon livello qualitativo e quantitativo per i futuri medici».

L’Italia, sottolinea Battelli, in quest’ambito ha svolto un ruolo pionieristico con l’introduzione dell’obbligatorietà dell’insegnamento da più di 20 anni. «Da noi c’è già la legislazione relativa al pre- e al post-laurea con la Legge 38», specifica «ma possono esserci disomogeneità per esempio nel numero di ore implementate sul tema». In ogni caso, sulla base degli esiti dello studio, la task force di Appeal raccomanda a tutte le Istituzioni di creare un framework europeo per l’insegnamento di Medicina del dolore, introdurre corsi di insegnamento di Terapia del dolore obbligatori per tutti gli studenti di medicina in Europa, e migliorare la documentazione dell’insegnamento in questa materia nell’ambito dei programmi didattici universitari.

(Fonte: «Doctor33»)

16. Cancro in Europa: Italia tra i Paesi con costi maggiori

16 ottobre 2013

È di 126 miliardi di euro il conto presentato dal cancro nel 2009 all’Unione Europea, a giudicare dai dati raccolti dallo Health Economics Research Centre dell’Università di Oxford in collaborazione con il Cancer Centre and Institute for Cancer Policy del King’s College di Londra e pubblicati su «The Lancet Oncology». Secondo lo studio, il primo che valuta il costo economico globale della malattia nei 27 Paesi membri, a pagare più dei due terzi della spesa, 83 miliardi, sono quattro Paesi: Germania, Francia, Italia e Regno Unito.

Le cifre della rivista britannica vengono sia dalle organizzazioni sanitarie internazionali come Oms ed Eurostat sia dai locali Ministeri della sanità e istituti statistici, e il 2009 è l’anno più recente per cui erano disponibili i dati completi. I risultati rivelano disparità nell’impiego delle risorse economiche pro-capite per l’assistenza sanitaria, con Lussemburgo e Germania in testa alla classifica con 184 e 182 euro a persona, Bulgaria fanalino di coda con 16 euro. Settima di 27 l’Italia con 114 euro.

Dice Richard Sullivan, direttore del Cancer Centre e coautore dell’articolo: «La sola spesa per i farmaci, 14 miliardi, è un quarto del costo totale». La Lituania è quella che spende meno, e Cipro la più prodiga. «Il conto globale comprendeva il costo delle cure sanitarie inclusi i farmaci, quello derivato dalla perdite di produttività per malattia e morte prematura, e il costo delle cure di amici e parenti» riprende Sullivan. Circa 51 miliardi di euro sono stati spesi dai servizi di assistenza sanitaria, il resto viene dalle famiglie dei pazienti, dagli amici e dalla società civile. «Amici e parenti hanno fornito 3 miliardi di ore di cure non retribuite, valutabili in 23,2 miliardi di euro. Sul fronte opposto, la perdita di produttività per malattia e morte prematura è stata di 52 miliardi.

I ricercatori hanno anche individuato i quattro tumori responsabili della metà dei nuovi casi e dei decessi: il cancro al seno, quello del colon, le neoplasie polmonare e prostatica. «A costare di più è il cancro ai polmoni, 18,8 miliardi, responsabile anche dell’onere economico più elevato in termini di perdita di produttività». continua il ricercatore. I costi sanitari, invece, sono maggiori per il cancro al seno, 6,7 miliardi, in gran parte per l’elevata spesa farmaceutica. «Cifre da capogiro, ma ancora al netto dei costi di alcuni tipi di assistenza sanitaria, come per esempio i programmi di screening, non inclusi per l’impossibilità di ottenere i dati in tutti i Paesi membri». sottolinea Sullivan, che assieme ai colleghi aveva già calcolato con gli stessi metodi il peso economico delle malattie cardiovascolari.

E mentre l’onere economico complessivo per malattie di cuore e vasi nell’Ue supera quello per cancro con 195 miliardi contro 126, le spese da perdita di produttività sono quasi il doppio per i tumori, 43 contro 27 miliardi, a causa del maggior numero di decessi per cancro in età lavorativa. «Realizzare cure di alta qualità è difficile senza conoscere il carico totale di malattia e come impiegare le risorse necessarie. Ci auguriamo che questi risultati permettano ai politici europei di rendere più uniforme il rapporto qualità-prezzo delle terapie contro il cancro con una migliore allocazione dei finanziamenti, che in molti Paesi potrebbero addirittura migliorare i tassi di sopravvivenza», commenta in un editoriale Gary Lyman, della Duke University School of Medicine di Durham, North Carolina.

(Fonti: «Doctor33» e «The Lancet Oncology», Early Online Publication, 14 October 2013)
(Approfondimenti: http://www.thelancet.com/journals/lanonc/article/PIIS1470-2045(13)70442-X/abstract)

17. Il Papa: «È uno scandalo che ci siano ancora fame e malnutrizione nel mondo!»

16 ottobre 2013

«Le persone sane dipendono da sistemi alimentari sani» è lo slogan della Giornata dell’alimentazione, celebrata il 16 ottobre in tutto il mondo. Un principio indiscutibile. Tuttavia non è solo il sistema alimentare a dover essere risanato, ma un’intera umanità, ancora marcata da individualismo, indifferenza, cultura dello scarto.
È Papa Francesco ad esprimere la dura e triste denuncia. Nel messaggio inviato il 16 ottobre alla FAO, il Santo Padre non si limita a lanciare un appello affinché si cerchi una soluzione alla malnutrizione, che – scrive – «è una delle sfide più serie per l’umanità». Ma sviscera il problema rivolgendosi direttamente al cuore dell’uomo, ormai insensibile a questo tipo di problematiche, tanto da considerare la fame «un fatto normale al quale abituarsi, quasi si trattasse di parte del sistema».

Invece no, urla Bergoglio: «È uno scandalo che ci sia ancora fame e malnutrizione nel mondo!». Non si tratta, infatti, «solo di rispondere ad emergenze immediate, ma di affrontare insieme, a tutti i livelli, un problema che interpella la nostra coscienza personale e sociale, per giungere ad una soluzione giusta e duratura».
In particolare, il pensiero di Francesco va a tutte quelle persone che abbandonano le proprie radici per fuggire in altri Paesi nella speranza di una vita migliore. «“Nessuno sia costretto a lasciare la propria terra e il proprio ambiente culturale per la mancanza dei mezzi essenziali di sussistenza!», afferma.
In un’epoca di progressi scientifici “senza precedenti” – osserva poi il Santo Padre – in una società permeata dalla globalizzazione che «permette di conoscere le situazioni di bisogno nel mondo e di moltiplicare gli scambi e i rapporti umani», è paradossale che si verifichi ancora questa “chiusura in sé stessi” da parte di singole persone, Stati e Istituzioni.

«Qualcosa – sottolinea il Papa – deve cambiare in noi stessi, nella nostra mentalità, nelle nostre società». Un passo importante è “abbattere con decisione” le barriere “della schiavitù del profitto a tutti i costi”, non solo “nelle dinamiche delle relazioni umane”, ma anche in quelle “economico-finanziarie globali”. Il Pontefice parla allora dell’urgenza di “educarci alla solidarietà”, una “parola scomoda e messa molto spesso in disparte”, dice, che però deve diventare l’«atteggiamento di fondo nelle scelte a livello politico, economico e finanziario, nei rapporti tra le persone, tra i popoli e tra le nazioni».

Secondo Bergoglio, per realizzare concretamente questa solidarietà, è necessario «mettere al centro sempre la persona e la sua dignità e mai svenderla alla logica del profitto». Per questo, essa non può ridursi solo “alle diverse forme di assistenza”, ma operare «per assicurare che un sempre maggior numero di persone possano essere economicamente indipendenti». Tanti passi sono stati fatti in questa direzione, in diversi Paesi – constata il Pontefice – eppure «siamo ancora lontani da un mondo in cui ognuno possa vivere in modo dignitoso».

Francesco riflette poi sul tema scelto quest’anno dalla FAO ed esorta ad un ripensamento dei nostri sistemi alimentari “in una prospettiva solidale”, che superi «la logica dello sfruttamento selvaggio del creato» ed orienti «il nostro impegno di coltivare e custodire l’ambiente e le sue risorse per garantire la sicurezza alimentare e camminare verso una nutrizione sufficiente e sana per tutti». Tutto ciò – spiega – necessita però di un cambiamento degli “stili di vita”, inclusi quelli alimentari, segnati in tante aree da “consumismo, spreco e sperpero di alimenti”, i quali hanno ridotto «circa un terzo della produzione alimentare mondiale».

Infine il Papa ricorda l’Anno internazionale della famiglia rurale, fissato per il 2014 su iniziativa della FAO. Un’occasione utile per sostenere la famiglia che è “la prima comunità educativa”, dove – sottolinea – si può imparare «ad avere cura dell’altro, del bene dell’altro, ad amare l’armonia della creazione e a godere e condividere i suoi frutti, favorendo un consumo razionale, equilibrato e sostenibile».
Il problema della fame, dunque, è, secondo il Santo Padre, non solo economico, politico, o di coscienza, ma anche di famiglia. È necessario “sostenere e tutelare la famiglia”, affinché “educhi alla solidarietà e al rispetto”. Un passo, questo, “decisivo per camminare verso una società più equa e umana”. «“La Chiesa cattolica – conclude – percorre con voi queste strade, consapevole che la carità, l’amore è l’anima della sua missione».

Salvatore Cernuzio
(Fonte: «Zenit»)

18. Francia, sindaci obbligati a celebrare nozze gay: «No all’obiezione di coscienza»

18 ottobre 2013

I sindaci e gli aggiunti francesi non possono rifiutarsi di celebrare matrimoni gay. È quanto ha stabilito il 18 ottobre il Consiglio costituzionale francese, che non ha accolto l’istanza presentata dal Collettivo dei sindaci per l’infanzia, legato alla Manif pour tous, che volevano vedersi riconosciuta la possibilità di fare obiezione di coscienza in nome delle libertà fondamentali riconosciute a tutti i cittadini nella Carta francese.

IL VERDETTO. «Il Consiglio ha giudicato che a proposito delle funzioni degli ufficiali dello Stato civile nella celebrazione del matrimonio, il legislatore non mina la libertà di coscienza. Le disposizioni contestate sono infatti conformi alla Costituzione», ha dichiarato il Consiglio in un comunicato.

CARCERE E SANZIONI. I sindaci saranno dunque obbligati ad attenersi alla circolare inviata dal ministro degli Interni Manuel Valls il 13 giugno 2013 dopo l’approvazione del matrimonio gay. «Se il rifiuto di celebrare un matrimonio gay è motivato dall’orientamento sessuale degli sposi – si legge nella circolare – l’ufficiale di Stato civile si espone a pene che vanno dai cinque anni di prigione e 7.500 euro di multa per reato di discriminazione» a una sanzione disciplinare che prevede la sospensione temporanea e la revoca dell’incarico.

SINDACI OBIETTORI. Negli ultimi mesi, il primo cittadino di Arcangues Jean-Michel Colo ha rischiato di essere sospeso, di vedersi revocata la carica di sindaco, di essere condannato a tre anni di prigione e a un’ammenda pari a 45 mila euro per aver fatto obiezione di coscienza. Stessa sorte hanno rischiato Jean-Yves Clouet, sindaco di Mésanger, Marie-Claude Bompart, sindaco di Bollène, e molti altri.

PROMESSA NON MANTENUTA. Nel novembre del 2012, Francois Hollande aveva assicurato che «la legge si applica per tutti ma nel rispetto dell’obiezione di coscienza». L’opposizione del Partito socialista e soprattutto del ministro Christiane Taubira avevano poi fatto fare marcia indietro al Presidente.

(Fonte: «Tempi»)

19. Il nuovo vaccino che non sconfiggerà la malaria

18 ottobre 2013

L’8 ottobre un’équipe di ricercatori ha annunciato la creazione di un vaccino contro la malaria, chiamato Rts,s. L’anno prossimo la GlaxoSmithKline ne chiederà l’approvazione agli enti di regolamentazione. Insieme al partner Path, l’organizzazione non profit che porta avanti il programma Malaria vaccine initiative, la casa farmaceutica britannica ha anche diffuso i nuovi dati degli effetti del vaccino sui bambini. Pur trattandosi di un’ottima notizia, da solo l’Rts,s non riuscirà a sconfiggere la malaria.

Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), nel 2010 nel mondo ci sono stati circa duecento milioni di casi di malaria con 660 mila morti, il 90 per cento dei quali in Africa, soprattutto tra i bambini. Riuscire a mettere a punto un vaccino sarebbe, quindi, fondamentale. Crearne uno, però, è difficile. Per quanto piccoli e unicellulari, i parassiti della malaria sono molto più complessi di batteri e virus, i bersagli consueti, e fino a oggi non è stato creato nessun vaccino efficace contro organismi simili. Infatti, all’Rts,s si lavora da decenni.

La malaria insorge quando una zanzara, pungendo, inietta i parassiti nel sangue di un individuo. Raggiunto il fegato, questi si nascondono, maturano, si moltiplicano e infine tornano nel sangue per invaderne e distruggerne i globuli rossi. Il vaccino contiene una proteina presente sulla superficie del parassita, un antigene dell’epatite B che innesca una reazione immunitaria e un ulteriore adiuvante per rinforzare la risposta immunitaria. L’Rts,s sembra indurre gli anticorpi e le cellule killer ad aggredire il parassita prima che lasci il fegato. Una sperimentazione clinica compiuta in undici siti di sette Paesi africani dimostra che l’Rts,s protegge realmente dalla malaria, ma non funziona come speravano i ricercatori: nei bambini di età compresa tra i cinque e i 17 mesi al momento del vaccino ha ridotto i casi del 46 per cento, mentre nei neonati tra le sei e le dodici settimane di età del 27 per cento. Poi gli effetti sembrano attenuarsi.

Secondo i primi risultati, l’efficacia dopo un anno si è rivelata del 56 per cento nei bambini e del 31 nei neonati. Anche se l’Rts,s non soddisfa l’ambizione di avere un vaccino che offra una protezione superiore al 50 per cento entro il 2015, i suoi effetti non vanno sottovalutati. Il punto ora è vedere se il vaccino sia abbastanza efficace da conquistare l’approvazione dell’Agenzia europea per i medicinali, se l’Oms ne caldeggerà l’impiego e se i donatori saranno disposti a comprarlo. (sdf)

(Fonte: «Internazionale» – «The Economist»)

20. La produzione di cibo in Europa potrebbe presto raggiungere il limite

21 ottobre 2013

Molti Paesi europei potrebbero non essere più in grado di aumentare la quantità di cibo che producono. Il motivo? Molte colture di base sono vicine ai loro limiti fisiologici di crescita. Lo rivela Lester Brown, presidente dell’Earth Watch Institute e analista alimentare di fama internazionale. «In Francia, Germania e Regno Unito, i tre produttori di grano leader nell’Europa occidentale, c’è stato poco aumento dei rendimenti per oltre 10 anni», avverte Brown: «Altri Paesi raggiungeranno presto i loro limiti per le rese di granaglie». Un problema che riguarda anche diverse nazioni extra-Ue, rivela Brown. Come India, Corea del sud, Cina e Giappone, dove la produttività dei raccolti di riso non cresce da ben 17 anni.

Dopo decenni di aumenti dei raccolti, i governi non hanno ancora capito che presto si raggiungerà il limite della capacità di produrre cibo. Soprattutto considerando che, entro la metà di questo secolo, il pianeta ospiterà circa tre miliardi di persone in più. A lanciare l’allarme è Lester Brown, ambientalista ed economista statunitense noto al pubblico internazionale per avere, fra le altre cose, fondato il Worldwatch Institute ed avere sviluppato i diversi “Piani B” per salvare il pianeta Terra. «Dal 1950, i raccolti globali sono triplicati, ma quei giorni sono andati», fa presente Brown: «Tra il 1950 e il 1990, la resa di granaglie nel mondo è aumentata in media del 2,2% all’anno», rallentando di molto il suo ritmo rispetto ai decenni precedenti.

Il problema dei limiti nella produzione di alimenti, oltre che europeo, è anche e soprattutto asiatico. È ad esempio in India che, negli anni ’70, Lester Brown ha collaborato maggiormente nel tentativo di aumentare le rese di cibo. Nel gigante asiatico, ricorda lo scienziato statunitense, «il livellamento delle rese del frumento è decisamente reale». Anche perché, puntualizza, «l’India aggiunge 18 milioni di persone all’anno alla sua popolazione». Un discorso che ovviamente vale anche per la ancor più popolosa e vorace Cina.

In Gran Bretagna, nazione europea che con la Svezia sta cercando più di altri di capire come fronteggiare questo fenomeno, Stuart Knight del National Institute of Agricultural Botany non la pensa allo stesso modo: «I raccolti hanno dei limiti fisiologici, ma pensiamo di essere ben lungi dal raggiungerli», assicura. Esattamente il contrario di quanto afferma Lester Brown, per cui l’agricoltura tradizionale non può più nemmeno sperare di aumentare la sua produttività.

L’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura delle Nazioni Unite (FAO) sembra dare ragione a Knight. Secondo il suo ultimo rapporto trimestrale “Crop Prospects and Food Situation”, infatti, la produzione cerealicola mondiale nel 2013 aumenterà di circa il 7% rispetto allo scorso anno, aumento che porterebbe la produzione mondiale di cereali al livello record di 2.479 milioni di tonnellate. «Le rese di cereali per ettaro, come qualsiasi processo di crescita biologica, hanno i loro limiti e non possono continuare a salire all’infinito», insiste però il presidente del Worldwatch Institute, per cui ora il problema rimane invece la scarsità. «Abbiamo vincoli reali per l’acqua, l’erosione del suolo e le rese, a cui si aggiungono quelli dovuti ai cambiamenti climatici», precisa Brown: «Si tratta di una convergenza che non abbiamo mai affrontato prima».

Che fare, quindi? Secondo alcuni la soluzione sta nello sviluppo degli Organismi geneticamente modificati (Ogm). Fra chi la pensa così, spiccano il governo britannico, la Bill & Melinda Gates Foundation e l’International Rice Research Institute (Irri) nelle Filippine, che hanno già investito oltre 20 milioni di dollari nell’ingegneria genetica applicata al riso, sempre con la speranza di aumentarne la produzione. Nonostante i massicci sforzi, però, i progressi sono stati fino a questo punto pochi e lenti, e ancora non è chiaro l’effetto che organismi di questo tipo possano avere sulla salute umana.

Per sconfiggere il problema reale della scarsità in un pianeta che si appresta ad ospitare nove miliardi di persone, ciò che si può attuare da subito è ad esempio la riduzione degli sprechi alimentari. Che, soprattutto in Occidente, crescono costantemente nonostante la crisi economica. Prima di trovare modi per aumentare le rese, quindi, c’è chi suggerisce di iniziare a non gettare cibo e risorse inutilmente. Anche perché, stando ai dati FAO, l’attuale produzione globale di alimenti potrebbe permettere di nutrire oltre 12 miliardi di persone.

(Fonte. «La Stampa»)

21. Una sola specie all’origine dell’uomo? Acceso dibattito dopo la pubblicazione di uno studio su «Science»

 21 ottobre 2013

All’origine dell’uomo ci sarebbe un’unica specie. È quanto ipotizza uno studio pubblicato sull’autorevole rivista “Science” e basato sul ritrovamento a Dmanisi in Georgia di cinque crani di ominidi, risalenti ad 1,8 milioni di anni fa e con notevoli differenze morfologiche finora attribuite a diverse specie. La nuova proposta, se dimostrata, riscriverebbe la storia dell’evoluzione umana. «Uno studio interessante, ma da approfondire» secondo il direttore dell’Istituto Scienza e Fede del Pontificio Ateneo Regina Apostolorum padre Rafael Pascual, che, al microfono di Paolo Ondarza (Radio Vaticana), ricorda: «La Chiesa è in dialogo con la scienza: Sembra che questi cinque crani scoperti a Dmanisi appartengano allo stesso periodo e che presentino delle morfologie molto diverse tra di loro. Questo sembra voler dire non che ci troviamo davanti a specie differenti, ma a diversi individui che hanno diversità morfologiche, ma appartengono alla stessa popolazione, alla stessa specie».

Queste differenze sono convissute contemporaneamente e non contraddistinguerebbero specie diverse. Potrebbero essere ascrivibili ad un’unica specie con tratti somatici, morfologici, diversi: quelle stesse differenze che possiamo riscontrare nell’uomo contemporaneo …
Esatto. Questa è un po’ la novità di questa scoperta che ci mostra che in realtà c’è una differenza di carattere morfologico e non di carattere della specie.

E questo, a livello scientifico, ma anche a livello filosofico come cambierebbe il dibattito attuale in corso?
Per prima cosa, ci mette davanti a quella che è la caratteristica delle teorie scientifiche: bisogna essere molto prudenti. Queste teorie sono immature, nel senso che non è detto che adesso questa nuova proposta sia quella definitiva. Possiamo dire che siamo ancora in un cantiere dove ci sono ancora tanti lavori in corso. Dunque, non bisogna dare né troppo valore, né mettere tutto in discussione.

Indubbiamente, le scoperte di Dmanisi sono dei casi molto importanti dal punto di vista degli studi di paleoantropologia …
Sicuramente sì, perché mai avremmo immaginato che ci fossero degli ominidi così antichi in Europa. Questo ci deve far riflettere su come è avvenuta questa diffusione dell’uomo che non è avvenuta solo in Africa. Ci sono state diverse migrazioni.

In uno degli ominidi ritrovati a Dmanisi è stato riscontrato un dato significativo che potrebbe deporre per la sua identità umana: un individuo adulto che possedeva un solo dente al momento della morte, ed è sopravvissuto a lungo nonostante la quasi totale assenza di denti … presumibilmente per la solidarietà del suo gruppo…
Possiamo fare delle deduzioni, supposizioni. Dunque, supponiamo che questo individuo sia sopravvissuto perché ha trovato nei suoi simili qualche comportamento di appoggio, di solidarietà; però, secondo me, questa non è l’unica ipotesi presentabile.

Questa scoperta – abbiamo detto che comunque necessita di ulteriori approfondimenti – all’interno del dibattito scienza e fede, è rilevante?
Penso sia rilevante perché ci troviamo nuovamente di fronte alla questione di fondo dell’origine dell’uomo. E qui forse bisogna fare un chiarimento: pochi giorni fa ho letto un articolo di un giornale di grande diffusione qui in Italia. L’opinionista diceva che la Chiesa sosteneva il disegno intelligente, il creazionismo; invece non è così. Ci sono altre confessioni che vanno in questa direzione; ma nella linea della Chiesa c’è un’apertura verso quello che presenta la scienza, che non è in conflitto con quello che presenta la fede. In linea di massima, non c’è una posizione di difesa o di opposizione, di conflitto, ma una posizione di dialogo. Ovviamente, ci sono alcune interpretazioni che escludono la causalità divina, il finalismo, ecc, che ovviamente non sono conciliabili con quello che ci insegna la fede. Sostenere che c’è un piano di Dio che ha voluto creare l’uomo e che Dio si possa essere servito anche di un processo evolutivo non è una contraddizione. Il problema nasce quando la scienza pretende di escludere, aprioristicamente, che ci sia una causa trascendente.

Quindi per concludere quella di Dmanisi è una scoperta significativa, è un contributo importante anche per quanto riguarda il dibattito scienza fede …
Direi proprio che non va contro, ma piuttosto è vicina a ciò che si trova nell’insegnamento della Chiesa: l’origine del genere umano da, diciamo così, un’unica “Fonte”.

(Fonte: «Radio Vaticana»)

22. Cancro, «l’aria che respiriamo pericolosa come fumo di sigarette o amianto»

21 ottobre 2013

L’aria che respiriamo come il fumo di sigarette o l’amianto. L’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc), parte dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ha inserito gli inquinanti atmosferici – ad esempio le emissioni delle auto, delle industrie, delle centrali elettriche, dell’agricoltura o degli impianti di riscaldamento delle case – tra le principali cause ambientali di cancro, in particolare a polmoni e vescica. E le ha classificate nella stessa categoria di altri agenti esterni, come il benzene o il plutonio, il cosiddetto gruppo 1 degli agenti cancerogeni più pericolosi per l’uomo.

Secondo l’agenzia specializzata dell’Oms con sede a Lione, i dati recenti suggeriscono che, nel solo 2010, sono da addebitare allo smog 223 mila morti per cancro ai polmoni nel mondo, più della metà in Cina e altri Paesi asiatici. E il pensiero va subito alle immagini di Pechino avvolta da una fitta coltre d’inquinanti, frutto della rapida industrializzazione del gigante asiatico. «L’aria che respiriamo ogni giorno è diventata inquinata da una miscela di sostanze cancerogene – afferma Kurt Straif, curatore della monografia edita dallo Iarc -. Finora sapevamo che l’inquinamento poteva provocare disturbi cardiaci o respiratori, adesso sappiamo che può essere anche responsabile delle morti per cancro. Le prove scientifiche – puntualizza Straif – sono oramai evidenti».

La prima causa di cancro ai polmoni, con l’85% dei decessi, rimane comunque la sigaretta. L’inquinamento dell’aria è, invece, responsabile del 3-5% dei casi. Un dato statistico che può sembrare poco rilevante. Ma che è significativo, soprattutto se si pensa che il rapporto dell’Oms non si limita solo a un’analisi epidemiologica. Vuole anche lanciare l’allarme, per indurre i Governi a mettere in campo politiche più efficaci contro l’inquinamento, soprattutto dei grandi centri urbani. «Si tratta di un passo importante – commenta Christopher Wild, direttore dello Iarc -. Un segnale forte, considerando il livello di esposizione della popolazione nel mondo, inviato alla comunità internazionale affinché agisca senza ulteriori ritardi».

Ma i dati non devono preoccupare solo i cittadini e le autorità cinesi. La questione ci riguarda da vicino. La ricerca dello Iarc è stata data alle stampe, infatti, negli stessi giorni in cui l’Agenzia europea per l’ambiente (Eea) ha reso noto il proprio rapporto sulla qualità dell’aria nel Vecchio continente tra il 2002 e il 2011. Un’indagine da cui emerge come, nonostante i tagli significativi di alcuni composti tra cui il monossido di carbonio operati dagli Stati, l’inquinamento dell’aria nelle città continui a rappresentare un rischio crescente per la salute dei cittadini europei.

Secondo i dati dell’agenzia per l’ambiente, suddivisi anche per singolo Paese, fino al 96% della popolazione dei grandi centri urbani è esposta a una concentrazione di polveri sottili superiore ai limiti stabiliti dall’Oms. Per l’ozono, la percentuale sale addirittura al 98%. Con pesanti ricadute sulla salute. Dalle semplici allergie, a patologie più gravi, sia respiratorie che cardiovascolari. Fino ad arrivare, da ultimo, dopo il timbro dell’ufficialità ricevuto dall’Oms, al cancro ai polmoni.

Non è certo, al momento, se il rischio tumore riguardi maggiormente alcuni gruppi di persone piuttosto che altri, ad esempio giovani o anziani, uomini o donne. Ulteriori approfondimenti dovrebbero giungere da uno studio di prossima pubblicazione sulla prestigiosa rivista medica «The Lancet».

Davide Patitucci
(Fonte: «Il Fatto quotidiano»)
(Approfondimenti: http://www.iarc.fr/en/publications/books/sp161/index.php
http://www.eea.europa.eu/publications/air-quality-in-europe-2013)

23. Nuova “luce” sulle infezioni in sala operatoria

23 ottobre 2013

Nonostante gli sforzi per mantenere sterili le sale operatorie, le infezioni chirurgiche uccidono ancora. Ma secondo uno studio apparso su «PLoS one», la luce ultravioletta (Uv) a spettro ristretto potrebbe ridurle in modo drastico senza danneggiare i tessuti. «Negli Stati Uniti da duecento a trecentomila pazienti l’anno soffrono di infezioni chirurgiche, con costi sanitari stimati in 3-10 miliardi di dollari» dice David Brenner, direttore del Center for radiological research della Columbia University di New York e coautore dell’articolo. E i pazienti con ferite infette rischiano il 60% in più dei non infetti di essere ricoverati in terapia intensiva, hanno probabilità cinque volte maggiori di essere di nuovo ricoverati in ospedale a breve termine, il doppio del tasso di mortalità, degenze ospedaliere più lunghe, e, per finire, costano il doppio.

«Sappiamo che la luce Uv di una lampada germicida, che emette un ampio spettro di lunghezze d’onda, da 200 a 400 nanometri (nm), è un efficace battericida. Ma purtroppo danneggia i tessuti e può portare al cancro della pelle e alla cataratta oculare» spiega il ricercatore. «Per questo non è quasi mai utilizzata in sala operatoria: i rischi per la salute richiedono l’utilizzo di dispositivi di protezione ingombranti per il personale e i pazienti» puntualizza Brenner, che ha voluto verificare se la luce Uv a spettro ristretto, 207 nm, distruggesse i batteri senza ledere i tessuti. «La luce Uv a questa lunghezza d’onda è assorbita dalle proteine, ed è quindi sicura per due motivi: a livello cellulare non raggiunge il nucleo, e a livello tissutale non raggiunge le cellule sensibili dell’epidermide e dell’occhio. Ma siccome i germi sono molto più piccoli delle cellule umane, la luce Uv a 207 nm raggiunge il loro Dna uccidendoli» continua il ricercatore.

Per verificare l’ipotesi il gruppo della Columbia ha esposto alcune colonie di Staphylococcus aureus meticillino-resistente, causa comune di infezioni chirurgiche, e tessuti umani a una lampada ad eccimeri cripto-bromo, la KrBr excilamp, che emette luce Uv solo a 207 nm, confrontando poi l’effetto con quello di una comune luce germicida. Morale: le due lampade hanno ucciso i batteri, ma quella a 207 nm ha provocato danni tessutali mille volte minori della luce Uv standard. «La luce Uv a 207 nm può essere un efficace strumento di controllo delle infezioni, senza necessità di protezione» osserva Brenner. E conclude: «Se i test in vivo in corso confermeranno i risultati, una fonte di luce puntata sul campo chirurgico potrebbe prevenire le infezioni a costi abbordabili».

(Fonte: «Medicina33»)
(Approfondimenti: Plosone 8(10): e76968. doi:10.1371/journal.pone.0076968)

24. Strasburgo, stop (per ora) alle lobby «pro-aborto»

23 ottobre 2013

Al termine di una accesissima battaglia procedurale il Parlamento europeo ha deciso ieri di rinviare in Commissione una risoluzione ideologicamente indirizzata a tutelare la salute e i diritti sessuali e riproduttivi, che in realtà voleva l’affermazione nella Ue dell’aborto come un diritto umano fondamentale, e la condanna dell’obiezione di coscienza del personale sanitario. La scelta del riesame è passata con 351 voti a favore, 319 contrari e 18 astenuti.

La socialista greca Anni Podimata, a cui toccava presiedere l’assemblea di Strasburgo durante la votazione, ha cercato di opporsi in vari modi alla domanda di riesame avanzata dal britannico Ashley Fox del gruppo dei conservatori e riformisti europei. A dimostrare la forte contrarietà a quel testo di una parte degli eurodeputati erano state infatti presentate ben 71 richieste di voto per parti separate e anche una risoluzione alternativa. In un primo momento la Podimata ha insistito per andare al voto sul documento della collega di gruppo Edite Estrela, portoghese, ma poi ha dovuto cedere sotto l’insistenza degli interventi a favore del congelamento di fatto del testo. Molto decisi contro la bozza di risoluzione l’italiano Sergio Silvestris del Ppe, l’indipendente francese Bruno Gollnish e il conservatore britannico Martin Callanan.

Uno scroscio di applausi ha accolto la richiesta di una democratica decisione dell’assemblea sulla via da seguire, avanzata dal popolare Elmar Brok, che pure si è detto personalmente favorevole a continuare a votare sulla risoluzione. Un richiamo che, un’ora dopo il conferimento del premio Sakharov alla birmana Aung San Suu Kyi, non poteva cadere inascoltato, anche perché il premio Nobel ha richiamato nel suo discorso il diritto a nascere. E così la vicepresidente Podimata, che aveva fatto già fatto votare il primo emendamento, ha optato per indire una votazione ad appello nominale sulla richiesta di rinvio alla Commissione per i diritti della donna e l’uguaglianza di genere, che aveva varato la bozza. Il disappunto per l’esito del voto della relatrice è stato visibilissimo. Ma altrettanto percettibile è stato il fastidio con cui l’assemblea ha commentato l’accusa lanciata dalla inviperita Estrela all’Europarlamento di non essere degno dei suoi elettori.

Così l’assemblea di Strasburgo avrà tempo per meditare un po’ di più il documento, anche se naturalmente il suo esame riparte decisamente svantaggiato in quella Commissione che l’ha varato. L’esito del voto, secondo la Federazione europea delle associazioni familiari (Fafce), dimostra che la questione in gioco è tutt’altro che ininfluente.
La Fafce aveva lanciato l’allarme sul fatto che la risoluzione – tra i molti altri obiettivi più che discutibili – promuoveva indirettamente la masturbazione fin dai primissimi anni d’età come metodo di educazione sessuale. La risoluzione, inoltre, puntava a una campagna di opinione per diffondere una «opinione positiva» sulla omosessualità. In contrapposizione alla spaccatura registrata dall’Europarlamento, l’associazionismo familiare europeo richiama l’attenzione, sul milione e 400 mila firme raccolte tra i cittadini del vecchio continente in favore della dignità giuridica e la tutela dell’embrione.

«Il lavoro da compiere in Europa per difendere la vita è davvero grande – commenta il presidente del Movimento per la vita, Carlo Casini – ma con il rinvio in Commissione il Parlamento europeo ha detto che è ora di finirla con il metodo obliquo, arrogante, sostanzialmente ingannevole e scorretto sulle questioni bioetiche».

Da registrare comunque che in discussione generale sulla risoluzione, il commissario Neven Mimica, nonostante le concessioni ad alcuni principi rivendicati dalla risoluzione, aveva ribadito in rappresentanza dell’esecutivo europeo che l’esecutivo di Bruxelles non promuove la legalizzazione dell’aborto, in quanto è questione che rientra nelle decisioni degli Stati membri. Dure critiche alla risoluzione erano state espresse dal leghista Claudio Morganti, in particolare in merito alla condanna dell’obiezione di coscienza dei medici.

Con la relazione Estrela il Parlamento europeo potrà tornare a riflettere su un tema molto delicato, «affrontato in maniera non corretta» dalla Estrela, commenta la popolare Erminia Mazzoni. «Il nostro voto come gruppo Ppe – aggiunge l’europarlamentare – è stato contrario. Una posizione che abbiamo rafforzato davanti alla determinazione con la quale sono stati respinti tutti i nostri emendamenti».

Pier Luigi Fornari
(Fonte: «Avvenire»)

25. Compie 50 anni la Dichiarazione di Helsinki sui principi etici alla base degli studi clinici

25 ottobre 2013

Sono trascorsi ormai 50 anni da quando la Dichiarazione di Helsinki redatta dalla World medical association è diventato il documento di riferimento per quanto riguarda i principi etici alla base degli studi clinici che coinvolgono esseri umani. Ed è datata 2013 l’ultima delle revisioni che si sono succedute nel corso di questi cinque decenni di vita della dichiarazione «Le sette revisioni ci fanno capire che siamo di fronte a un documento vivo, che prende in considerazione le questioni più importanti ed attuali della ricerca medica» afferma Paul Ndebele, del Medical research Council of Zimbabwe «e in particolare la revisione del 2013 ha reso il documento molto più chiaro e leggibile» prosegue.

Il commento di Ndebele è stato recentemente pubblicato sulla rivista «Jama» assieme alla più recente versione della dichiarazione e riassume in poche righe le principali novità contenute nel documento aggiornato. «Per la prima volta la dichiarazione prevede un rimborso e il trattamento dei danni subiti dai pazienti a causa della ricerca e pone grande attenzione alla diffusione dei risultati, anche di quelli negativi» spiega Joseph Millum, del Department of Bioethics del Nih di Bethesda, e primo autore di un altro commento pubblicato sulla stessa rivista.

Oltre a questi importanti argomenti, la nuova versione della Dichiarazione di Helsinki tocca anche altri punti fondamentali nella gestione etica delle ricerche cliniche: dall’inclusione delle popolazioni in genere non sufficientemente rappresentate negli studi, al consenso informato previsto per ciascun paziente coinvolto nella ricerca, alle modalità per lo svolgimento degli studi anche in contesti più poveri e nei Paesi in via di sviluppo. «Il documento aggiornato al 2013 è meglio organizzato, più preciso e si rivelerà probabilmente più efficace nella protezione di chi prende parte a uno studio clinico, ma potrebbe essere ancora migliorato sotto diversi aspetti» precisa Millum. «Per esempio si continua a sostenere che il documento è rivolto ai medici, quando in realtà la Dichiarazione dovrebbe essere indirizzata anche ad altre categorie professionali, tutte quelle che prendono parte agli studi clinici» conclude.

(Fonte: « Doctor33»)
(Approfondimenti: http://jama.jamanetwork.com/article.aspx?articleid=1760318)

26. Conflitti etici in reumatologia, servono soluzioni

31 ottobre 2013

Molti reumatologi affrontano dilemmi etici cercando di fare ciò che pensano sia meglio per i loro pazienti anche a costo, in alcuni casi, di adottare comportamenti non del tutto onesti, almeno secondo un’indagine dell’American College of Rheumatology (Acr) pubblicata su «Arthritis and Rheumatism» e presentata il 28 ottobre al meeting annuale di San Diego. «Nonostante l’interesse per l’etica nella pratica medica e della ricerca, pochi studi sono stati svolti sull’argomento in reumatologia» dice Ronald MacKenzie, reumatologo all’Hospital for Special Surgery di New York e presidente del comitato Acr per le questioni etiche e i conflitti di interesse.

Le malattie reumatiche come lupus e artrite reumatoide causano invalidità, riducono la qualità della vita e hanno un significativo impatto sociale. «Ma, nonostante questioni importanti come l’accesso alle nuove terapie e i loro costi o la regolamentazione della privacy, il vero argomento che domina l’etica medica è il conflitto di interessi» aggiunge il ricercatore, che ha coordinato lo studio. E per stimolare il dibattito in reumatologia la commissione di MacKenzie ha condotto un sondaggio nazionale sui soci Acr per individuare gli argomenti caldi dell’etica reumatologica. Gli obiettivi dell’intervista erano: verificare frequenza e conoscenza degli argomenti etici in reumatologia; individuare le attività che pongono questioni etiche nella pratica clinica e suggerire contenuti per future attività didattiche in campo bioetico.

«Il questionario inviato ai soci comprendeva domande sull’etica in 5 aree principali: dilemmi nella pratica quotidiana; perplessità nella ricerca di base e clinica; influenza dell’industria; politiche regolatorie; potenziali conflitti di interesse e interesse personale» spiega il ricercatore. E le 771 risposte ricevute indicano che tra gli argomenti più sentiti c’è proprio l’elevato costo delle cure. «Al momento della diagnosi, la spesa per la terapia può essere insostenibile per molti, e il compito di un sistema sanitario equo sarebbe di mitigare questi impedimenti per la cura. Tuttavia il nostro sondaggio suggerisce che spesso non è così» dice MacKenzie. Da qui il conflitto etico del reumatologo: essere inflessibile o ritoccare i sintomi per aiutare i pazienti a ottenere la necessaria autorizzazione assicurativa per l’accesso alle cure? «La consapevolezza del problema e delle sue conseguenze è il primo passo nella ricerca di soluzioni alle sfide etiche dei reumatologi» conclude MacKenzie.

(Fonte: «Dica 33»)
(Approfondimenti: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23839952)

27. Nel bambino indigente il volume cerebrale si riduce

31 ottobre 2013

I bambini nati in famiglie povere hanno minore volumetria cerebrale in età scolare e nella prima adolescenza, secondo uno studio pubblicato da «Jama Pediatrics». «Gli effetti deleteri della povertà sullo sviluppo infantile sono noti nella ricerca psicosociale, con l’indigenza identificata tra i fattori di rischio più potenti nel condizionare non solo un carente sviluppo cognitivo e uno scadente rendimento scolastico, ma anche comportamenti antisociali e disturbi mentali» esordisce Joan Luby, psichiatra all’Early emotional development program della Washington University di St Louis, Missouri, sottolineando che, nonostante i deficit di sviluppo associati alla povertà siano stati rilevati fin dalla prima infanzia, sono disponibili pochi dati sui meccanismi neurobiologici che legano le due condizioni.

«E questa è una lacuna scientifica fondamentale, nonché un problema urgente di salute pubblica nazionale, dato che le statistiche statunitensi parlano di oltre 1 bambino su 5 sotto la soglia di povertà» rincara Luby, che ha studiato l’effetto dell’indigenza sullo sviluppo del cervello esaminando le variazioni di volume della sostanza bianca e della materia grigia corticale, così come dell’ippocampo e dell’amigdala in un gruppo di 145 bambini dai 6 ai 12 anni scelti da un gruppo più ampio di partecipanti a uno studio sulla depressione prescolare.

E i dati raccolti con la risonanza magnetica cerebrale confermano: la povertà nella prima infanzia si associa a una riduzione volumetrica della corteccia e dell’amigdala, ma soprattutto dell’ippocampo, quest’ultimo mediato dagli eventi della vita e dalle stressanti condizioni familiari. «Ciò sottolinea l’importanza della serenità familiare, raggiungibile solo con l’educazione genitoriale e con programmi prescolari di sostegno di alta qualità assistenziale e di rifugio sicuro per i bambini vulnerabili» conclude la psichiatra. E Charles Nelson, ricercatore della Harvard Medical School, commenta in un editoriale: «L’esperienza precoce modella l’infrastruttura neurale e biologica del bambino, aprendo la strada al futuro sviluppo sociale e cognitivo. E a giudicare dai dati di questo studio l’esposizione precoce alle avversità della vita dovrebbe essere considerata non meno tossica dell’esposizione al piombo, alcol o droghe. E come tale dovrebbe anche meritare molta più attenzione in termini di salute pubblica».

(Fonte: «Doctor33»)
(Approfondimenti: http://archpedi.jamanetwork.com/article.aspx?articleid=1761544)

28. Ogni giorno 20mila mamme bambine

31 ottobre 2013

Diventano mamme ancora prima di essere diventate donne: sono 20 mila – ogni giorno – le adolescenti che partoriscono; in un anno diventano sette milioni e trecentomila. Due milioni di loro non hanno ancora compiuto i quindici anni quando mettono al mondo le loro creature: nella stragrande maggioranza dei casi – nove su dieci – sono già sposate o sono legate in modo stabile a un compagno. Strette in una relazione quasi mai scelta liberamente ma imposta dalla famiglia e dalla tradizione. Una condizione denunciata il 30 ottobre – numeri alla mano – da Aidos, l’Associazione italiana donne per lo sviluppo: sono «pochissimi i programmi internazionali che si dedicano alle adolescenti tra i 10 e i 14 anni», si è lamentata Daniela Colombo, presidente di Aidos.

Se le tendenze attuali proseguiranno il numero di nascite da ragazze under 15 potrebbe salire a 3 milioni l’anno nel 2030, come emerge dal rapporto dell’Unfpa (il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione) «Lo Stato della popolazione nel mondo 2013», diffuso il 30 ottobre in tutto il mondo e presentato in Italia proprio da Aidos. Secondo i dati, il 95% delle nascite mondiali da mamme adolescenti si verifica nei Paesi in via di sviluppo. Ma neppure i Paesi sviluppati ne sono esenti: ogni anno, partoriscono circa 680 mila ragazzine, quasi la metà risiede negli Stati Uniti.

La gravidanza – sottolinea il rapporto – ha conseguenze importanti sulla salute di una ragazza molto giovane: andare incontro a seri rischi, complicanze e strascichi è molto più frequente se si affronta una gravidanza precoce, subito dopo avere raggiunto la pubertà. Le mamme under 15 nei Paesi a basso e medio reddito hanno il doppio del rischio di morte materna e fistola ostetrica delle donne più grandi, soprattutto nell’Africa sub-sahariana e in Asia meridionale. Ma un antidoto c’è: la scuola. Le ragazze che studiano più a lungo hanno meno probabilità di una gravidanza, l’istruzione le prepara al lavoro, accresce l’autostima, lo status sociale e dà loro più voce nelle decisioni che riguardano la loro vita.

Per l’Unfpa, «ogni giorno per circa 200 adolescenti, l’inizio di una gravidanza precoce comporta la violazione più grave dei diritti umani: la morte. Secondo la Convenzione sui diritti del fanciullo, chiunque ha meno di 18 anni è considerato tale. Ai bambini e alle bambine vengono concesse speciali protezioni dovute alla loro età. Sostenere queste protezioni può contribuire a eliminare molte delle condizioni che portano alla gravidanza adolescenziale e mitigare le conseguenze per la ragazza, la famiglia e la comunità».

Nei Paesi in via di sviluppo si contano circa 3,2 milioni di aborti non sicuri l’anno tra le ragazzine di 15- 19 anni; 70 mila sono invece le giovanissime che muoiono per complicazioni durante la gravidanza e il parto. Infine ma non ultimo – si legge nel rapporto – il costo opportunità- vita relativo alle gravidanze adolescenziali, misurato dal reddito annuale perso dalla madre durante tutta la sua vita, va dall’1% (ossia 124 miliardi di dollari in Cina) al 30% del Pil annuale (15 miliardi di dollari in Uganda).

Bice Benvenuti
(Fonte: «Avvenire»)

29. Grazie a «Uno di Noi»: l’Europa per la vita con oltre un milione e 640 mila firme

31 ottobre 2013

Thanks, danke, díky,gracias,merci, grazie, благодаря, hvala, bedankt, aitäh, kiitos, ευχαριστω, köszönet, tak, go raibh maith agat, paldies, ačiū, grazzi,dzięki, obrigado, multumesc, vďaka, hvala, tack! 1° novembre 2013, giorno di Ognissanti, è nato Uno di Noi, dopo vari mesi di gestazione!

Si conclude la “vita prenatale” di Uno di Noi, l’Iniziativa Popolare Europea per la difesa della vita e della dignità dell’uomo che ha avuto un successo strepitoso. Si apre una seconda fase per l’Iniziativa, che è quella della presentazione alle autorità nazionali per la certificazione delle firme, seguita dalla presentazione della proposta di legge contenuta in Uno di Noi alle Istituzioni Europee, che avverrà durante la campagna elettorale.
Inoltre Uno di Noi, che ha creato un naturale coordinamento europeo per la vita, diventerà una Federazione al prossimo Congresso di Cracovia di novembre.

Di seguito i numeri di Uno di Noi:
1.644.462 le firme raccolte, che potrebbero aumentare dopo il conteggio finale.
19 i Paesi che hanno raggiunto e superato la quota nazionale di firme: Austria, Cipro, Croazia, Estonia, Francia, Germania, Grecia, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Olanda, Polonia, Portogallo, Romania, Slovacchia, Spagna e Ungheria.
Nell’ultima settimana ben 4 Paesi hanno raggiunto e superato la quota: Cipro, Estonia, Grecia e Lettonia.
L’Italia sempre in testa chiude in bellezza con 580.389 firme e il centuplo della quota richiesta dalla Commissione europea.

Elisabetta Pittino
(Fonte: «Zenit»)

© Bioetica News Torino, Novembre 2013 - Riproduzione Vietata