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20 Giugno 2014
Bioetica News Torino Giugno 2014

Notizie dall’Italia

Farmaci, anche la camorra dietro il traffico di medicine rubate e contraffatte

2 maggio 2014

C’è anche la camorra dietro il traffico di farmaci rubati e contraffatti che coinvolge ormai molti Paesi europei. Lo scrive il «Wall Street Journal», citando fonti italiane tra cui il direttore dell’Agenzia del farmaco (Aifa), Domenico Di Giorgio, secondo il quale i furti di farmaci registrati negli ultimi mesi in varie parti d’Europa non sarebbero incidenti isolati ma farebbero parte di una strategia precisa di varie organizzazioni criminali, tra cui appunto la camorra e clan criminali dell’Europa orientale, oltre a un non meglio precisato cittadino russo residente a Cipro. «C’entra sicuramente il crimine organizzato», ha detto Di Giorgio al Wsj. Una rete organizzata e molto estesa, che preoccupa gli operatori sanitari anche perché i farmaci rubati vengono poi manomessi, per esempio diluendoli in più fiale o sostituendoli con altre sostanze più economiche. In questo modo ottengono un maggior volume di prodotto da vendere, ma queste medicine contraffatte sono spesso inefficienti o addirittura molto dannose per la salute.

Secondo fonti dell’inchiesta, «i farmaci vengono rubati negli ospedali o dai camion utilizzati per la distribuzione» per poi essere passati a un grossista italiano, come aveva già spiegato un mese fa l’agenzia del farmaco europea (Ema), senza però arrivare ai mandanti dei furti e a quella che sembrerebbe una regia coordinata a livello internazionale. Dalle indagini, condotte con i Nuclei Antisofisticazioni e Sanità (Nas) dei Carabinieri, è emerso che fino a cinque camion al mese carichi di farmaci anticancro sarebbero stati trafugati in Italia. Gli autisti avrebbero fornito giustificazioni insufficienti sulla sparizione della merce.

Nel mirino ci sono soprattutto farmaci antitumorali: per esempio l’Herceptin della Roche, medicinale ad uso ospedaliero indicato nel trattamento del carcinoma mammario e gastrico, ricomparso contraffatto in Regno Unito, Germania e Finlandia dopo il furto in Italia. Salvo che al suo principio attivo era stato sostituito un antibiotico. Ma anche l’Alimta di Eli Lilly e l’antinfiammatorio Remicade (Merck-Johnson & Johnson). Nei giorni scorsi, la Roche e altre società farmaceutiche, a partire da Johnson & Johnson e Lilly, hanno annunciato che stanno collaborando con le autorità per individuare gli autori dei furti. Il «Wall Street Journal» sottolinea che le attività criminali potrebbero essere favorite dall’esistenza di “distributori paralleli” che in alcuni Paesi possono – legalmente – comprare un farmaco direttamente dal produttore, a un prezzo più competitivo, per poi cambiarne l’etichetta e rivenderlo altrove a costi più elevati.
(Fonte: «Il Fatto Quotidiano»)

Aborto: Comunità Papa Giovanni XXIII, una donna su cinque subisce pressioni

2 maggio 2014

Almeno una donna su cinque, tra quelle che pensano di abortire, lo fa perché ha subìto pressioni da parte del partner, dei familiari, di operatori socio-sanitari o altre persone. Due donne su tre che erano intenzionate ad abortire, se adeguatamente aiutate, scelgono di far nascere il proprio figlio. Sono alcuni dei dati presentati il 2 maggio a Bologna nel corso di una conferenza stampa in cui la Comunità Papa Giovanni XXIII ha illustrato le attività svolte nel 2013 a favore delle maternità difficili. 573 le mamme in difficoltà aiutate nel corso dell’anno dal “Servizio maternità difficile e vita” dell’associazione; 370 di loro erano incinte: il 46% italiane e il 54% straniere; 93 sono state accolte in famiglie aperte o case famiglia, le altre sono state aiutate a distanza. «La nostra esperienza dimostra che oltre 2/3 dei bambini oggi abortiti si possono salvare. Chiediamo che questo aiuto non sia casuale ma diventi strutturale, sia garantito per tutte le situazioni ovunque una donna o una coppia si rivolgano – sottolinea Giovanni Ramonda, responsabile generale della Comunità Papa Giovanni XXIII -. Per questo chiediamo che i soldi oggi spesi per far morire – 1.100 euro per ogni aborto – vengano spesi per far vivere, creando un fondo specifico a favore delle maternità difficili».
(Fonte: «Sir»)

Censis: in Italia crescono le disuguaglianze sociali

3 maggio 2014

Patrimoni sempre più squilibrati, accrescimento delle disuguaglianze, rischio di povertà in aumento. È il ritratto del nostro Paese emerso dai dati diffusi il 3 maggio dal Censis, che evidenzia come «i 10 uomini più ricchi d’Italia dispongono di un patrimonio di circa 75 miliardi di euro, pari a quello di quasi 500mila famiglie operaie messe insieme». Detta in altri termini, “lo 0,003% della popolazione italiana possiede una ricchezza pari a quella del 4,5% della popolazione totale». Oggi, in piena crisi, il patrimonio di un dirigente è pari a 5,6 volte quello di un operaio, mentre era pari a circa 3 volte vent’anni fa. Il patrimonio di un libero professionista è pari a 4,5 volte quello di un operaio (4 volte vent’anni fa). Quello di un imprenditore è pari a oltre 3 volte quello di un operaio (2,9 volte vent’anni fa).

Caduta a picco per i redditi: negli ultimi anni quelli degli operai sono diminuiti del 17,9%, quelli degli impiegati del 12%, quelli degli imprenditori del 3,7%, mentre i redditi dei dirigenti sono aumentati dell’1,5. E se il valore medio dei redditi netti dichiarati dai contribuenti italiani non raggiunge i 15mila euro, l’1 per cento dei “top earner”, ossia coloro che guadagnano di più, e sono circa 414mila contribuenti, si è diviso nel 2012 un reddito netto annuo di oltre 42 miliardi di euro, con redditi netti individuali che volano mediamente sopra i 102mila euro.

Giù anche i consumi: dal 2006 al 2012 quelli familiari annui degli operai si sono ridotti, in termini reali, del 10,5%, mentre i consumi dei dirigenti hanno registrato solo un -2,4%. A proposito del bonus Irpef, se gli 80 euro costituiranno un incremento una tantum del reddito, secondo il Censis 2,2 milioni di beneficiari del provvedimento impiegheranno la cifra interamente in consumi, 2,7 milioni di beneficiari li spenderanno solo in parte per consumi, e solo 5 milioni useranno il bonus esclusivamente per risparmiare o pagare debiti. Se il bonus di 80 euro costituirà invece una modifica fiscale permanente, l’incremento della spesa per consumi nei prossimi otto mesi sarà del 15% in più rispetto al caso in cui il bonus non venga rinnovato nel prossimo anno.

Allargare la famiglia ha ricadute sociali notevoli: se la nascita del primo figlio incrementa di poco, rispetto alle coppie senza figli, il rischio di finire in povertà, la nascita del secondo figlio fa quasi raddoppiare il rischio (20,6%) e la terza cicogna lo triplica (32,3%). Inoltre, avere figli raddoppia il rischio di finire indebitati per mutuo, affitti, bollette o altro rispetto alle coppie senza figli, e i genitori single hanno un terzo in più di rischio di finire in povertà (26,2%) e/o indebitati (19,3%). Al Sud (33,3%), infine, è tre volte più facile diventare poveri rispetto al Nord (10,7%) o indebitati (18 per cento contro 10,4 per cento).
(Fonte: «Sir»)

Pro-vita: convegno alla vigilia della marcia. Nasce l’associazione «Vita è»

3 maggio 2014+

«Sono nato come ginecologo della morte. Facevo nascere tanti bambini, ma molti altri li ammazzavo. Poi, un giorno, qualcosa è cambiato. E qualche mese fa ho consegnato a Papa Francesco i ferri chirurgici con i quali praticavo gli aborti». Così Antonio Maria Oriente, medico dell’Associazione italiana ginecologi ostetrici cattolici, è intervenuto il 3 maggio all’Ateneo pontificio Regina Apostolorum di Roma al convegno nazionale medico-giuridico sul tema «Dai una chance a ogni vita», alla vigilia della Marcia per la vita in programma il 4 maggio. Il ginecologo ha raccontato che la Corte suprema degli Stati Uniti è chiamata, entro l’anno, a sentenziare sul caso della Hobby Lobby che non vuole assicurare medici obiettori, spiegando le difficoltà e il timore di isolamento, umano e professionale, che investe molti medici pro-life. L’esperto si è poi soffermato sui “dispositivi intrauterini”, evidenziando come la spirale impedisca l’annidamento dell’ovulo fecondato nell’utero, costituendo, di fatto, non un metodo contraccettivo ma una forma di aborto.

Sulla “contraccezione di emergenza” si è soffermato Bruno Mozzanega, ginecologo della Clinica ostetrica e ginecologica di Padova: «Le leggi, da quella che istituisce i consultori alla 194, affermano di tutelare la vita dal suo inizio ma poi non lo fanno». Quanto alla pillola del giorno dopo, «ufficialmente risulta anti-ovulatoria, ma l’impedimento dell’ovulazione – spiega Mozzanega – avviene solo nel 14 per cento dei casi». In realtà la pillola “altera l’endometrio” e svolge un’azione antinidatoria.

A proposito dell’utilizzo della contraccezione d’emergenza in caso di violenza sessuale è intervenuta Maria Luisa Di Pietro, medico bioeticista dell’Università Cattolica: «Nel caso della violenza non c’è atto d’amore, anche se fosse tra coniugi, e non vi è libera adesione, perché si tratta di un atto imposto». Nell’ambito del dibattito bioetico, ha spiegato Di Pietro, «tanti termini sono stati modificati e confondono. Il levonorgestrel, il principio attivo della pillola, agisce sulla fase pre-ovulatoria, ma l’ovulazione potrebbe già esserci stata, per questo la pillola, col passare delle ore, perde di efficacia. Inoltre – ha aggiunto la bioeticista – se la gravidanza inizia con l’annidamento ma non con la fecondazione, allora tutto diventa contraccezione e niente è più aborto». Anche in caso di violenza, dunque, «meglio astenersi sulla somministrazione della pillola. Se vedo muovere qualcosa dietro a un cespuglio e non so se è un bambino o un coniglio, è sempre meglio non sparare». Piuttosto, ha auspicato Di Pietro, è bene«intervenire con pene severe per contrastare ogni forma di abuso sulla donna, non desistere mai dall’educare al rispetto dell’altro e alla bellezza della sessualità umana e, infine, accompagnare la donna nel dolore e nella sofferenza di un’esperienza disumana che l’ha offesa nel corpo e nell’anima».

Nel corso della giornata sono state premiate Flora Gualdani, ostetrica toscana che cinquant’anni fa ad Arezzo ha fondato “Casa Betlemme”, una struttura dove, all’insegna di fede e di speranza, le donne vengono aiutate a combattere per la vita, e suor Cristina Acquistapace, affetta da sindrome di Down e in prima linea contro l’aborto. Contestualmente, è stata presentata l’associazione “Vita è”, aggregatore di realtà impegnate sul fronte culturale e giuridico nella difesa della vita e della famiglia. «Mai come in questo momento – spiegano i fondatori – c’è bisogno di tornare a dire, forte, chiaro, nel modo più unitario possibile, che la vita è bella, è un dono e va promossa e difesa in famiglia, a scuola, nelle aule dei Tribunali e dei Parlamenti, nelle accademie e negli ospedali».

(Fonte: «Sir»)

La proteina Mhc-I attiva la morte neuronale nel Parkinson

5 maggio 2014

Un nuovo meccanismo di morte neuronale tipico della malattia di Parkinson, che può diventare un bersaglio terapeutico specifico per questa malattia, è stato identificato da uno studio condotto da ricercatori dell’Istituto di tecnologie biomediche del Consiglio nazionale delle ricerche (Itb-Cnr) in collaborazione con gruppi di Columbia e Harvard University e dello Sloan-Kettering Institute. La ricerca è stata recentemente pubblicata sulla rivista «Nature Communications».
«Abbiamo dimostrato che i neuroni umani che vengono colpiti selettivamente nella malattia di Parkinson esprimono una proteina chiamata MHC-I», spiega Luigi Zecca, direttore dell’Itb-Cnr e coautore dello studio assieme ai colleghi Fabio A. Zucca e Pierluigi Mauri. «MHC-I lega i frammenti di proteine antigeniche del neurone che i linfociti T citotossici riconoscono come estranei, attaccando e uccidendo il neurone. Nelle regioni cerebrali colpite dalla malattia, la componente dei vasi sanguigni chiamata ‘barriera ematoencefalica’ è danneggiata e ha ‘buchi’ che permettono il passaggio nel parenchima cerebrale dei linfociti che provocano la morte neuronale secondo il meccanismo descritto».

L’espressione della proteina MHC-I risulta infatti elevata nei neuroni presenti nelle aree cerebrali colpite dal Parkinson (sostanza nera e locus coeruleus) e molto bassa in quelli delle aree risparmiate dalla malattia. «Questo spiegherebbe anche la selettività della malattia nel colpire questi neuroni e i loro circuiti», prosegue Zecca. «E poiché la proteina è altamente concentrata negli organelli della neuromelanina, sostanza che si accumula con l’invecchiamento del cervello, questo dimostra l’esistenza di un meccanismo importante che lega l’invecchiamento e le malattie neurodegenerative come Alzheimer e Parkinson». È noto infatti che l’invecchiamento è il maggior fattore di rischio per malattie come l’Alzheimer e il Parkinson.

I ricercatori hanno riprodotto questo processo di morte neuronale in colture di neuroni, osservando tra l’altro che lo stress ossidativo e l’infiammazione innescano l’espressione di MHC-I, rendendo i neuroni vulnerabili. «Abbiamo osservato anche che lo stato infiammatorio del cervello favorisce questo processo di morte neuronale. Infatti nel cervello dei parkinsoniani sono presenti notevoli quantità di neuromelanina e alfa-sinucleina extra-cellulari rilasciate dai neuroni morti che attivano la microglia, cioè causano infiammazione, che a sua volta induce l’espressione della proteina MHC-I», conclude il direttore dell’Itb-Cnr. «Neuro-infiammazione e degenerazione neuronale, cioè, si alimentano reciprocamente in un circolo vizioso e nel Parkinson, tra le cause di morte neuronale, interverrebbe un importante meccanismo autoimmune che ha per protagonista la proteina MHC-I».
Lo studio, che è largamente basato su precedenti ricerche condotte dall’Itb-Cnr, pone solide basi per una nuova strategia terapeutica del Parkinson, basata sullo sviluppo di farmaci immuno-soppressori mirati a inibire l’attacco killer dei linfociti T citotossici sui neuroni bersaglio della malattia.

(Fonte: CNR)

Roma, quarantamila in marcia per la vita

5 maggio 2014

Il fiume della Marcia per la Vita, partito domenica 4 maggio alle 9.15 da piazza Repubblica a Roma, è arrivato due ore e mezza dopo in Vaticano. All’altezza dei Fori imperiali è stato possibile vederlo in tutta la sua portata: quarantamila persone che avanzavano con passo tranquillo munite di cartelli, striscioni e palloncini; giovani sacerdoti che battevano sui tamburi, suore che intonavano canti, gruppi che recitavano il Rosario, più una miriade di stendardi di associazioni, parrocchie, siti web, Centri di aiuto alla vita arrivati un po’ da tutta Italia e anche dall’estero. Cattolici, ma anche musulmani – una delegazione portava fiera la bandiera del Marocco – ortodossi e protestanti. Tutti in piedi alla fine in piazza San Pietro per il Regina Coeli e il saluto del Papa.
Al termine della preghiera mariana, Francesco ha rivolto il suo saluto ai «partecipanti alla Marcia per la Vita, che quest’anno ha un carattere internazionale ed ecumenico», aggiungendo «tanti auguri» e un’esortazione chiara: «Avanti, e lavorare su questo!».

Che la Marcia per la Vita sia diventata uno degli appuntamenti più importanti del mondo pro-life italiano lo dimostrano i numeri, la coralità della partecipazione e anche la rapidità della sua crescita. La prima edizione risale infatti al 2011, a Desenzano sul Garda. Fu un’iniziativa lanciata senza troppo clamore dal Medv-Movimento Europeo Difesa Vita presieduto da Francesco Agnoli, cui si aggiunsero alcune associazioni straniere e l’italiana Famiglia Domani di Virginia Coda Nunziante, attuale portavoce dell’evento. Il modello era quello della Marcia per la Vita statunitense, che si tiene ormai da 38 anni.

Tra le attività che hanno fatto da contorno alla Marcia italiana quest’anno ci sono stati due convegni. Uno all’Ateneo pontificio Regina Apostolorum, dove circa 700 partecipanti hanno seguito alla mattina due sessioni di lavoro, una di taglio medico e una giuridica, mentre al pomeriggio si sono divisi tra una tavola rotonda per i più giovani e una conferenza a più voci per gli adulti. Nell’occasione è stato presentato un nuovo cartello, “Vita è”, che vuole mettere insieme associazioni e singole figure che operano sul fronte culturale e giuridico per vita e famiglia. In via della Conciliazione si è invece tenuto il convegno promosso da LifeSiteNews – il principale portale pro-life di lingua inglese, con sede in Canada –, Human Life International, e Family Life International New Zealand, con la collaborazione degli organizzatori della Marcia italiana, a cui hanno preso parte rappresentanti di circa 50 associazioni da 20 Paesi.

Il fine settimana ha insomma visto riunito un popolo estremamente variegato, ma che ha comune denominatore il non rassegnarsi allo scandalo degli oltre centomila aborti che si registrano ogni anno nel nostro Paese. «Reagiremo ogni volta che la vita umana è minacciata» si leggeva su un cartello che riportava le parole pronunciate da san Giovanni Paolo II a Washington nel 1979. E, come ha commentato a margine della giornata Olimpia Tarzia, presidente del movimento PER-Politica Etica Responsabilità, «le istituzioni non possono rimanere sorde di fronte a manifestazioni di tale portata, ma hanno l’obbligo di difendere e sostenere il primo dei principi non negoziabili: il diritto alla vita dal concepimento alla morte naturale».

Andrea Galli
(Fonte: « Avvenire»)

Robin, il robot costruito dal CNR che si prende cura di nonna Lea

7 maggio 2014

Ormai 94enne, nonna Lea non poteva più vivere da sola, ma di lasciare la sua casa non voleva sentirne parlare: una situazione comune a molte persone anziane, nelle nostre società che invecchiano. Ma grazie alla robotica c’è una soluzione sicura e a poco prezzo.

Un gruppo di ricercatori finanziati dall’UE ha sviluppato il sistema GiraffPlus. «Il progetto GiraffPlus si colloca in un’area dal crescente interesse denominata Ambient Assisted Living (AAL) che si occupa di sintetizzare tecnologie ICT per l’aiuto e l’assistenza agli anziani – spiega Amedeo Cesta (CNR-ISTC) – al fine di favorirne il prolungamento della vita indipendente. Il progetto, finanziato dalla commissione europea con 3 milioni di euro nel programma FP7, è rilevante perché propone l’integrazione in un ambiente domestico di sensori eterogenei sia ambientali che fisiologici tramite una infrastruttura software aperta (il middleware UniversAAL) all’avanguardia tra le piattaforme software per AAL, con un robot di telepresenza tendente a favorire la comunicazione a distanza tra la persona anziana monitorata e le persone che l’assistono dall’esterno siano essi medici, parenti stretti o semplici amici. Un punto di ulteriore innovazione è rappresentato dall’utilizzo di tecniche di intelligenza artificiale nell’analisi continua dei dati raccolti sia per scoprire implicazioni più complesse incrociando le varie fonti di informazione che per personalizzare l’assistenza alla persona in base al suo stato fisiologico corrente».

Questo robot, che assiste gli anziani a casa loro, si occupa di metterli in contatto con i familiari, gli amici e gli operatori sanitari, mentre dispositivi indossabili e sensori collocati in tutta la casa ne tengono sott’occhio la salute e l’attività. Il sistema dovrebbe essere messo in commercio entro la fine del 2015. Secondo le stime, il mercato UE dei robot e dei dispositivi di assistenza agli anziani dovrebbe raggiungere i 13 miliardi di euro entro il 2016.
«Debbo precisare a chi me lo ha chiesto del perché io non accetto di vivere a casa di mia figlia Vilma che con me è tanto premurosa e che ne sarebbe felice, ma sono io che non voglio gravarla della mia presenza, ora che è diventata nonna e che i suoi impegni si sono moltiplicati […] ma con questo valido Assistente che ho chiamato Mister Robin, ora sarò più serena non solo io, ma anche i miei figli e nipoti negli imprecisati anni che avrò da vivere ancora», spiega la 94enne Lea Mina Ralli, alias “nonna Lea”, che utilizza il sistema GiraffPlus da 5 mesi e spesso scrive di “Mister Robin” sul suo blog (in italiano).

Il progetto GiraffPlus, in cui sono stati investiti 3 milioni di euro di finanziamenti, mira a testare in che modo i robot e altri dispositivi potrebbero aiutare le persone anziane a vivere una vita più sicura e più indipendente. Il sistema si compone di un robot e di sensori. I sensori sono progettati in modo da rilevare attività quali cucinare, dormire o guardare la televisione e da monitorare la salute dell’anziano (ad es. pressione sanguigna e glicemia).

Il sistema consente quindi a coloro che assistono la persona anziana di monitorarne a distanza il benessere e di intervenire in caso di caduta. Il robot perlustra la casa e permette ai familiari, agli amici e a coloro che lo assistono di visitare virtualmente l’anziano.  «Un ulteriore aspetto qualificante di GiraffPlus – commenta Gabriella Cortellessa (CNR-ISTC) – è rappresentato dalla intensa attività di test in ambienti di vita reale per periodi di tempo significativi. Il sistema è sotto esame in modo continuativo in 6 case (2 ciascuna in Italia, Spagna, e Svezia) e da questa sperimentazione scaturiscono continuamente indicazioni per punti da potenziare o servizi aggiuntivi da aggiungere come permesso dalla architettura software del sistema GiraffPlus. Infine è importante aggiungere una riflessione generale sulla tecnologia da noi proposta: non vogliamo sostituire l’assistenza umana con una artificiale e puramente tecnologica, vogliamo bensì creare strumenti nuovi per facilitare la rete sociale intorno alla persona che ha bisogno di cura nel prestare assistenza continua anche in situazioni complesse e difficili»

LA GENERAZIONE D’ARGENTO E L’ECONOMIA

Neelie Kroes, Vicepresidente e Commissaria responsabile per l’agenda digitale, ha dichiarato: «L’età avanza per tutti, e tutti vogliamo essere certi che invecchiando non perderemo dignità, rispetto e indipendenza. L’UE investe in nuove tecnologie che possono aiutare la generazione d’argento, così che possiamo dare vita ai nostri anni, oltre che anni alla nostra vita!».

Gli europei di più di 65 anni dispongono di un reddito di oltre 3.000 miliardi di euro, e gran parte di questa somma sarà reinvestita nel settore dell’assistenza. Secondo Stephen Von Rump, amministratore delegato di Giraff Technologies AB, il mercato UE dei robot e di altri dispositivi di assistenza agli anziani raggiungerà i 13 miliardi di euro entro il 2016. «Entro la fine del 2014 GiraffPlus sarà installato in 15 abitazioni», ha dichiarato Amy Loutfi, coordinatrice del progetto, con sede all’Università di Örebro in Svezia. «Finora il sistema è presente in sei case in Europa, i cui abitanti vivono con il sistema GiraffPlus. Attualmente siamo in fase di valutazione, ma constatiamo che alcuni aspetti del sistema sono giudicati in modo diverso dai diversi utilizzatori. Questo dimostra che un approccio generale alle tecnologie a domicilio non è necessariamente il migliore, e che la tecnologia dovrebbe essere adattabile e mirata alle esigenze degli utenti». Secondo gli attuali piani il sistema dovrebbe essere messo in commercio il prossimo anno. È previsto il pagamento di una somma iniziale e di un abbonamento mensile che lo renderà competitivo se confrontato con i costi crescenti dell’assistenza a tempo pieno. Il consorzio GiraffPlus comprende partner pubblici e privati di Italia, Portogallo, Slovenia, Spagna, Svezia e Regno Unito.

CONTESTO

La Commissione europea sostiene con forza l’indipendenza degli anziani mediante l’uso delle nuove tecnologie, tra cui la robotica, nel quadro della strategia dell’Agenda digitale (@DigitalAgendaEU). Oltre al nuovo programma di ricerca e innovazione Orizzonte 2020 (#H2020), due importanti iniziative mirano a promuovere la commercializzazione delle nuove tecnologie, la loro diffusione nelle case e la loro integrazione nei sistemi di assistenza sociale e sanitaria.
Il programma comune a sostegno di una vita attiva e autonoma (@AAL_JP), è un’iniziativa promossa dagli Stati membri dell’UE in materia di ricerca applicata su prodotti e servizi delle TLC per invecchiare bene. Il programma, che dal 2008 ha consentito di finanziare oltre un centinaio di progetti, dovrebbe proseguire nel quadro di H2020: sono previsti 25 milioni di euro di finanziamenti dell’UE nel 2014 e lo stesso importo anche nel 2015.

(Fonte: «Media Duemila»)
(Approfondimenti: http://www.giraffplus.eu/; http://www.aal-europe.eu/)

Sos Italia, più inquinata e più malata

9 maggio 2014

Se, in pochi anni, nell’area che gli epidemiologi chiamano ‘Brescia-Caffaro’, l’incremento dei tumori della tiroide è pari al 70% negli uomini e al 56% nelle donne, e se, in quella dei laghi di Mantova, il segno ‘più’ tocca, rispettivamente, il 74% e il 55%, significa che Taranto o i Comuni compresi nell’area campana della Terra dei fuochi, non sono gli unici territori in cui correre ai ripari, programmare (o incentivare) screening sanitari, biomonitoraggi, analisi dei contaminanti, bloccando gli scempi ambientali e mettendo mano alle bonifiche.

Perché gli agenti inquinanti, per anni, in decine di località, più o meno vicine a centri abitati, hanno permeato suoli e falde acquifere, catene alimentari e atmosfera. Ambienti a noi vitali. Con la conseguenza che la natura e il nostro organismo, prima o poi, esigeranno i rispettivi debiti.
Più prima che poi in quei territori, in quegli insediamenti industriali, esposti a elevato rischio da inquinamento e che il Rapporto Sentieri, progetto finanziato dal ministero della Salute e coordinato dall’Istituto superiore della sanità, monitora da alcuni anni.

Sono 44 i Sin (Siti di interesse nazionale per le bonifiche) che destano maggiore preoccupazione in rapporto agli effetti sulla salute dell’uomo. 18 quelli analizzati nel nuovo Rapporto, il terzo, appena pubblicato e particolarmente interessante perché, a differenza degli altri due – che prendevano in considerazione i soli dati della mortalità – , contempla altri due parametri: i ricoveri ospedalieri e l’incidenza dei tumori.
La restrizione dell’analisi a 18 Sin, che spesso prendono i nomi dai grandi stabilimenti industriali che hanno operato nei siti (tra questi ‘Brescia- Caffaro’ e ‘Laghi di Mantova e polo chimico’) è dovuta alla scelta di inserire l’incidenza oncologica e alla disponibilità della copertura della rete Airtum dei Registri tumori (indispensabile per valutare la nuova e più complessa analisi ma non disponibile ovunque).

Edito come supplemento al numero 2 del 2014 di «Epidemiologia & prevenzione», il volume Sentieri già più volte citato, nelle precedenti edizioni, in letteratura scientifica internazionale, e il cui approccio è fra quelli ritenuti validi anche dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), è scaricabile dal sito www.epiprev.it, e contiene: un aggiornamento dei dati di mortalità al 2010 (nel volume precedente veniva preso in considerazione il periodo 1995-2002); l’analisi dell’incidenza oncologica per il periodo 1996-2005 in 17 Sin (manca quella di Trieste); una prima analisi dei dati di ospedalizzazione del periodo 2005-2010. Queste ultime due risultano fondamentali quando si ha a che fare con patologie ad alta sopravvivenza. Come spiegano infatti gli estensori della ricerca, lo studio della sola mortalità porterebbe a sottovalutarne l’impatto effettivo.

Ma torniamo ai dati. Per via del boom dei tumori della tiroide, i ricoveri ospedalieri a Brescia sono aumentati del 75%, a Mantova quasi del 90%. Ma questa patologia cresce anche a Milazzo: +24% per gli uomini, +40% per le donne; Sassuolo-Scandiano: +46%, +30%; Taranto: +58%, +20%. Così come in forte ascesa risultano i ricoveri ospedalieri (Milazzo: +55%, +24%; Sassuolo-Scandiano: +45%, +7%; Taranto: +45%, +32%). Per i tumori della mammella, spiegano ancora i ricercatori, tra le donne si registra un eccesso del 25% per quanto riguarda l’incidenza, del 15% per i ricoveri ospedalieri, mentre per i linfomi non-Hodgkin l’aumento dell’incidenza è del 14% (uomini) e del 25% (donne), quello dei ricoveri è intorno al 20% per entrambi i sessi (uomini: +19%, donne: +18%).

Restano allarmanti, poi, le conseguenze dell’esposizione ad amianto. «Eccessi per mesotelioma e tumore maligno della pleura – evidenzia il Rapporto – si registrano nei Sin siciliani di Biancavilla (Ct) e Priolo (Sr), dove è documentata la presenza di asbesto e fibre asbestiformi, ma anche nei Sin con aree portuali (Trieste, Taranto, Venezia) e con attività indu­striali a prevalente vocazione chimica (Laguna di Grado e Marano, Priolo, Venezia) e siderurgica (Taranto, Terni, Trieste)». Un dato, questo, che conferma la diffusione dell’amianto nei siti contaminati «anche al di là di quelli riconosciuti tali in base alla presenza di cave d’amianto e fabbriche di cemento-amianto».
In generale, risulta maggiore l’incidenza anche del tumore del fegato, «riconducibile a un diffuso rischio chimico nei Sin».

Vito Salinaro
(Fonte: «Avvenire»)

Indagine Politecnico: presto declino Ssn se continua calo investimenti Ict

9 maggio 2014

L’informatizzazione: in sanità tutti ne parlano ma sempre in meno ci contano, e ciò può affossare il servizio pubblico. Il 7° Rapporto dell’Osservatorio Ict della School of Management del Politecnico di Milano rivela che la spesa già bassa per l’Ict (Information and communication technologies) nel Ssn – 1,17 miliardi nel 2013 – è in discesa; rispetto al 2012, i fondi per l’innovazione sono diminuiti del 26% in termini di investimenti e del 5% in termini di spesa complessiva. E per il futuro la spending review fa prevedere al 53% dei CIO un’ulteriore contrazione. L’indagine è stata realizzata sentendo 88 chief information officer e 181 direttori generali, 11 regioni, ministero della salute, 703 medici di base, 1001 cittadini.

Le direzioni strategiche individuano come ambiti d’innovazione radicale: la cartella clinica elettronica, i sistemi di gestione documentale condivisi, i servizi di comunicazione al cittadino, di gestione informatizzata dei farmaci. Mariano Corso (School of Management) avverte: «Si dice che il Ssn costa troppo ma spende 3 mila euro annui a cittadino, una delle spese più basse in Europa. Le conseguenze si vedono nella qualità dei servizi sanitari italiani, in discesa come rivela il rapporto Euro Health Consumer Index che ci colloca al 21° posto contro il 15° di tre anni fa. Alla luce dell’evidente declino della sanità italiana l’apertura delle frontiere prevista dalle direttive Ue è una minaccia reale: già adesso la mobilità interregionale vale 3,7 miliardi di euro, e c’è da pensare che, in cerca di servizi migliori, s’indirizzerà fuori dal Paese, mettendo a rischio un Ssn che vale 815 mila addetti». Urge investire, recuperare all’informatica le risorse risparmiate con la spending review, condividere servizi. «La gestione in cloud dei cedolini dei dipendenti delle aziende Ssn darebbe risparmi per 63 milioni, e si stima che da 56 a 90 milioni potrebbero arrivare dai Pacs (centralizzazione a livello regionale dell’archiviazione dei referti ndr). Recupereremmo 156 milioni: un 15% in più della spesa Ict 2013».

Claudio Caccia presidente Associazione italiana sistemi informativi in sanità-Aisis, avverte che «causa contrarsi degli investimenti in Ict, il Ssn attira un’offerta di minor qualità; e, in un quadro di incertezza sulle risorse, i CIO, che punterebbero su shared services, dematerializzazione, disaster recovery, sono rassegnati a puntare su temi “di confine” cari a regioni ed Asl, come interoperabilità dei gestionali e fascicolo sanitario. Alle regioni urgono linee guida per valutare la maturità dei rispettivi modelli informativi».

All’incontro milanese sono stati assegnati i sette premi Innovazione Ict 2014. Hanno vinto Fondazione Poliambulanza di Brescia per la cartella clinica elettronica, Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna per “clinical governance” e supporto decisionale, l’azienda ospedaliero universitaria Umberto I di Ancona per la digitalizzazione dei processi, la Provincia di Trento per i servizi digitali al cittadino, la Ulss 6 Vicenza per la gestione documenti informatici, Federfarma Lombardia nelle soluzioni per l’assistenza territoriale e la Fondazione Don Gnocchi nelle soluzioni di assistenza socio-sanitaria (M.Mi).

(Fonte: «Doctor 33»)

Una «mobilitazione etica mondiale» per contrastare la «cultura dello scarto e della morte»

9 maggio 2014


Richiama il passato Francesco per parlare delle sfide del futuro ai vertici dell’Onu, ricevuti il 9 maggio in Vaticano, insieme al Segretario generale Ban Ki-Moon. Precisamente il Pontefice attinge ad un episodio avvenuto circa 2000 anni fa narrato nel Vangelo di Luca: la parabola di Zaccheo, il ricco pubblicano che Bergoglio presenta ai responsabili e dirigenti degli Organismi, dei Fondi e dei Programmi delle Nazioni Unite come modello da seguire per dar vita ad una “mobilitazione etica mondiale” che contrasti quella “cultura dello scarto” dominante nella società moderna.

Zaccheo, spiega il Papa, «prese una decisione radicale di condivisione e di giustizia quando la sua coscienza è stata risvegliata dallo sguardo di Gesù». Questo stesso «spirito» deve porsi «all’origine e al termine di ogni azione politica ed economica», afferma Bergoglio. Affinché – insiste – «lo sguardo, spesso senza voce, di quella parte di umanità scartata, lasciata alle spalle», smuova «la coscienza degli operatori politici ed economici» e porti «a scelte generose e coraggiose, che abbiano risultati immediati».

Il Papa riconosce l’ottimo lavoro svolto in tal direzione dai responsabili del sistema internazionale; ringrazia infatti calorosamente «per i grandi sforzi realizzati a favore della pace mondiale, del rispetto della dignità umana, della protezione della persona», specialmente «dei più poveri o più deboli, e dello sviluppo economico e sociale armonioso». Tuttavia, come Vicario di Cristo in terra, si appella alla loro coscienza e domanda ugualmente: «Questo spirito di solidarietà e di condivisione guida tutti i nostri pensieri e tutte le nostre azioni?».

Lo spirito di cui parla il Santo Padre è lo stesso che ha animato Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, i due Papi proclamati Santi lo scorso 27 aprile. È «significativo», infatti, secondo Francesco, che l’incontro si realizzi pochi giorni dopo la solenne canonizzazione dei suoi predecessori. La cerimonia ha risvegliato infatti nella mente collettiva la forte testimonianza dei due Santi, i quali – dice il Papa – «ci ispirano con la loro passione verso lo sviluppo integrale della persona umana e verso la comprensione tra i popoli». Due caratteristiche evidenziate anche «attraverso le molte visite di Giovanni Paolo II alle Organizzazioni di Roma e i suoi viaggi a New York, Ginevra, Vienna, Nairobi e L’Aia».

Il Vescovo di Roma getta poi uno sguardo ai buoni risultati degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, specialmente nel campo dell’educazione e della diminuzione della povertà estrema, che confermano «la validità del lavoro di coordinamento di questo Consiglio di Capi Esecutivi». Tuttavia, il Papa suona un campanello d’allarme ed invita a non “adagiarsi” sul lavoro svolto, tanto meno accontentarsi dei traguardi raggiunti, perché – dice – ci sono popoli che «meritano e sperano frutti ancor migliori». Bisogna quindi «impegnarsi ogni volta di più», poiché «ciò che è stato conseguito si assicura soltanto cercando di ottenere ciò che ancora manca». E nel caso dell’organizzazione politica ed economica mondiale, «quello che manca è molto», dal momento che – osserva il Santo Padre – «una parte importante dell’umanità continua ad essere esclusa dai benefici del progresso e, di fatto, relegata a esseri umani di seconda categoria».
Orientati al futuro, gli Obiettivi dello sviluppo sostenibile dovrebbero essere formulati dunque «con generosità e coraggio», affinché – sottolinea il Pontefice – «arrivino effettivamente a incidere sulle cause strutturali della povertà e della fame, a conseguire ulteriori risultati sostanziali a favore della preservazione dell’ambiente, a garantire un lavoro decente per tutti e a dare una protezione adeguata alla famiglia, elemento essenziale di qualsiasi sviluppo economico e sociale sostenibile».

Più che un lavoro di coordinamento, si tratta di una vera e propria sfida contro «tutte le forme di ingiustizia», contro l’«economia dell’esclusione»”, contro la «cultura dello scarto» e «della morte» che «purtroppo – osserva il Papa – potrebbero diventare una mentalità accettata passivamente».
Oggi, in particolare, prosegue,  «la coscienza della dignità di ogni fratello, la cui vita è sacra e inviolabile dal suo concepimento alla sua fine naturale, deve portarci a condividere, con totale gratuità, i beni che la provvidenza ha posto nelle nostre mani». A prescindere che siano essi “ricchezze materiali” o “opere di intelligenza e di spirito”, siamo chiamati dunque «a restituire con generosità e abbondanza ciò che ingiustamente possiamo aver negato agli altri».
In quest’ottica, l’esempio del dialogo tra Gesù e Zaccheo è calzante, perché «insegna che la promozione di un’apertura generosa, efficace e concreta alle necessità degli altri deve essere sempre al di sopra dei sistemi e delle teorie economiche e sociali». Cristo non chiede al pubblicano «di cambiare il proprio lavoro, né di denunciare la propria attività commerciale», commenta il Santo Padre, ma «lo induce solo a porre tutto, liberamente ma immediatamente e senza discussione, al servizio degli uomini».

Rievocando il pensiero dei suoi predecessori, Bergoglio afferma infine in maniera esplicita «che il progresso economico e sociale equo si può ottenere solo congiungendo le capacità scientifiche e tecniche a un impegno di solidarietà costante, accompagnato da una gratuità generosa e disinteressata a tutti i livelli».
A questo sviluppo equo – conclude – contribuiranno anzitutto «l’azione internazionale, impegnata a conseguire uno sviluppo umano integrale a favore di tutti gli abitanti del pianeta»; poi «la legittima redistribuzione dei benefici economici da parte dello Stato», come pure «l’indispensabile collaborazione dell’attività economica privata e della società civile».
Oltre al lavoro di coordinamento delle attività degli Organismi internazionali, il dovere a cui richiama il Successore di Pietro è di «promuovere insieme una vera mobilitazione etica mondiale che, al di là di ogni differenza di credo o di opinione politica, diffonda e applichi un ideale comune di fraternità e di solidarietà, specialmente verso i più poveri e gli esclusi».

(Fonte: «Zenit»)

Aids. Nuove ombre sul vaccino italiano. Finanziato dal pubblico con 49 mln, il progetto non ha raggiunto i risultati previsti. Ma ora il brevetto è del privato

9 maggio 2014

Era il 1998, e Barbara Ensoli, direttore del Centro nazionale Aids dell’Istituto superiore di sanità (Iss), aveva elaborato un vaccino anti-Aids, concentrando le energie di tutto il suo team su una proteina virale, la Tat. Questa proteina, secondo quanto sosteneva Ensoli, «potrebbe avere una duplice applicazione, sia di tipo preventivo, sia di tipo terapeutico». Tante le attese e le speranze suscitate dalla notizia, al punto che l’allora ministro della Salute, Rosy Bindi parlava di uno «straordinario successo della nostra ricerca pubblica». Dopo 16 anni dall’annuncio, molte polemiche e dubbi sono stati sollevati in diverse occasioni sull’effettiva validità del vaccino ed ora un’inchiesta del mensile «Altraeconomia» addensa nuove ombre sulla vicenda.

Negli anni, infatti, non sono mancate le polemiche intorno alle attese e ai finanziamenti che ha attirato questo brevetto. Nel 2012 uscì un libro di Vittorio Agnoletto, medico, fondatore e a lungo presidente della Lila (Lega italiana per la lotta contro l’Aids), che denunciava «lo scandalo del vaccino italiano» per l’Aids, gettando pesanti ombre sulla fondatezza scientifica dei risultati ottenuti dalla Ensoli e lamentando al contempo uno sconsiderato esborso di denaro pubblico per sostenerne la ricerca.

Tornando alla cronistoria del vaccino riportata ora nel mensile nel numero appena uscito di maggio, tra la fine del 2003 e l’inizio del 2004 prende avvio la fase di sperimentazione. I centri clinici coinvolti sono il Policlinico Umberto I di Roma, l’Istituto di ricerca scientifica Spallanzani di Roma e l’Ospedale San Raffaele di Milano, mentre all’Ifo San Gallicano di Roma spetta il compito dell’analisi dei dati. «Altraeconomia» nella sua inchiesta racconta però come ad un certo punto della sperimentazione il direttore del laboratorio chiamato a verificare i risultanti viene sostituito con Fabrizio Ensoli, il fratello di Barbara.

Nel 2005 l’allora ministro della Salute, Francesco Storace, annunciava un finanziamento triennale di 21 milioni di euro destinati al vaccino anti-Aids. Poi, per la fase di sperimentazione prevista in Sud Africa, a quel finanziamento si aggiunge quello del ministero degli Esteri, che annuncia ulteriori 28 milioni di euro a partire dal 2008 per l’Iss. Sempre nel 2005, si bruciano le tappe e si annunciano “esiti entusiasmanti”, quando in realtà – come scrive «Altraeconomia» – i test nei centri coinvolti non sono ancora conclusi.

L’euforia dell’atteso trionfo viene però temperata dall’entusiasmo relativo all’altra applicazione del vaccino, quella “preventiva”, che alla Tat ha dovuto affiancare la proteina Env di Novartis come “componente vaccinale”, cambiando così disegno clinico e ripartendo, nel settembre 2011, di nuovo dalla fase I a 13 anni dall’annuncio.
La tabella sullo stato dell’arte delle sperimentazioni cliniche pubblicata sul sito dell’Iss aiuta a comprendere a che punto sia ora arrivata la sperimentazione di questo vaccino dopo 16 anni.  Il “vaccino terapeutico” è ora nella seconda fase di sperimentazione in Sudafrica ed è attualmente in corso. Quello preventivo, ripartito dalla fase I nel 2011 e testato su 11 partecipanti, si è però bloccato il 24 marzo 2014. La sospensione dell’arruolamento – si spiega – è dovuta alla non conformità della proteina Env di Novartis alle nuove linee guida europee in materia di requisiti di documentazione di qualità relativa ai prodotti impiegati nelle sperimentazioni cliniche.

Se il vaccino preventivo è in una fase di stop, quello terapeutico invece – come denunciato dall’inchiesta di Altraeconomia – ha cambiato rotta: il brevetto del TatImmuneTm è infatti passato dall’Iss alla Vaxxit Srl, una piccola società con un capitale sociale di 10mila euro, le cui quote, secondo quanto riportato da «Altraeconomia», sarebbero detenute al 70% proprio da Barbara Ensoli. Il restante 30% è intestato alla 3 I Consulting Srl, che vede amministratore unico Giovan Battista Cozzone, un esperto di brevetti che dal maggio 2009 ha ricoperto l’incarico di consulente per conto dell’Iss in materia di “trasferimento tecnologico”.

Il 4 marzo 2014, il consiglio di amministrazione dell’Iss si è riunito per discutere dello stato dell’arte del vaccino. Come riporta sempre il mensile fautore dell’inchiesta nella delibera di quel Cda dell’Ente, alla cui presidenza c’è ora Fabrizio Oleari che ha sostituito l’anno scorso Enrico Garaci si legge: «La fase che il programma vaccinale ha raggiunto impone il suo trasferimento dal settore pubblico, dove ha raggiunto i limiti massimi sostenibili in termini di investimenti finanziari, al settore privato per le connesse successive fasi di registrazioni e industrializzazione». E per questo motivo, «al fine di reperire le risorse necessarie si rende necessario concedere a Vaxxit Srl una opzione di licenza esclusiva (della durata di 18 mesi) per l’utilizzo dei suddetti brevetti». Il settore pubblico inoltre, scrive «Altraeconomia» ha posticipato ogni «negoziazione dei relativi accordi economici».

«Concedere la licenza esclusiva di un brevetto senza trasparenza su quanto finora si è dichiarato di aver raggiunto sembra più simile ad un’abdicazione degli interessi collettivi e a una svendita del patrimonio di ricerca pubblica», ha dichiarato ad Altraeconomia Gianni Tognoni, direttore scientifico del centro di ricerche farmacologiche e biomediche della Fondazione

Mario Negri Sud.
(Fonte: «Quotidiano Sanità»)
(Approfondimenti: http://www.quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=7451700.pdf)

Dolore senza rimedio per oltre 2 bambini su 3. Arriva il video per sensibilizzare medici e infermieri

9 maggio 2014

A volte non hanno voce per lamentarsi, perché sono troppo piccoli per parlare. In altri casi le loro sofferenze non vengono prese troppo in considerazione, perché gli adulti pensano che stiano facendo i capricci o esagerando di proposito i loro fastidi. Invece il dolore è una realtà anche per i bambini, un problema frequente e serio che però rimane spesso inascoltato: in Pronto Soccorso appena un bambino su tre riceve un trattamento per il lenire le sofferenze, nonostante il dolore sia tuttora il primo motivo di accesso alle cure in emergenza. Lo dimostra un’indagine del gruppo di studio PIPER (Pain in Pediatric Emergency Room) secondo cui il 37% dei bambini che arrivano in pronto soccorso non viene valutato per il dolore. In un caso su tre non si “misura” con le apposite scale, in uno su cinque il dolore non viene neppure registrato in cartella clinica, nel 47 % dei casi non viene applicato nessun protocollo per trattarlo. Così, solo un bambino su tre riceve un farmaco per lenire il male.

Per migliorare la gestione del dolore nel bambino in Pronto Soccorso il gruppo PIPER, in occasione del IV Multidisciplinar Pain Meeting in corso a Minorca fino al 10 maggio, presenta le prime raccomandazioni in materia da diffondere in tutte le strutture sanitarie italiane: si tratta delle “linee guida” di intervento per la fase di triage, quando il bimbo viene esaminato per indirizzarlo alle cure più adeguate al suo caso, e per le procedure che possono provocare dolore. Non solo, dal 9 maggio nei pronto soccorso italiani sarà distribuito un video divulgativo per sensibilizzare medici, infermieri e genitori sulla necessità di valutare e trattare il dolore dei bambini.

Quelle del gruppo PIPER «non sono vere e proprie linee guida ma raccomandazioni formalizzate per la prima volta, stilate tenendo conto della letteratura scientifica sull’argomento e delle conoscenze attuali in materia di gestione del dolore pediatrico, che riguardano ad esempio procedure molto frequenti e temute dai bambini, come le iniezioni o le suture – spiega Franca Benini, responsabile del Centro Regionale veneto di Terapia antalgica e cure palliative pediatriche, Dipartimento di Pediatria dell’università di Padova, e coordinatrice del gruppo PIPER – Il nostro obiettivo è accelerare l’impiego dei farmaci per ridurre il tempo passato soffrendo dolore, delegando ad esempio agli infermieri la somministrazione di prodotti sicuri e ben tollerati anche dai bambini: tuttora passano in media 50 minuti prima che i piccoli pazienti arrivino di fronte al medico di Pronto Soccorso, un tempo infinito se c’è dolore. Purtroppo c’è tuttora la paura a dare antidolorifici ai più piccoli, temendo effetti collaterali: in realtà noi somministriamo moltissimi farmaci ai nostri figli senza preoccuparci altrettanto delle loro possibili conseguenze, il dolore invece non viene considerato come un sintomo da trattare. Un errore, come dimostrano moltissimi studi scientifici: trattarlo ed eliminarlo con i farmaci adeguati non solo è eticamente corretto nei confronti di un bimbo che soffre, ma riduce anche la permanenza in ospedale, accelera la guarigione ed evita che da adulti la soglia del dolore si abbassi».

«Il dolore è un problema sottodimensionato e l’applicazione della legge 38/2010 è ancora inadeguata, anche e soprattutto in pediatria – sottolinea Marco Spizzichino, Dirigente Ufficio XI, Direzione Programmazione Sanitaria del Ministero della Salute –. È essenziale porre attenzione alla gestione del dolore nei Pronto Soccorso pediatrici e queste nuove raccomandazioni sono fondamentali per migliorarla: l’obiettivo, ora, è distribuirle a tutte le strutture sanitarie del Paese per far sì che vengano applicate ovunque, riducendo le disuguaglianze di trattamento fra Regioni tuttora esistenti. Non è tollerabile che un bimbo debba provare dolore anche solo per un banale prelievo: si tratta di fastidi che la medicina sa, può e deve risolvere».

«Il lavoro del gruppo PIPER è un grosso passo avanti nell’applicazione reale della Legge 38/2010, l’unica al mondo che tuteli e garantisca l’accesso alla terapia del dolore per tutti i pazienti, di qualunque età – interviene Guido Fanelli, Presidente della Commissione Terapia del Dolore e Cure Palliative del Ministero della Salute –. Purtroppo in ambito pediatrico è tutto molto più difficile, basti pensare che in Europa l’impiego degli oppioidi sui bambini è ovunque off label, fuori dalla registrazione ufficiale; inoltre alle aziende che intendono commercializzare questi farmaci per l’utilizzo nei bambini viene chiesta una tassa annuale che supera i possibili guadagni, visto il numero relativamente basso di pazienti, e ciò limita moltissimo la possibilità di immettere sul mercato medicinali adatti all’uso pediatrico. Ora qualcosa per fortuna sta cambiando: l’European Medicines Agency ha da poco deciso di considerare il dolore pediatrico che richiede oppioidi come malattia rara, riducendo le spese per i produttori e facilitando così l’impiego di questi farmaci. Perché i pazienti che ne hanno bisogno non sono molti, ma neppure pochissimi: solo in Italia 12 mila bambini e ragazzini fra zero e 18 anni hanno necessità di cure palliative e terapia del dolore, spesso per un tumore. Garantire loro sollievo non è soltanto una giusta scelta medica ed etica, è anche ciò che deve essere fatto per rispettare la legge».

Perché ciò accada, è fondamentale che tutti comprendano che il dolore, di qualunque intensità esso sia, può e deve essere sconfitto: medici, infermieri, ma anche genitori e bambini devono essere consapevoli che le sofferenze non vanno patite senza chiedere un sollievo dal male.

Per far comprendere l’importanza di una corretta gestione del dolore, dopo aver distribuito 10.000 copie, nel 2013, del poster sul trattamento del dolore, il gruppo PIPER ha realizzato, come accennato, il video Dolore? No grazie! con il patrocinio del Ministero della Salute ed il contributo incondizionato di Angelini: si tratta di un cortometraggio – protagonista l’attrice Paola Minaccioni – che dal 9 maggio sarà distribuito in tutte le strutture sanitarie e proiettato nelle aree di attesa, per sensibilizzare i genitori e far capire loro che soffrire non è una condanna ineluttabile e che valutare il dolore e intervenire per ridurlo è possibile.

«Il gruppo PIPER raccoglie le esperienze di 19 Pronto Soccorso pediatrici italiani con l’obiettivo di migliorare la gestione del dolore nell’emergenza – osserva Fabio De Luca, General Manager Divisione Pharma di Angelini. – Angelini dal 2010 è onorata di sostenere i lavori del gruppo. Il nostro obiettivo è quello di lottare al fianco dei medici e del Ministero della Salute per sconfiggere la sofferenza inutile e per farlo occorre formazione ed informazione. Il Video Dolore? No Grazie! è la sintesi dell’idea condivisa con il gruppo PIPER: non basta formare medici e infermieri sulla corretta applicazione della legge 38, ma occorre anche trasmettere al pubblico l’importanza della valutazione e del trattamento del dolore affinché tutti sappiano che il dolore non solo è dannoso ed inutile, ma anche spesso evitabile».

(Fonte: «Quotidiano Sanità»)
(Approfondimenti: http://www.quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=344260.pdf)

Festa della mamma 2014, sos allattamento in città. Ma ora arriva la mappa online

11 maggio 2014

Sos mamme in città. L’allattamento al seno è un diritto dei bambini e delle madri ancora violato nel mondo se praticato in pubblico. Il 29 aprile a Nottingham 70 mamme hanno allattato al seno i loro figli dentro il negozio di abbigliamento Sports Direct in segno di solidarietà verso una donna di 25 anni che due mesi prima era stata cacciata dai proprietari per aver dato la poppata al seno al suo neonato. Le proteste del marito non erano valse a nulla.
Il petto nudo femminile scatena il voyeurismo sessuale. Oppure è un tabù. O proprietà privata del compagno. Per rompere lo stigma il fotografo statunitense Hector Cruz ha lanciato la campagna “Breastfeeding”: protagonisti i padri, fotografati a torso nudo con in braccio i loro figli e la scritta “If I could, I would” (cioè “Se potessi, lo farei”, ndr). A Cruz l’idea è venuta in mente dopo che gli hanno proibito di assistere al corso di allattamento al seno a cui si era iscritta la moglie in attesa della primogenita. «Credo che l’unico modo per iniziare davvero ad abbattere il pregiudizio sull’allattamento al seno in pubblico deve partire dagli uomini – Cruz lo scrive in una mail inviata all’«Huffington Post» -. Se educhiamo gli uomini, diamo un sostegno alle donne e lo stigma cade».

Spie che rivoluzioneranno le abitudini delle donne italiane: i baby-pit-stop urbani. Un progetto di Unicef Italia in collaborazione con Asl, Province e Comuni per individuare almeno mille spazi, pubblici o privati, dedicati all’allattamento materno. E segnalati su una mappa online. Milano è il centro più virtuoso con oltre 50 spazi selezionati già dal 2010. All’iniziativa hanno aderito farmacie, estetiste, librerie, bar, negozi per bambini, locali in co-working e l’aeroporto di Malpensa.

Aumentano gli sforzi a livello locale per non costringere le mamme all’invisibilità. A Trieste, l’adesivo “Bebènvenuti” è esposto sulle vetrine di bar, ristoranti, negozi che offrono alle mamme uno spazio per l’allattamento. “Punto allattamento al seno” è l’iscrizione adottata a Pistoia. Mentre “Via Lattea” è il piano di Modena. Radiomamma, sito web per i genitori che abitano a Milano, assegna il bollino di qualità family-friendly. Recentemente se lo è aggiudicato anche lo stadio di San Siro, che mette a disposizione marsupi di cortesia per consentire alle mamme con neonati di muoversi con facilità tra le tribune e nel museo interno. Quando non ci sono le partite di calcio, nella sala dirigenti di Milan e Inter viene allestita una soft room per cambio pannolino e poppata.

Tra i servizi a prova di bambino indicati dal sito, il “cinemamma” al cinema Anteo, zona Moscova, sempre a Milano: due mercoledì al mese riservati a mamme con figli da 0 a 18 mesi, con possibilità di parcheggio passeggini, fasciatoio, salviette, pannolini, scaldapappa, biberon, luci tenui e volume basso. Il “cinemamma” sta prendendo piede in molte città: da Bologna e Rimini, a Roma, L’Aquila, Torino e Padova. L’alternativa al nido invece è il co-baby dentro il co-working. Un esempio è l’associazione “Piano C”, che a Milano offre uffici per genitori e una baby sitter per i figli (fino a 3 anni) dalle 9 alle 19. Un’altra soluzione è la”tagesmutter“ (mamma di giorno, in tedesco): tate professionali che badano fino a 5 bambini per volta a casa loro.

Altra impresa da mamma: conciliare lavoro e famiglia. Un anno fa Radiomamma ha promosso il progetto “Io concilio” finanziato da Palazzo Marino: scuole aperte dopo l’orario scolastico per l’autogestione condivisa dei figli. «Nel 2010 cinquemila mamme lombarde, di cui 1700 milanesi, hanno lasciato il lavoro dopo la nascita del primo figlio – spiega Carlotta Jesi, fondatrice del portale – Molti genitori non partecipano alle riunioni di scuola perché non sanno a chi affidare i fratellini più piccoli». Da qui l’esigenza di aiutarli garantendo aule aperte durante riunioni, udienze o dopo la fine delle lezioni, e turni di genitori volontari. Coinvolte finora una decina di istituti, tra nidi, materne e scuole primarie, dai Navigli alla Barona.

(Fonte: «Il Fatto Quotidiano»)
(Approfondimenti: http://www.projectbreastfeeding.com/; http://www.babypitstop.it/mappa-baby-pit-stop/)

Burnout in Usa per i medici del dolore. Zucco: in Italia situazione migliore

12 maggio 2014

Il burnout è un rischio concreto per i medici americani e in particolare per gli specialisti della medicina del dolore: lo segnala un’indagine presentata al 33esimo meeting annuale della American pain society (Aps). «Trattare il dolore cronico è effettivamente molto stressante» conferma Furio Zucco, specialista in terapia del dolore e presidente dell’associazione di volontariato Presenza amica «perché spesso si tratta di “sposare” il malato e la sua famiglia. Tuttavia l’indagine riflette una situazione organizzativa della rete assistenziale molto lontana dalla nostra». I ricercatori americani, infatti, puntano il dito sulla sistematica tendenza dei medici di medicina generale di delegare le terapie del dolore agli specialisti, che subiscono in tal modo carichi di lavoro eccessivi.

«Negli Stati Uniti» conferma Zucco «il general practitioner è abituato, in tutti i settori, ad avvalersi molto spesso dello specialista. In Italia invece, specialmente negli ultimi anni, c’è la tendenza dei medici di famiglia a prendere sempre più frequentemente in carico i malati affetti da dolore cronico, lavorando in sinergia con i centri di terapia del dolore, come tra l’altro è stabilito dalla legge 38 del 2010 e dai decreti applicativi. Un’ intesa della conferenza Stato-Regioni del 2010 ha delineato la rete della terapia del dolore in cui al primo livello c’è proprio il medico di medicina generale».

Anche se la legge 38 è stata da molti ritenuta una vera e propria rivoluzione, ancora molto resta da fare. «Miglioramenti notevoli si sono avuti soprattutto nell’ambito delle cure palliative, la cui rete sul territorio è sufficientemente avanzata» distingue Zucco «mentre nella rete della terapia del dolore c’è un work in progress e la realizzazione sul territorio dei centri di terapia del dolore specialistici di primo e secondo livello (gli hub e gli spoke) è ancora largamente da sviluppare. Molti medici di medicina generale non hanno ancora nel proprio territorio un centro di terapia del dolore di riferimento».

(Fonte: «Doctor 33»)

Tumori. Il 20% dei pazienti perde il lavoro. Parte il progetto Pro Job dell’AIMaC

12 maggio 2014

Meno redditi e più costi. È la sintesi dell’impatto del tumore sulla situazione economica dei pazienti. Il 78% dei malati oncologici infatti ha subito un cambiamento nel lavoro in seguito alla diagnosi: il 36,8% ha dovuto fare assenze, il 20,5% è stato costretto a lasciare l’impiego e il 10,2% si è dimesso o ha cessato l’attività (in caso di lavoratore autonomo). Pochi conoscono e utilizzano le tutele previste dalle leggi per facilitare il mantenimento e il reinserimento: solo il 7,8% ha chiesto il passaggio al part-time, un diritto di cui è possibile avvalersi con la Legge Biagi, poco meno del 12% ha beneficiato di permessi retribuiti (previsti dalla Legge 104/1992), il 7,5% ha utilizzato i giorni di assenza per terapia salvavita e il 2,1% i congedi lavorativi.

Sono questi i dati presentati il 12 maggio all’Università di Milano in occasione di un convegno su patologie oncologiche e tutele lavoristiche, nel corso del quale è stato anche presentato Pro Job, il progetto di AIMaC (Associazione Italiana Malati di Cancro), con la collaborazione di Insieme contro il Cancro, dell’Ateneo lombardo, dell’INT (Istituto nazionale Tumori) e di ADAPT (Associazione per gli Studi Internazionali e Comparati sul Diritto del Lavoro e le Relazioni Industriali).

«Secondo il sondaggio Piepoli-AIMaC, il 91% delle persone malate vuole continuare a lavorare ed essere parte attiva della società», ha spiegato Francesco De Lorenzo, presidente AIMaC. Che ha evidenziato, però, come i dati dell’indagine Censis-FAVO evidenzino che le forme di gestione flessibile per conciliare lavoro e cure oncologiche sono ancora poco note e non influiscono in modo significativo sulla vita dei molti pazienti coinvolti. Ciò spiega la grande difficoltà di contemperare le esigenze produttive con quelle legate alla cura. Questa situazione interessa anche i cosiddetti ‘caregiver’, cioè familiari o amici che assistono i malati in modo continuativo.

Per colmare questo vuoto, nasce «Pro Job: lavorare durante e dopo il cancro – Una risorsa per l’impresa e per il lavoratore», un progetto realizzato dall’AIMaC, in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano, la Fondazione Insieme contro il Cancro e l’Istituto Nazionale Tumori del capoluogo lombardo.«È importante che Pro Job venga adottato dal maggior numero possibile di realtà imprenditoriali», ha sottolineato De Lorenzo.

Nel 2013 in Italia si sono registrate 366mila nuove diagnosi di tumore. E sono circa 700mila le persone con diagnosi di cancro in età produttiva. «Pro Job – ha sottolineato Elisabetta Iannelli, segretario della Fondazione Insieme contro il Cancro – mira a promuovere l’inclusione dei pazienti oncologici nel mondo delle imprese, a sensibilizzare i dirigenti perché creino per i malati condizioni ottimali nell’ambiente di lavoro, ad agevolare i dipendenti che hanno parenti colpiti da tumore a conservare l’impiego grazie alle tutele giuridiche vigenti e a disincentivare il ricorso inadeguato a procedure per fronteggiare le difficoltà determinate dalla patologia. L’obiettivo finale del progetto è quello di rendere l’azienda consapevole dei bisogni emergenti dell’organizzazione e dell’individuo per rispondervi in modo adeguato, tempestivo e in autonomia recuperando, altresì, professionalità preziose che altrimenti rischiano di andare perse con conseguente danno per la produttività dell’impresa». Pro Job ha, tra l’altro, vinto il premio “Sodalitas Social Innovation”, programma per migliorare la capacità progettuale delle organizzazioni del terzo Settore e favorire partnership innovative fra profit e non profit promosso da Fondazione Sodalitas.

«Evidenze scientifiche dimostrano che il lavoro aiuta a guarire e a seguire meglio i trattamenti – ha affermato Francesco Cognetti, presidente di Insieme contro il Cancro -. Ma servono nuovi strumenti per non escludere i malati dal mondo produttivo. Dall’estremo della perdita dell’occupazione alla perdita forzata di giornate o di ore, è evidente che, malgrado gli sforzi di adattamento dei pazienti, si entra in una fase di non facile conciliazione tra condizione di salute e lavoro. È essenziale che il mondo delle imprese comprenda che i malati oncologici possono e devono lavorare, ma non necessariamente come prima della diagnosi. Il tumore è ormai da tempo una patologia di massa con rilevanti impatti sociali sulla vita delle persone e delle comunità coinvolte. È una patologia dagli effetti prolungati nel tempo e, malgrado l’universalità dell’accesso alle cure del Servizio sanitario, determina costi economici significativi che pazienti e familiari devono affrontare in parte anche direttamente di tasca propria e che comunque incidono sulla loro condizione socio-economica».

È scarso il ricorso agli strumenti legislativi e regolatori anche da parte dei ‘caregiver’: il 26% utilizza i congedi lavorativi e solo il 7% le varie forme di tempo parziale, verticale e orizzontale, con riduzione proporzionale dello stipendio, previsto dai commi 2 e 3, art. 12 bis D. Lgs. 61/2000 .

«L’azienda in grado di sviluppare il progetto Pro Job – ha concluso Michele Tiraboschi, professore di diritto del lavoro all’Università di Modena e Reggio Emilia e coordinatore del Comitato Scientifico di ADAPT – potrà valorizzare il proprio capitale umano permettendo, da un lato, ai dipendenti malati di cancro di recuperare parte del proprio benessere attraverso il reinserimento occupazionale e di ritrovare velocemente motivazione, impegno e capacità produttiva, dall’altro ai lavoratori familiari di un paziente di continuare il proprio lavoro, senza rinunciare all’assistenza del malato, avvalendosi del part time. Tutto ciò a beneficio sia del lavoratore che dell’azienda».

Il convegno del 12 maggio apre gli eventi legati alla IX Giornata Nazionale del Malato Oncologico, che sarà celebrata all’Auditorium della Conciliazione di Roma, dal 16 al 18 maggio.

(Fonte: «Quotidiano Sanità»)

Immettere nel motore del business solidarietà e fraternità

12 maggio 2014

Far diventare la solidarietà e la fraternità parti integranti delle decisioni di business. È l’obiettivo che si sono posti i circa 350 partecipanti dell’annuale congresso internazionale della Fondazione Centesimus Annus – Pro Pontifice su «The good society and the future of jobs: can solidarity and fraternity be part of business decisions?», svoltosi nell’aula nuova del Sinodo in Vaticano dall’8 al 10 maggio.

COMPORTAMENTI DA PRIVILEGIARE. Giornate di studio e confronto, durante le quali i membri della Fondazione hanno cercato di unire la riflessione teorica con l’elaborazione di proposte pratiche. Dai lavori di gruppo è emersa, seppur con accenti diversi, una visione comune che tende a porre in primo piano il valore della persona nelle relazioni; l’anteporre la scelta verso la cooperazione piuttosto che la competizione; vivere il mondo degli affari mettendo in campo anche i beni relazionali costituti dalla gratuità, dal dono, dalla fraternità e dalla reciprocità, ricostruendo legami di fiducia e di dialogo all’interno del mondo economico e finanziario. Tutti comportamenti questi, che vanno nella direzione di far entrare nelle decisioni di business la solidarietà e la fraternità.

«Questa è la strada indicata che la Fondazione Centesimus Annus – Pro Pontifice intende percorrere», ha detto il presidente Domingo Sugranyes Bickel. «Non stiamo parlando di qualcosa di utopico – ha aggiunto -, ma è un fatto concreto quello di riconoscere che solidarietà e fraternità non sono qualcosa di esterno all’impresa; stiamo parlando di uomini, non di macchine». Bisogna cambiare il modo fino ad ora usato per interpretare l’economia, troppo legato alla convinzione che solo perseguendo il proprio interesse si possono raggiungere i migliori risultati collettivi. «Questa maniera di vedere le cose è una parte della realtà, ma non è la totalità di essa», ha osservato il presidente. «Negli ultimi anni, in particolare, nel mondo finanziario c’è stato un eccessivo sviluppo di attività legate al breve termine, finalizzate alla massimizzazione del risultato immediato. Questo comportamento ha dato luogo a manipolazioni o a comportamenti fraudolenti. Fatti questi, ben conosciuti, che però necessitano, di essere capiti in profondità e corretti».

NUOVI CAMMINI. Per cambiare rotta, secondo Sugranyes Bickel occorre «scoprire cammini nuovi rappresentati dal coraggio di persone virtuose che con le loro decisioni fanno la differenza rispetto alle realtà che si comportano in modo sbagliato: che separano, come dice la parabola, il grano buono dalla gramigna». In realtà, ogni vera idea imprenditoriale contiene sempre un elemento di solidarietà, perché chi decide di realizzarla ha un progetto a lunga scadenza che comporta un lavoro in comune. «La Fondazione per accompagnare questi comportamenti virtuosi – ha spiegato il presidente – continuerà a lavorare sull’educazione dei futuri responsabili in diverse parti del mondo, collegando i principi della dottrina sociale della Chiesa con la pratica reale, per non far rimanere la teoria una cosa vuota». È in questa prospettiva, che nel messaggio di saluto rivolto a Papa Francesco, il presidente della Fondazione ha ricordato che «il buon comportamento delle singole persone non è sufficiente: il movimento per un’economia al servizio dell’uomo dev’essere più ampio, condiviso da credenti e non credenti; dev’essere sostenuto da correnti d’opinione e con capacità politica»; a questo rovesciamento di priorità, a questo allargamento della prospettiva «la parola e l’esempio di Vostra Santità contribuiscono in modo potente», ha affermato. «Crediamo – ha concluso – che questo movimento si deve far sentire con forza in tutti i centri economici e politici, per esempio anche nel presente dibattito sui nuovi obiettivi di sviluppo delle Nazioni Unite».

Costantino Coros
(Fonte: «Sir»)

Salute, bambini a rischio tra discariche e veleni: c’è uno studio, nessuno lo finanzia

14 maggio 2014

Giocano, corrono, passano molto tempo all’aria aperta. Il loro metabolismo accelerato li espone più degli adulti ai rischi legati all’inquinamento ambientale, inclusi i tumori. Tanto che quelli che crescono vicino alle aree contaminate, già nel primo anno di vita, hanno un rischio di morte per tutte le cause più alto del 4%. Ma non ne sappiamo molto di più. Perché l’Italia gravida di veleni e sprechi, fatalmente, si è dimenticata i suoi figli. E per poche centinaia di migliaia di euro. Suona incredibile, ma è così: giace da un anno, in un cassetto dell’Istituto superiore di Sanità, il primo progetto di studio epidemiologico dedicato ai bambini che vivono nelle aree compromesse dalle discariche e dai fumi delle industrie disseminate lungo lo Stivale. Costerebbe, sì e no, 350mila euro e tuttavia “il progetto non ha finora ricevuto finanziamenti ad hoc”.

Lo si legge nel nuovo rapporto “Sentieri”, lo studio epidemiologico sui siti inquinati di interesse nazionale (Sin) finanziato dal Ministero della Salute e coordinato dall’Istituto superiore di Sanità. È il terzo rapporto ed è stato appena pubblicato, un po’ in sordina rispetto alle altre edizioni, sul sito dell’associazione degli epidemiologi. Il settimo capitolo affronta questo tema – poco esplorato, delicatissimo e ora anche imbarazzante – dei rischi per la salute infantile tra i residenti in aree contaminate.

Dalla Caffaro di Brescia a Taranto, dal Polo chimico di Mantova alla Ferriera di Trieste, all’ex stabilimento Ethernit di Siracusa si sa che sono cinque milioni gli italiani che vivono in uno dei 44 siti di interesse nazionale per le bonifiche (Sin)Un quinto, circa un milione, sono bimbi e ragazzi sotto i 20 anni di età e rappresentano la fascia di popolazione più fragile ed esposta all’inquinamento ambientale. E tuttavia per il Paese della Terra dei Fuochi è come se non esistessero affatto. La strage degli innocenti finora è stata raccontata da lontano, attraverso serie statistiche su tutta la popolazione e dunque mantenendosi sulla superficie rispetto al problema specifico dei bambini. Su di loro grava un buco informativo che arriva da lontano.

Basti dire che ancora oggi «ai pronto soccorso, anche nelle zone ufficialmente riconosciute come compromesse come Taranto, non c’è un sistema automatizzato di registrazione degli accessi dei bambini per causa», spiega Roberta Pirastu, docente alla Sapienza e curatrice del rapporto Sentieri. Significa che se un minore sta male perché intossicato dai fumi di un’industria, viene certo trattato dalla struttura sanitaria, ma il dato di quell’accesso con le cause probabili si perde e non contribuisce alla conoscenza, al monitoraggio e alla valutazione delle ricadute da esposizione ai siti contaminati. Così gli innocenti, quando sono malati, diventano fantasmi.

Il problema della sottostima di queste conoscenze è ben noto agli esperti italiani di epidemiologia. Un anno fa, il 27 marzo del 2013, il tema è stato anche dibattuto in un work-shop tecnico-scientifico organizzato dal Dipartimento ambiente e prevenzione primaria (Ampp) dell’Iss. Il titolo era già di per sé emblematico: «Tumori infantili nei siti contaminati». In quell’occasione, sono state descritte le evidenze epidemiologiche disponibili sui fattori di rischio ambientale per l’insorgenza dei tumori infantili, e sono stati presentati i dati sull’incidenza in Italia in 23 dei 44 siti di interesse nazionale per le bonifiche coperti dalla Rete dei registri tumori (Airtum). E cosa dicono? Che su un periodo di 10 anni (1996-2005), in questi siti contaminati, sono stati registrati circa 700 casi di tumori maligni tra i ragazzi di età compresa tra 0 e 19 anni (più di 1.000 casi includendo anche i giovani adulti, 0-24 anni).

Con picchi nelle realtà più compromesse della mappa dei veleni: a Massa Carrara, area interessata dal siderurgico e petrolchimico, le esposizioni agli inquinanti hanno portato a un eccesso di mortalità del 25% nei bambini sotto l’anno di vita e del 48% in quelli da 0 a 14 anni. A Taranto gli stessi valori sono superiori del 21% e del 24%, a Mantova – tra industrie metallurgiche e cartarie, petrolchimico e discariche e area portuale – addirittura del 64 e 23%. L’aumento della mortalità infantile per tutte le cause si osserva anche a Biancavilla, Broni e Casale Monferrato, siti caratterizzati da contaminazione ambientale da amianto o altre fibre minerali.

Gli epidemiologi sanno da tempo che i dati sulla mortalità sono solo la superficie. Mancano «ulteriori analisi necessarie a pervenire a stime di incidenza specifiche per sede, classi di età e genere» si legge ancora nel Rapporto Sentieri 2014. «In età infantile – spiega la Pirastu – i tumori sono eventi ancora rari e caratterizzati da forte sopravvivenza». I soli decessi, in altre parole, non possono essere presi come fonte esaustiva per la valutazione dei profili di rischio, a maggior ragione nei bambini. Questo limite viene evidenziato già nel 2010 quando, proprio in Italia, arrivano i ministri dell’Ambiente e della Salute di 53 Stati della Regione europea Oms. Convergono a Parma per la quinta conferenza internazionale su “Ambiente e Salute”: sul tavolo la questione della tutela dei bambini esposti ai rischi ambientali, sullo sfondo lo scenario di una nazione sempre più compromessa da emergenza rifiuti, discariche abusive, industrie chimiche sotto processo. Nella dichiarazione finale i governi si impegnano a ridurre entro i successivi dieci anni gli impatti dell’ambiente sulla salute, e a intensificare gli sforzi per dare attuazione agli impegni stabiliti nel “Piano di azione europeo per l’ambiente e la salute dei bambini” (Cehape). Che vuol dire, per ogni Stato, fare uno sforzo straordinario e specifico sulla tutela della salute infantile.

Ma in Italia la strada è in salita e l’impegno, alla fine, sarà disatteso. Certo, per avere più informazioni si potrebbe iniziare a incrociare i dati disponibili come la mortalità con altri, come l’incidenza dei ricoveri per malattie respiratorie. Prende forma tra gli epidemiologici dell’Iss l’idea di realizzare un primo studio specifico sui bambini che, attraverso la sovrapposizione di più banche dati, possa fornire un quadro conoscitivo approfondito dello stato di salute dei soggetti più esposti a pressione ambientale. Per la prima volta viene proposto allora un approccio di analisi “multiesito” e multidisciplinare basato sui flussi informativi sanitari di mortalità, ricoveri ospedalieri e incidenza neoplastica. Diversi i soggetti da coinvolgere a partire dall’Iss, l’Associazione italiana dei registri tumori, quella degli Ematologi e oncologi pediatri, le istituzioni regionali. Il tutto porterebbe a istituire una sorta di “sistema di osservazione permanente” dello stato di salute dei bambini che risiedono nelle aree fortemente inquinate. Dati utili anche a suggerire interventi di prevenzione primaria e monitorarne poi l’efficacia.

Il progetto, nonostante la sua complessità, ha costi molto ragionevoli: realizzarlo comporterebbe una spesa intorno 350mila euro per sostenere gruppi di lavoro, attività di ricerca e riunioni con i soggetti coinvolti. Briciole rispetto ai costi delle bonifiche (quando ci sono) e a quelli sanitari dovuti alla mancata prevenzione del rischio sulla popolazione più vulnerabile. Una goccia nel mare, poi, rispetto ai 250 milioni di euro che nel bilancio del Ministero della sanità vanno sotto la voce “tutela della salute pubblica”.

“Sentieri Kids” viene allora sottoposto, con forti aspettative, a richiesta di finanziamento da parte del Centro controllo delle malattie (Ccm). È l’organismo nazionale di coordinamento tra il Ministero e le Regioni per le attività di sorveglianza, prevenzione risposta alle emergenze. Istituito nel 2004, il Ccm ogni anno predispone un Piano nazionale di prevenzione (Pnp) per finanziare progetti di ricerca sanitaria. A novembre il comitato scientifico si riunisce e seleziona per punteggio 32 progetti sui 292 pervenuti da vari organismi sanitari e avvia le procedure amministrative per la stipula degli accordi di collaborazione e di finanziamento. Passa lo studio della sigaretta elettronica, un vizio degli adulti allora in pieno boom (415mila euro). Passa il “Piano di monitoraggio e di intervento per l’ottimizzazione della valutazione e gestione dello stress lavoro correlato” proposto da Inal (480mila euro). Nel settore epidemiologico, disco verde alla ricerca finalizzata sui residenti nei siti contaminati di Taranto (450mila euro). Ma quello proposto dagli epidemiologi su tutti i bambini dell’Italia dei veleni non trova posto. Il motivo, probabilmente, è da ricercare nel calo della dote per il Pnp: nel 2013 è stata di 10,7 milioni di euro, in picchiata rispetto ai 13 milioni che nel 2012 hanno permesso di finanziare nove progetti in più.

«Finora, in effetti, non abbiamo avuto fortuna», si limitano a dire i proponenti. «Abbiamo avuto un momento di gloria nel 2006-2007 con la ricerca finalizzata, poi nel 2009 col Ccm e adesso fatichiamo un po’ ma non demordiamo, stiamo continuando a fare richieste». Anche perché i bambini sono «segnali spia» per fenomeni che investono tutta la popolazione. «Fare prevenzione per bambini significa farla anche per gli adulti. E con pochi soldi avremmo avuto a disposizione una messe di dati importantissimi».

Il punto è che da allora sono passati 10 mesi, scanditi e segnati dall’emergenza ambientale, dalle inchieste (Taranto, Brindisi, Vado Ligure…) e da una legge che a febbraio prende il nome della Terra dei Fuochi e promette di punire l’illecita combustione dei rifiuti, di spingere sulle bonifiche, di garantire screening sanitari gratuiti per i residenti nelle aree contaminate della Campania. Cose importanti, certo. E tuttavia non un rigo, non un euro, per i bambini d’Italia che giocano tra i veleni ricevuti in eredità dagli adulti.

Thomas Mackinson
(Fonte: «Il Fatto Quotidiano»)
(Approfondimenti: http://www.epiprev.it/pubblicazione/epidemiol-prev-2014-38-2-suppl-1)

Biobanche pediatriche. Cnb: «L’interesse dei minori prevalga su quello della società e della scienza»

14 maggio 2014

Le biobanche pediatriche sono una «preziosa risorsa per la ricerca scientifica», ma «l’interesse e il benessere dei soggetti i cui materiali biologici [cellule, tessuti, dna ndr] sono usati per ricerca – a maggior ragione se si tratta di minori – devono sempre prevalere sul solo interesse della società o della scienza». Ad affermarlo è il Comitato Nazionale per la Bioetica nel parere sulle “Biobanche pediatriche” approvato all’unanimità lo scorso 11 aprile e pubblicato il 14 maggio sul sito della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Nel parere, il Comitato ribadisce «la necessità di una regolamentazione normativa in materia che tenga conto di alcuni aspetti di rilevanza etica: adeguata e dettagliata informazione (interesse scientifico della ricerca, protezione della privacy, tempi e luoghi della ricerca) ai genitori o al rappresentante legale ai fini del consenso, che sarà opportuno che sia ristretto o parzialmente ristretto; ascolto della volontà del minore, in rapporto al suo progressivo grado di maturità, e informazione al minore in merito alla cessione del suo materiale biologico da parte dei genitori e dei responsabili delle biobanche; limitazione del diritto dei genitori a non sapere nei casi in cui l’informazione sia attendibile e utile per la salute del minore sul piano preventivo e terapeutico; garanzia del diritto a sapere o non sapere da parte del minore, divenuto adulto e in grado di manifestare un’adeguata volontà».

Si ritiene inoltre “necessaria” l’istituzione di «un organo di controllo per le diverse fasi di conservazione e gestione del materiale biologico e la presenza di un Comitato etico». Per il Cnb essenziale è anche «un’adeguata formazione dei ricercatori e del personale della biobanca». Dal Cnb, infine, l’auspicio che si dia il via a un censimento delle biobanche pediatriche e all’istituzione di un Registro Nazionale delle biobanche pediatriche.

(Fonte: «Quotidiano Sanità»)
(Approfondimenti: http://www.quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=3887343.pdf)

Raccontare la propria malattia migliora la cura

14 maggio 2014

Florence Nightingale, vissuta nell’Ottocento e considerata la fondatrice dell’assistenza infermieristica moderna, sosteneva che i pazienti soffrono spesso per cause diverse da quelle indicate nella loro cartella clinica, e se si tenesse conto di questo, molte di queste sofferenze potrebbero essere alleviate. Perché il paziente è una persona, non un caso da risolvere, e oltre alla cartella tradizionale esiste una cartella “parallela”, strutturata sui suoi sentimenti ed emozioni. Una sorta di specchio dell’anima cui dà voce la medicina narrativa, comparsa come Narrative Based Medicine (Nbm) nella letteratura scientifica alla fine degli anni ‘90, “fondata” ufficialmente nel 2000 da Rita Charon presso la Columbia University di New York, approdata successivamente al King’s College di Londra e da qualche anno affacciatasi anche nel nostro Paese.

L’ARTE DELLA CURA. Secondo l’Oms, la metà dei pazienti che esce dagli ambulatori non segue la terapia prescritta. «Ciò significa – spiega al Sir Maria Giulia Marini, epidemiologa e counselor, divulgatrice delle Humanities for Health in Italia – che nell’attuale prassi medica non viene colta la verità e la complessità dell’individuo». Di qui l’aiuto della medicina narrativa: il vissuto dei pazienti raccontato da loro stessi, e le testimonianze di familiari (ad esempio per i malati in terapia intensiva), medici, infermieri. Per lo più testi scritti, ma anche disegni di bambini e “storie orali, lente e cadenzate”, raccolte pazientemente dalla bocca di anziani.

Per Marini si tratta di «un atto di riflessione che sistematizza i pensieri convulsi dei malati, ne riduce la sofferenza aiutandoli a elaborare le proprie emozioni (rabbia, paura, solitudine) e a individuare uno stile di convivenza con la malattia», ma serve anche «a restituire ai professionisti sanitari il significato perduto della propria missione che è ‘arte della cura’, oggi svilita da un’eccesiva burocrazia, da una tecnocrazia invadente e da tempi sempre più compressi. Creando inoltre una migliore relazione di cura, migliora l’efficacia e l’efficienza delle terapie».

VOCE E DIGNITÀ AL MALATO. Storie che restituiscano spazi, voce, dignità al malato, e ne favoriscano la partecipazione. Per Stefania Polvani, coordinatrice del Laboratorio di medicina narrativa attivo da dieci anni nella Asl di Firenze, «la narrazione aiuta il malato a dare un senso alle esperienze, e il medico a conoscere la persona che ha davanti, costruendo percorsi di cura condivisi». La medicina narrativa migliora la pratica clinica, consente diagnosi più approfondite, favorisce le relazioni fra paziente, famiglia e medici, ottimizza la strategia curativa e la qualità del servizio, ma ha soprattutto un impatto sull’esito delle cure. E non solo Firenze: i racconti dei pazienti sono inclusi nella cartella clinica nel dipartimento cardiovascolare dell’ospedale San Filippo Neri di Roma, mentre Asl di Savona e Foligno, e servizi a Cagliari, Oristano, Sassari e Torino organizzano corsi e avviano progetti. L’attenzione è puntata soprattutto su persone affette da malattie rare, croniche, oncologiche, neurologiche, della pelle, e sui familiari di pazienti in terapia intensiva.

INIZIATIVE, PROGETTI, TESTIMONIANZE. Lo scorso 4 maggio, Giornata nazionale dell’epilessia, è stato presentato il libro A volte non abito qui, frutto del primo concorso letterario “Raccontare l’epilessia”, bandito nel 2013 dalla Lega Italiana contro l’epilessia (www.lice.it), contenente 33 contributi scritti da malati, familiari e medici. Non ha dubbi Oriano Mecarelli, responsabile dell’ambulatorio per le sindromi epilettiche del Policlinico Umberto I di Roma: «La medicina narrativa dovrebbe essere implementata nella pratica clinica, come nel mondo anglosassone, perché costituisce una parte essenziale del rapporto medico-paziente».

E intanto si è appena concluso a Milano il primo master, un percorso internazionale promosso dalla Fondazione Istud (www.medicinanarrativa.eu) con docenti del King’s College e del Tavistock Center di Londra. Nei lavori presentati le testimonianze scritte di malati di Alzheimer, che di solito non si esprimono verbalmente. Storie che per Paola Chesi, coordinatrice del master, possono indicare nuove soluzioni di intervento «di cui possono beneficiare non solo le persone in cura ma l’intero sistema di welfare, perché ascoltando i bisogni si possono orientare le policy sanitarie e sociali».

Di recente costituzione l’Osservatorio di medicina narrativa italiano (www.omni-web.org) al quale aderiscono quindici realtà, e la piattaforma virtuale ed interattiva www.viverlatutta.it. Dice Rosa Mannetta, colpita da un cancro al seno, «raccontare e condividere con altri aiuta molto, è un modo per liberare la propria anima dall’angoscia». Per Laura Mazzeri, cui è stato asportato il colon e trapiantato il fegato, «la paura svuota la mente e blocca la vita», ma «raccontare il trauma dà come un senso storico a questo fatto». Dare voce alla propria malattia, insomma, ne alleggerisce la pesantezza, e favorendo la ricomposizione di un equilibrio spezzato, può essere di fronte all’ansia per il futuro un cammino di trasformazione e di speranza.

Giovanna Pasqualin Traversa
(Fonte: «Sir»)

Farmaci efficaci ma costosi. Questione tra etica e salute

15 maggio 2014

Un farmaco rivoluzionario, estremamente efficace, in grado di guarire realmente il malato, ma con un costo talmente elevato che potrebbe sbancare in poco tempo il Servizio Sanitario Nazionale. È il sofosbuvir, il nuovo antivirale per la cura dell’epatite C. Si tratta di una molecola che inibisce la replicazione del virus responsabile di questa malattia, che se non trattata adeguatamente può portare alla cirrosi, a sua volta causa di grave insufficienza epatica e/o di cancro al fegato. Patologie queste ultime per le quali l’unico trattamento efficace può essere, in determinati casi, il trapianto di fegato.
Rispetto ai farmaci usati in precedenza (interferone e ribavirina), talvolta poco efficaci anche dopo lunghi periodi di assunzione e gravati da importanti effetti collaterali, quest’ultimo risulta ben tollerato e in grado di portare alla normalizzazione della funzione epatica nel giro di poche settimane. Il suo impiego terapeutico è stato autorizzato nel dicembre 2013 dalla statunitense Food and Drug Administration e nel gennaio 2014 anche dell’European Medicines Agengy, l’Agenzia europea del farmaco.

Il prezzo si calcola che potrà aggirarsi attorno ai 50mila euro per ogni trattamento. Proprio il 14 maggio il ministro della Salute Beatrice Lorenzin ha annunciato che il 15 «ci sarà una riunione del comitato dell’Aifa con l’azienda produttrice in modo da riuscire a fissare il prezzo per il farmaco entro il limite di 100 giorni, che scade il 19 giugno. Siamo tra i primi Paesi europei a contrattare il prezzo – ha aggiunto Lorenzin –, mentre altri lo hanno introdotto a prezzo di realizzo per l’industria, ad esempio in Germania e in Francia, mentre sarebbe opportuno attivare delle procedure comunitarie, anche per evitare il fenomeno del mercato parallelo».

Va detto comunque che non è tanto il costo per il singolo paziente a spaventare, quanto il numero complessivo dei malati accertati che dovrebbero essere trattati: tra i 300 e i 500mila, per un costo totale che arriverebbe a toccare i 25 miliardi di euro. La stessa cifra che il nostro Paese destina ogni anno per coprire l’intera spesa farmaceutica, ospedaliera e territoriale, e che attualmente il nostro Sistema Sanitario Nazionale non potrebbe permettersi.

L’uso di questi nuovi farmaci, bloccando la progressione della malattia e in molti casi portando alla guarigione clinica del paziente, oltre che rappresentare una cura realmente efficace, consentirebbe di evitare molti trapianti di fegato correlati al virus dell’epatite C (circa 900 all’anno in Italia, con un costo per ogni singolo intervento di 100mila euro) con un evidente risparmio economico, anche se assai inferiore rispetto all’investimento richiesto per l’attuazione della terapia.
Le associazioni dei pazienti chiedono a gran voce di accelerare la dispensazione di questi farmaci da parte del Servizio Sanitario Nazionale. Se i costi non scendono significativamente, non sarà però verosimilmente possibile dare il farmaco a tutti i malati. Bisognerà trovare criteri equi di accesso alla terapia e modalità di scelta dei pazienti da trattare. Quanto sarà possibile investire per l’acquisto di tali farmaci e chi trattare? I casi più eclatanti? I malati più giovani? I pazienti più urgenti?

Il dilemma dei nuovi farmaci anti-epatite C si pone tra etica, economia e salute e rappresenta solo l’avanguardia di un problema più ampio: l’arrivo sul mercato di una nuova generazione di medicamenti con costi sempre più elevati per il trattamento di malattie complesse e di patologie oncologiche.
Già ora molti antitumorali di terza o quarta linea rappresentano una fonte di spesa rilevante per gli istituti oncologici (talvolta addirittura il 30% dell’intero bilancio annuale) a fronte di un rapporto costi/benefici talvolta poco significativo in termini esistenziali (durata e qualità di vita). La ricerca farmaceutica investe molto nel settore dei nuovi farmaci, è vero, talvolta con risultati non sempre in linea con le attese. Negli ultimi vent’anni i prodotti immessi in commercio non superano i 20-30 all’anno e le molecole veramente innovative si possono contare sulle dita di una mano. Questo può in parte giustificare l’elevato costo dei nuovi prodotti. In prospettiva però a chi giovano prezzi così elevati dei farmaci?

Se il banco salta, alla lunga anche le industrie farmaceutiche ci rimetteranno, perché avranno sempre meno mercato per i loro prodotti. Se per un nuovo farmaco viene fissato un prezzo troppo basso, che ripaga solo i costi delle materie prime o poco più, si rischia di penalizzare la ricerca di una vera innovazione. Ma se viceversa è troppo alto, questa spesa diventerà in breve tempo non sopportabile dalla sanità pubblica (e in prospettiva anche da quella privata).
Il complesso delle grandi industrie farmaceutiche globalizzate, la big pharma, sembra non preoccuparsi molto di questo aspetto, puntando solo sulla logica dei guadagni esagerati, ignorando e violando spesso le stesse regole commerciali. Pagare sanzioni anche di centinaia di milioni o di miliardi di dollari rientra nelle regole del gioco e queste “perdite” sono già preventivamente messe in bilancio quando i margini economici sono così elevati. È già successo in diverse occasioni negli Stati Uniti (nel 2009 a Ely Lilly 1,4 miliardi di dollari e a Pfizer 2,3 miliardi di dollari, nel 2011 alla Merck 1 miliardo di dollari, nel 2012 ad Abbot 1,5 miliardi di dollari e a Gsk 3 miliardi) e il recente caso in Italia di Novartis e Roche (multati di 180 milioni di euro dall’Antitrust per la presunta ipotesi di un accordo commerciale per favorire la vendita di un farmaco per gli occhi, il Lucentis, assai più caro di un identico prodotto di più basso costo) è solo l’ultimo esempio di questa logica.

Questo modo di procedere è dovuto alla progressiva perdita di identità originaria dell’industria farmaceutica avvenuta in questi ultimi decenni. A metà Ottocento la nascita di medicamenti per sintesi chimica (non più estratti di sostanze vegetali o minerali presenti in natura, ma composti “costruiti” artificialmente in laboratorio) aveva avviato il processo di industrializzazione della produzione farmaceutica, facendo del farmaco (specialità farmaceutica) un rimedio innovativo per le sue capacità curative e per la sua ampia e facile disponibilità, ma anche un prodotto in grado di determinare un profitto economico e, come tale, sottoposto alle rigide regole del mercato commerciale.
Queste nuove modalità di produzione farmaceutica rappresentavano un’adeguata risposta alle esigenze mediche ma rispondevano anche alle necessità emergenti dalla rapida trasformazione sociale. Gli imprenditori che avevano sviluppato queste fabbriche univano alla competenza tecnico-scientifica una sensibilità antropologico-sociale che li portava a produrre farmaci in grado di rispondere innanzitutto al bisogno di salute e non finalizzati esclusivamente a soddisfare istanze economiche. La loro “aggressività commerciale” era contenuta e bilanciata dall’“impegno etico” profuso in ambito sanitario e sociale. Valori e ideali oggi dimenticati dagli attuali manager delle moderne multinazionali industrie farmaceutiche.

L’attuale logica di esasperare al rialzo i prezzi dei farmaci non potrà essere sostenibile a lungo. Se continueranno ad arrivare sul mercato nei prossimi anni nuovi farmaci “miliardari” si renderà evidente la necessità di cambiare sistema. Bisogna che le industrie farmaceutiche prendano in considerazione l’opportunità di bilanciare la copertura dei costi di ricerca e di produzione con un “investimento etico” che consenta loro un guadagno adeguato, ma non esagerato.

Fornire dati precisi sulle modalità con cui l’industria determina il costo di un nuovo farmaco e rendere trasparente il processo di contrattazione del prezzo tra fabbricante e acquirente possono costituire due passaggi importanti verso la ricerca di un equilibrio che salvaguardi i legittimi diritti (commerciali e di mercato) dell’industria e le altrettanto giuste aspettative (sanitarie ed economiche) del pubblico.

Vittorio A. Sironi
(Fonte: «Avvenire»)

Indiani sikh nell’agro pontino costretti a drogarsi per lavorare 15 ore al giorno nei campi

16 maggio 2014

Un esercito di braccianti costretto a doparsi per lavorare. Centinaia di indiani sikh che ingoiano capsule d’oppio, per poter resistere 12 ore sui campi. «Per la raccolta delle zucchine stiamo piegati tutto il giorno in ginocchio – racconta K. Singh – troppo lavoro, troppo dolore alle mani. Prendiamo una piccola sostanza per non sentire dolore». È la nuova frontiera della schiavitù invisibile, a due passi da Roma, nell’Agro pontino.

GLI INDIANI DI LATINA. A denunciare lo sfruttamento è un dossier della onlus InMigrazione, che ha intervistato i braccianti indiani della zona agricola in provincia di Latina. Quella dell’Agro pontino è infatti la seconda comunità sikh d’Italia. La richiesta di forza-lavoro non qualificata da impiegare come braccianti nella coltivazione delle campagne ha incentivato la migrazione e convinto molti sikh a stabilizzarsi nella provincia di Latina. Secondo le stime della Cgil, la comunità arriva a contare ufficialmente circa 12mila persone, anche se è immaginabile un numero complessivo di 30mila presenze.

SCHIAVI E PADRONI. «Un esercito silenzioso di uomini piegati nei campi a lavorare a volte tutti i giorni senza pause. Raccolta manuale di ortaggi, semina e piantumazione per 12 ore al giorno filate sotto il sole; chiamano ‘padrone’ il datore di lavoro, subiscono vessazioni e violenze di ogni tipo. Quattro euro l’ora nel migliore dei casi, con pagamenti che ritardano mesi, e a volte mai erogati, violenze e percosse, incidenti sul lavoro mai denunciati e ‘allontanamenti’ facili per chi tenta di reagire», denuncia il dossier In Migrazione.

DROGHE E ANTIDOLORIFICI. «Queste persone, per sopravvivere ai ritmi massacranti e aumentare la produzione dei “padroni” italiani, sono costrette a doparsi con sostanze stupefacenti e antidolorifici che inibiscono la sensazione di fatica e stanchezza. Una forma di doping vissuto con vergogna e praticato di nascosto perché contrario alla loro religione e cultura, oltre a essere severamente contrastato dalla propria comunità. Eppure per alcuni lavoratori sikh si tratta dell’unico modo per sopravvivere ai ritmi di lavoro imposti, insostenibili senza quelle sostanze».

LA VERGOGNA DI SINGH. «Io mi vergogno troppo perché la mia religione dice di no a questo – racconta L. Singh – No buono per sikh. È vietato da nostra bibbia. Ma padrone dice sempre lavora e io senza sostanze non posso lavorare da 6 di mattino alle 18 con una pausa sola. Io so che no giusto ma io ho bisogno di soldi. Senza soldi io no vivo in Italia. Tu riusciresti? Padrone dice lavora e io prendo poco per lavorare, meglio non sentire dolore e fatica perché io devo lavorare. Tu mai lavorato in campagna per 15 ore al giorno?».

LO SPACCIO PARLA ITALIANO. Le sostanze dopanti sono vendute al dettaglio anche dagli indiani e alcuni di loro sono stati recentemente arrestati dalle forze dell’ordine. Dalle storie che InMigrazione ha raccolto emerge, però, come il traffico sia saldamente in mano a italiani variamente organizzati con collegamenti anche con l’estero. «Viene un italiano che porta tanta droga a gruppo di indiani che prendono per lavoro – conferma Singh – No buono così. Italiano prende soldi e indiano sta male. Già indiano non viene pagato dal padrone, poi dà anche soldi a italiano per droga».

(Fonte: «la Repubblica»)

Droghe e giovani: alchimisti ‘fai da te’

16 maggio 2014

La cannabis continua ad essere la sostanza illegale più utilizzata, seguita da cocaina e droghe sintetiche; l’eroina torna ‘di moda’ fra i giovani. L’uso di alcol è molto diffuso, anche se i nostri studenti bevono ‘meglio’ dei coetanei europei, sia per minori quantità di alcol puro ingerite, sia per una meno diffusa tendenza al ‘binge drinking’ e alle ubriacature. Sono alcuni tra i molti dati contenuti nel volume Consumi d’azzardo: alchimie, normalità e fragilità, a cura di Sabrina Molinaro, Roberta Potente e Arianna Cutilli della Sezione di epidemiologia e ricerca sui servizi sanitari dell’Istituto di fisiologia clinica del Consiglio nazionale delle ricerche (Ifc-Cnr) di Pisa, che illustra i principali risultati dello studio Espad®Italia 2013.

Il libro viene presentato lunedì 19 maggio 2014 dalle 11.30, in collaborazione con l’Asl Mi2, all’Istituto tecnico statale Argentia (Via Adda, 2) di Gorgorzola (Mi), al convegno «I comportamenti a rischio negli adolescenti: realtà, bisogni ed intervento territoriale». I dati verranno illustrati anche il 20 maggio a Roma, nell’ambito dell’evento «A chi compete la raccolta, l’interpretazione dei dati e lo studio della parte sommersa del ‘fenomeno droga?», organizzato dal Centro interdipartimentale di biostatistica e bioinformatica (Cibb) dell’Università di Roma Tor Vergata, nella sede centrale del Cnr (P.le Aldo Moro 7) e il 22 maggio durante «Il fenomeno delle dipendenze in Toscana» organizzato dall’Ars a Firenze.

«Tre studenti su quattro hanno fatto, almeno una volta nella vita, uso di droghe e/o abuso di alcol, psicofarmaci o gioco d’azzardo», spiega Sabrina Molinaro dell’Ifc-Cnr. «Fra questi, il 17% ha già un comportamento a rischio di dipendenza: una quota in crescita. Ma a destare preoccupazione non è solo l’incremento, bensì anche la tendenza a improvvisarsi ‘alchimisti’, mescolando sostanze e principi psicoattivi con effetti sconosciuti, stimolanti, allucinogeni, smart drugs, cannabis, eroina, cocaina, etc.».

Una buona parte degli studenti utilizza prevalentemente cannabis ma i poli-utilizzatori sono sempre di più. «Dei quasi 600 mila studenti italiani che nel 2013 hanno utilizzato sostanze psicoattive illegali, pari a un quarto di tutti gli studenti, l’83% ne ha usata una sola: nel corso dello scorso anno, quindi, i cosiddetti poli-consumatori sono stati circa 100mila, pari al 4,3% dell’intera popolazione studentesca. E un terzo di questi ne fa un uso consistente, moltiplicando i rischi associati all’assunzione».

La cannabis, come accennato, resta la sostanza illegale più utilizzata dagli studenti: sono 580mila quelli che nel 2013 l’hanno assunta almeno una volta, fra questi più di 75mila la consumano quasi quotidianamente mentre oltre il 60% ne ha fatto uso meno di 10 volte durante l’anno.

Per la cocaina, si registra un incremento dei consumi nell’Italia centrale e meridionale, mentre al nord sono stabili dal 2005. Fra i 65.000 studenti che l’hanno utilizzata nell’anno sono circa 20.000 i frequent users, tra i quali però si registra un progressivo aumento, dallo 0,3% negli anni 2000-2006 allo 0,8% dell’ultima rilevazione. A farne maggior uso sono i ragazzi, anche se le ragazze mostrano una precoce curiosità per questa sostanza, tanto che un terzo di chi l’ha provata tra le femmine aveva tra i 14-15 anni, contro il 20% dei maschi.

L’eroina, pur restando una delle sostanze meno utilizzate fra i giovanissimi, sembra tornata in auge: nel 2013 ne hanno fatto uso 28mila studenti, l’1,2% e 16.000 sono frequent users. È tra questi ultimi che si evidenzia un aumento negli anni: da 0,2% del 2002 a 0,7 del 2013.
Nel 2013, infine, oltre 65mila studenti (2,8%) hanno fatto uso di stimolanti e 60mila (2,5%) di allucinogeni. Quasi 20mila (0,8%) più di 10 volte al mese, con un andamento in costante crescita, specialmente per gli stimolanti, da 0,1% del 2004 a 0,8%.

La facilità di reperimento on-line caratterizza le principali novità di uso tra i ragazzi: 27mila (1,2%) studenti hanno fatto uso nel corso del 2013 di smart drugs, le droghe ‘furbe’, così chiamate proprio perché commercializzate come prodotti naturali, al confine tra legalità ed illegalità pur avendo effetti simili alle sostanze psicoattive illecite.

Inversione di tendenza per il gioco d’azzardo, ancora diffuso tra i minorenni nonostante i divieti. Nel 2013, oltre un milione di 15-19enni (44%) ha giocato somme di denaro e tra questi 152mila lo hanno fatto almeno 20 volte nell’anno. Anche qui l’on-line facilita le cose: il 9% degli studenti ha puntato tramite computer (67%) o smartphone (24%).
«Dopo un andamento di crescita fino al 2008, negli ultimi 5 anni si è registrato un calo di interesse, segno che campagne informative e interventi di prevenzione hanno sortito i loro effetti», conclude la ricercatrice Ifc-Cnr. «A conferma della necessità di politiche di educazione e sensibilizzazione, capaci di parlare ai giovani delle sempre nuove tendenze, dando loro consapevolezza dei rischi ad esse connessi».

(Fonte: «CNR»)

Dipendenza dai social media: attenzione a come se ne parla in Italia

18 maggio 2014

Sul tema della dipendenza dai social media, dagli smartphone e dai tablet sono nati ben due video virali negli ultimi mesi: quello della Coca-Cola, online dal 19 febbraio, che si intitola “Coca-Cola Social Media Guard”, e quello realizzato dallo scrittore e regista inglese Gary Turk, che sta su YouTube dal 25 aprile, si intitola “Look up” (“Guarda insù”) e ha già ottenuto oltre 38 milioni di visualizzazioni. Purtroppo in Italia le notizie su questi due virali sono state spesso accompagnate dai soliti toni demonizzanti che sono tipici dell’atteggiamento main stream nei confronti della rete, con impliciti del tipo: i social media nuocciono alla salute, che fine faranno i nostri figli, quegli aggeggi ti rovinano la vita, ah i bei tempi andati, e così via.

Faccio presente che il video di Coca-Cola nasce negli Stati Uniti, in cui il 78,6% della popolazione accede a Internet, mentre “Look up” nasce nel Regno Unito, che può vantare l’83,6% di accessi alla rete (dati di Internet World Stats). Ricordo che in Italia, invece, solo il 58,4% di persone accedono alla rete: siamo sotto la media europea (63,2%), sotto la Spagna (67,2%), ancor più sotto la Francia (79,6%) e la Germania (83%), e molto al di sotto della Svezia (92,7%). Cioè siamo messi più o meno come il Portogallo (55,2%), la Serbia (56,4%), la Macedonia (56,7%), la Grecia (53%), e la cosa non ci deve stupire, visto che la digitalizzazione va di pari passo con lo sviluppo economico.

Non sto negando, insomma, che dall’uso eccessivo dei sociali media e di internet possano nascere problemi per le persone e le loro relazioni. Sto dicendo che non è il caso di parlarne in termini apocalittici e sbrigativi in un Paese come l’Italia, dove la diffusione di internet è così scarsa e la cultura digitale così bassa. Quando saremo perlomeno allineati agli Stati Uniti e all’Inghilterra, nei dati di accesso a Internet, potremo preoccuparcene come se ne preoccupano loro: è un problema di educazione ai media e di cultura digitale, ma se da noi siamo ancora messi così male nell’accesso alla rete, di che parliamo?

Giovanna Cosenza
(Fonte: «Wired»)
(Approfondimenti: http://internetworldstats.com/stats.htm)

CODICE/1. Da Torino il nuovo Codice deontologico dei medici. Torna la parola “paziente” ma solo quando ci si riferisce alle cure mediche

19 maggio 2014

In attesa di conoscere nel dettaglio il nuovo testo, sul quale i funzionari della Fnomceo lavoreranno fino a giovedì 22 maggio per ottimizzarne l’editing finale, la Fnomceo dà i numeri della due giorni di Torino che ha visto confrontarsi tutti i presidenti provinciali degli Ordini dei medici per questo significativo aggiornamento del loro Codice di deontologia medica, la cui ultima versione risale ormai al 2006.

Il “Codice di Torino” – informa la nota della Fnomceo – nasce dopo un’amplissima consultazione, estesa questa volta anche a soggetti esterni – Bioeticisti, Giuristi, Società Scientifiche, Organizzazioni Sindacali, Associazionismo Sociale – e con un’attivissima partecipazione dei presidenti d’Ordine e Cao alla definizione del testo.

«Ringrazio le centinaia di colleghi Medici e Odontoiatri – è stato il primo commento del Presidente della Fnomceo, Amedeo Bianco –, ringrazio le Personalità di cultura impegnate nelle Istituzioni pubbliche e private, nella vita civile e sociale, che ci hanno accompagnato in questo cammino: le ringrazio per le critiche e per i consensi, quali perfetta testimonianza di una complessità delle questioni trattate, amplificata da una profonda crisi di sistemi e di valori, che non può e non deve ridursi a un pensiero unico. Resta il larghissimo consenso su una sintesi, credo ampia e qualificata, che certamente non oscura quanto di diverso è stato pensato e proposto. Siamo sempre in cammino».

E proprio questa partecipazione ha fatto sì che i più importanti articoli – il 3 e 13 che definiscono le Competenze del medico, i nuovi articoli 77 sulla Medicina Militare, 78 sulla Cybermedicine, 79 sulla partecipazione all’Organizzazione sanitaria – siano stati approvati con percentuali di “sì” superiori al novanta per cento. Sull’articolo 67, riguardante la Lotta all’abusivismo, si è raggiunta l’unanimità.

Ma quali sono le principali novità?
Quattro gli articoli inediti, ciascuno corrispondente a una questione bioetica mai affrontata prima: la Medicina Potenziativa (Art. 76) – volta non a curare ma a migliorare lo stato di benessere, sino a superare gli stessi limiti della natura – la Medicina Militare, articolo condiviso con il ministero della Difesa, l’applicazione Tecnologie informatiche alla Sanità, la partecipazione del Medico alle Organizzazioni sanitarie.

Ma anche un occhio più attento all’Ambiente, alla prevenzione del Rischio clinico e alla Sicurezza delle cure, al controllo del Dolore e alle Cure palliative, alle Competenze professionali, alla Lotta all’abusivismo, al Consenso Informato.

Torna, in alcuni articoli, il termine “paziente”, in una prima versione del testo sostituito sempre da “persona assistita”. E ciò per dare coerenza al cambio di paradigma della Medicina moderna, che passa da esclusiva azione di cura della Malattia, a quella più vasta di promozione e tutela della Salute. La scelta dell’Assemblea specifica ancor meglio questa vera e propria “rivoluzione copernicana”, mantenendo la parola “paziente” quando si parla di “Cure”, e introducendo “Persona assistita” negli articoli di più ampia accezione.

(Fonte: «Quotidiano Sanità»)

Sostenibilità Ssn. Ecco il documento conclusivo dell’indagine delle commissioni Bilancio e Affari Sociali

19 maggio 2014

Rafforzare il ruolo dello Stato centrale per garantire un’erogazione dei Lea omogenea su tutto il territorio nazionale, lasciando alle Regioni esclusivamente un ruolo di enti erogatori. Superare l’attuale visione ospedalocentrica in favore di un rafforzamento della rete territoriale che ci faccia trovare pronti alla sfida della cronicità, liberando i nosocomi di quel carico accessorio che, spesso in modo inappropriato, ne impegna le strutture in un’attività a prevalente vocazione ambulatoriale. Istituire meccanismi che premino le Regioni e le Aziende virtuose. Puntare forte su fondi integrativi e polizze assicurative, con più defiscalizzazione. Al posto dei ticket, adottare un nuovo sistema con la fissazione di una franchigia, calcolata in percentuale del reddito. Questi i punti principali del documento redatto dalle commissioni Bilancio e Affari Sociali della Camera a seguito dell’indagine conoscitiva sulla sostenibilità del Ssn. Il documento, non ancora definitivo, traccia le linee principali di ciò che verrà discusso e approvato entro la fine del mese.

Vediamo cosa dice nel dettaglio l’indagine.
Si spiega come sia emerso innanzitutto un quadro del sistema sanitario italiano caratterizzato da luci e ombre. Tra gli aspetti positivi, da parte della quasi totalità degli audits, il valore insostituibile del Servizio sanitario nazionale, quale strumento indispensabile per la tutela della salute; dall’altro, il fatto che gli oneri derivanti dal sistema sanitario non sono superiori a quelli di altri Paesi, ma anzi si collocano al di sotto della media internazionale e europea. Tra gli aspetti negativi segnalati, invece, in primo luogo la preoccupazione che il protrarsi della crisi finanziaria e la conseguente sensibile riduzione dei finanziamenti destinati al Ssn riducano la qualità dei servizi e la loro capacità di rispondere ai bisogni sanitari della popolazione, in secondo luogo il forte gap esistente tra Regioni in Piano di rientro e non, ma anche più in generale tra le Regioni meridionali e il resto del Paese, visti i sensibili ritardi infrastrutturali da cui derivano inaccettabili differenze nell’erogazione dei livelli essenziali di assistenza, che mettono a rischio l’universalità del sistema.

In tal senso, in tema di riparto costituzionale delle competenze tra lo Stato e le Regioni, «è sembrata necessaria un’azione di coordinamento a livello centrale più forte e mirata di quella prevista e attuata con la riforma del Titolo V, idonea a garantire un’erogazione dei Lea omogenea su tutto il territorio nazionale, in modo da eliminare le differenze regionali e infraregionali attualmente esistenti».

Si prospetta quindi la possibilità introdurre un modello di governance in cui la regolamentazione svolta a livello centrale in termini di definizione degli standard, controllo e poteri di intervento e rettifica sia nettamente distinta dall’erogazione delle prestazioni. In tale modello, le Regioni dovrebbero assumere il ruolo di enti erogatori, con un minore grado di responsabilità decisionale rispetto a quello attuale, mentre a livello centrale dovrebbe essere effettuata la valutazione dell’efficace erogazione dei Lea che dovrebbe pesare quanto quella relativa alla correttezza dei bilanci economici. In altri termini, il ruolo di supervisore della spesa sanitaria svolto dal Ministero dell’economia e delle finanze, soprattutto nei confronti delle regioni sottoposte a piani di rientro, dovrebbe essere bilanciato da un analogo ruolo di valutazione, di indirizzo e, in caso di necessità, sostitutivo, svolto dal Ministero della salute, a tutela dell’effettivo rispetto dei livelli essenziali di assistenza.

Per quanto poi concerne l’organizzazione territoriale del Servizio sanitario, si spiega come l’assistenza di domani non può essere più progettata per una popolazione di “pazienti acuti”, ma sempre più dovrà prestare attenzione all’attività di presa in carico nel territorio del “paziente cronico”. Ne deriva l’urgenza del superamento delle logiche ospedalo-centriche a favore della domiciliarizzazione di strutture intermedie, vale a dire luoghi socio-sanitari di prossimità dotate di una piccola equipe multiprofessionale, che consenta all’ospedale di divenire il luogo dell’intensività assistenziale, e non più, come spesso avviene ora, la struttura di intervento generalista.

Si tratta di un’evoluzione che, per un verso, sembra consentire, nel medio termine, un più efficiente utilizzo delle risorse finanziarie disponibili, ma che nell’immediato richiede un investimento di adeguate risorse finanziarie. Proprio per questo motivo – si suggerisce nel documento – si potrebbe, ad esempio, trarre risorse dalla razionalizzazione-riduzione della spesa ospedaliera, da investire contestualmente nello sviluppo della rete territoriale. Anche la presenza di una rete territoriale di strutture accreditate ben funzionante, «aiuterebbe le strutture ospedaliere a concentrare la propria offerta nelle prestazioni ad alta complessità, liberandole di quel carico accessorio che, spesso in modo inappropriato, ne impegna le strutture in un’attività a prevalente vocazione ambulatoriale».

L’effettiva realizzazione di un sistema integrato ospedale-territorio, diffuso uniformemente su tutto il territorio nazionale, potrebbe rappresentare una  «condizione indispensabile per la riorganizzazione di importanti funzioni sanitarie con rilevanti riduzioni di spesa».

Non mancano meccanismi premiali per chi lavora bene. La finalità da perseguire – si scrive infatti – è, in sostanza, quella di ristabilire un meccanismo che premi le Aziende virtuose e stigmatizzi i comportamenti non corretti o comunque inefficienti. «È quindi necessario premiare la qualità, applicando regole che valorizzino i sistemi sanitari regionali, le aziende sanitarie e ospedaliere e gli operatori, anche privati, migliori, promuovendo una virtuosa competizione fra erogatori che induca gli stessi – sia pubblici che privati – ad adeguarsi ai più rigorosi standard di qualità».

Viene toccato anche il sistema dei “costi standard” e delle “regioni benchmark”. Qui si spiega che tale sistema potrebbe essere assolutamente virtuoso in linea di principio, ma contestualmente «rischia di restare in larga misura una mera enunciazione se non sarà integrato con la definizione di indicatori appropriati, specifici e coerenti con l’obiettivo di consentire la crescita del livello assistenziale medio delle regioni a maggior svantaggio strutturale».

Nel testo si segnala poi come l’assenza dei Liveas (livelli essenziali di assistenza socio-assistenziale) rappresenti una mancanza importante ai fini di una completa integrazione socio-sanitaria delle prestazioni nei territori e per una più puntuale definizione e ripartizione dei costi tra sanità e sociale. In questo quadro si colloca anche il tema del finanziamento della non autosufficienza che, attualmente, in mancanza di un quadro normativo dedicato, risulta frammentato su diversi livelli di Governo.

Viene inoltre indicato come l’efficienza del sistema sanitario potrebbe essere altresì  incrementata anche attraverso maggiori investimenti in prevenzione primaria e in politiche, anche non strettamente sanitarie, in grado di diffondere corretti stili di vita.
Nel corso dell’indagine conoscitiva è stato riscontrato come l’innalzamento dei ticket sulla specialistica piuttosto che ridurre il numero delle prestazioni le abbia invece trasferite sul settore privato, posto che la compartecipazione per alcune prestazioni è risultata addirittura più onerosa del loro stesso prezzo, facendo così venir meno il gettito atteso. Al fine di risolvere tale problema, è stata quindi proposta la fissazione di una franchigia, calcolata in percentuale del reddito, fino al concorrere della quale si dovrà pagare interamente secondo le attuali tariffe ogni prestazione sanitaria fruita nel corso dell’anno; tale franchigia potrebbe anche essere progressiva, gravando di meno sui redditi bassi e di più su quelli elevati. Superata la franchigia le prestazioni sarebbero invece gratuite. In tal modo verrebbe conservato un sistema di co-payment in grado di tutelare l’appropriatezza delle prestazioni sanitarie, senza determinare alcun limite agli accessi più costosi o più frequenti. La corretta determinazione del reddito potrebbe essere effettuata applicando il sistema Isee.

Infine, si punta ad incentivare i fondi integrativi e le polizze assicurative, attraverso una maggiore defiscalizzazione.

Giovanni Rodriquez
(Fonte: «Quotidiano Sanità»)
(Approfondimenti: http://www.quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=3589236.pdf)

Contraffazione farmaceutica. Un mercato da 50 miliardi l’anno nel mondo. Il convegno di Agrigento

19 maggio 2014

Il 7% dei medicinali è contraffatto. Un mercato che nel mondo vale 50 miliardi di euro l’anno. Costituisce il 30-50% del mercato totale in Africa, l’1% in Europa. Lo 0,1% in Italia, anche se la stima è destinata a crescere «a causa dell’importazione di principi attivi da altri Paesi». Dal 2012 ad oggi i Nas hanno, infatti, sequestrato 7,5 tonnellate di materie prime farmacologicamente attive provenienti illegalmente da Giappone, Cina, India, Messico e Taiwan, per un valore di 2 milioni di euro.Sono questi i dati presentati dal Generale Cosimo Piccinno, Comandante dei Nas nel corso del Convegno nazionale «Lotta alla contrattazione e appropriatezza farmaceutica», organizzato ad Agrigento dall’Ordine Provinciale dei Farmacisti e dalla locale Associazione dei Titolari di Farmacia, Atifar-Federfarma Agrigento, nell’ambito del programma di cooperazione definito dall’Agenzia Italiana del Farmaco.

Un fenomeno in Italia ancora sotto controllo, ma da non sottovalutare. Per questo Piccinno ha proposto di istituire una giornata di informazione nelle scuole per sensibilizzare i giovani sui temi della sicurezza farmaceutica e alimentare. Una proposta accolta con favore dal Senatore Andrea Mandelli, presidente Fofi. «In Italia il fenomeno della contraffazione è sotto controllo – ha detto Mandelli – ma è necessario non abbassare la guardia. L’informazione è lo strumento più importante per combattere il fenomeno».
Il Presidente della Fofi ha ricordato uno studio presentato da una casa farmaceutica secondo cui «le organizzazioni criminali per ogni 1.000 dollari investiti, ne guadagnano 20 mila nel mercato dell’eroina e ben 400 mila in quello dei medicinali contraffatti».

Internet, è il canale maggiormente utilizzato per il mercato dei farmaci illegali: il 95% secondo i dati dei Nas presentati dal Comandante Piccinno. I farmaci contraffatti maggiormente presenti su internet e venduti in Italia sono i life style products, psicofarmaci e molecole per la disfunzione erettile, ma ultimamente anche antitumorali. Una stima confermata da Simona Vicari, Sottosegretario di Stato al Ministero dello Sviluppo Economico: «Il traffico dei farmaci contraffatti ha superato quello della cocaina. Secondo le stime dell’Oms, i farmaci contraffatti rappresentano a livello mondiale circa il 10 per cento del totale e riguardano sia farmaci generici che di marca, coinvolge sia Paesi in via di sviluppo che Paesi industrializzati e sono causa di centinaia di migliaia di decessi all’anno. La rete di distribuzione farmaceutica italiana – ha aggiunto – è considerata, nel panorama internazionale, tra le più sicure. Sia per il sistema di tracciabilità del farmaco e dei bollini ottici “letti” ad ogni passaggio della catena distributiva, sia per la presenza capillare di farmacie e di punti vendita autorizzati sul territorio, che limitano il ricorso all’e-commerce solo ad alcune tipologie ben definite di medicinali».

Sui rischi per la salute dell’utilizzo di questi farmaci si è soffermata Maria Cristina Gaudiano, Dipartimento del Farmaco, Istituto Superiore di Sanità: «Nei medicinali contraffatti, non essendo prodotti secondo le norme, il principio attivo può non essere presente, può essere diverso o di qualità scadente. I maggiori pericoli sono l’inefficacia, a causa della mancanza o del sottodosaggio del principio attivo, la tossicità, a causa di sostanze dannose, o, in casi di sovradosaggio, reazioni avverse che possono condurre alla morte, caso che per fortuna non si è mai verificato in Italia».

L’appropriatezza terapeutica è stato poi tra i temi affrontati dai farmacisti intervenuti al convegno: «Il futuro della professione del farmacista – ha aggiunto Maurizio Pace, Presidente dell’Ordine dei Farmacisti della Provincia di Agrigento – è legato alla qualità del servizio che offre e al risparmio che assicura al Servizio sanitario nazionale».
«Grazie alla Legge 69/2009, la farmacia – ha spiegato Claudio Miceli, Presidente Atifar-Federfarma Agrigento – non si occupa solo di dispensare farmaci, ma attua servizi, a partire dalla presa in carico dell’assistito per il controllo, in collaborazione con il medico, dell’appropriatezza prescrittiva. In Sicilia, a marzo, è iniziata la “distribuzione per conto” (che riguarda i farmaci inclusi nel PHT) ed è in corso la definizione di un accordo con l’Assessorato alla Salute per la distribuzione dei presidi per i diabetici».
«Ogni giorno – ha ricordato Anna Rosa Racca, Presidente nazionale Federfarma – entrano nelle farmacie italiane 3 milioni di cittadini. La domanda di salute, in una popolazione che invecchia, si fa sempre più complessa, tanto che 7,5 milioni di persone assumono oltre 9 farmaci al giorno».

L’aderenza alle terapie, però, si ferma al 41%. «Solo il 16% dei pazienti – ha spiegato Andrea Manfrin, Università del Kent, riferendosi a un dato inglese sovrapponibile a quello stimato per l’Italia – segue le indicazioni del medico dopo 10 giorni dall’inizio alla terapia».
Proprio per migliorare l’aderenza del paziente aumentando l’efficacia delle cure e riducendo i costi connessi all’uso improprio del medicinale, la Fofi ha avviato il progetto Mur, Medicine Use Review, che finora ha coinvolto 360 farmacie italiane e 1.800 pazienti.

Marco Malagutti
(Fonte: «Farmacista 33»)

Continua emorragia di laureati, per i giovani Fnomceo è “quasi allarme”

20 maggio 2014

Non è ancora allarme emigrazione medica in Italia ma poco ci manca. L’Osservatorio Giovani Fnomceo riunito a Torino ha esaminato i dati di una rilevazione di cinque anni (2009-2013): su 6-7 mila laureati annui il 2% – cioè 700 unità – è emigrato per lavorare in altri Paesi, in genere europei. I dati si evincono dalle cancellazioni dagli Albi con richiesta d’andare all’estero, dato probabilmente sottostimato (molti studenti pur trasferendosi mantengono l’iscrizione in Italia). Spesso si tratta di abilitati che non hanno aspettato di iscriversi alla specialità, consapevoli che i posti erano pochi, e saranno sempre meno.

«Quest’anno in Italia c’è una disponibilità di 3.500 contratti, la metà dei laureati. In questo contesto – racconta Domenico Montemurro, responsabile dell’Osservatorio Giovani Fnomceo con Giulia Zonno- si registra una sentenza della Corte Costituzionale, la 126 del 7 maggio scorso, secondo cui ogni Regione può chiedere che i contratti specialistici da essa promossi, una volta trasformati in medici specialisti, non escano dal proprio territorio». Finora i contratti di formazione, in gran parte “nazionali” e fissati da un accordo tra ministeri di Salute e Università, sono sempre stati spendibili su tutto il territorio italiano. «D’ora in poi invece i soldi investiti dalle Regioni per contratti aggiuntivi là dovranno restare se la Regione lo chiede, e non si sa per quanti anni il medico non potrà trasferirsi. La Consulta dà l’ok alla legge 9 del Veneto che ha previsto 92 contratti di formazione specialistica regionali in tre anni da affiancare ai 400 previsti dai Ministeri in quella Regione. La legge regionale, per garantire uno sbocco ai laureati nelle facoltà venete, ha stanziato 27 milioni e potrà prevedere che una volta specializzati i medici continuino a lavorare in Veneto». La Consulta afferma che l’obbligo di restare in Regione a lavorare non modifica lo schema tipo del contratto statale (“anche se la Regione dovrà adeguare le clausole”). Montemurro ricorda peraltro che per l”anno accademico 2013/14 sarà istituita una graduatoria nazionale degli ammessi alle scuole di specialità.

«Sicuramente dopo questa sentenza, le modalità del concorso nazionale prossimo per le scuole di specialità, al vaglio del Consiglio di Stato, andranno riviste», considera Montemurro. E aggiunge: «Come saranno armonizzati in una graduatoria nazionale i contratti regionali, visto che molte scuole di specialità sono consorziate con altre Regioni? Quali allora i criteri per l’accesso nazionale? Le fughe all’estero potranno essere rallentate dai contratti regionali? Domande che trovano risposte in una corretta programmazione».

Mauro Miserendino
(Fonte: «Doctor 33»)

Il dilemma Sla: scoperto il gene, come parlarne?

21 maggio 2014

Poche settimane fa è stata annunciata un’importante scoperta per chi è affetto da sclerosi laterale amiotrofica, la Sla: l’identificazione del gene «Matr3» da parte del team dell’Università degli Studi di Torino diretto da Adriano Chiò, in collaborazione con il consorzio Italsgen, che include 16 centri italiani di ricerca, e alcuni studiosi stranieri. Anche se la genetica della Sla appare sempre più complessa, questa scoperta chiarisce uno dei meccanismi fondamentali alla base del processo degenerativo: l’alterazione del metabolismo dell’Rna messaggero, una molecola che permette la traduzione del codice genetico nei costituenti fondamentali della cellula, cioè le proteine. Le nuove scoperte, tuttavia, costringono i clinici ad avventurarsi su un nuovo e accidentato terreno, quello della comunicazione ai pazienti e alle loro famiglie del rischio genetico della malattia.

Accanto all’intenso lavoro per identificare nuovi geni ci si è resi conto della necessità di discutere e stilare una serie di linee-guida per i neurologi clinici che devono affrontare nuove conoscenze genetiche e decidere se, come e quando parlarne con i pazienti ammalati di Sla e i loro familiari. Le linee-guida, disponibili online dal luglio 2013 e accolte favorevolmente nel mondo anglo-americano, sono state pubblicate sul «Journal of Neurology, Neurosurgery and Psychiatry» insieme con due editoriali che ne sottolineano la necessità in questa fase di «rivoluzione genetica», che richiede una particolare attenzione dei medici alla comunicazione. La stesura delle linee-guida è nata essa stessa dalla comunicazione aperta e onesta tra oltre 20 esperti di neurologia, genetica, psicologia e bioetica in due giorni di intensi scambi di esperienze e opinioni. Ma cosa rende questo tema tanto complesso e controverso rispetto a ogni altra comunicazione in medicina clinica?

Come ha rivelato il caso di Angelina Jolie, portatrice di una mutazione del gene «Brca» che espone ad alto rischio di tumori al seno e all’ovaia, essere a conoscenza di una predisposizione genetica induce in ciascuno di noi profondi cambiamenti per tutta la vita: incertezza e preoccupazione sul futuro proprio e dei consanguinei, disagio psicologico e relazionale, medicalizzazione dell’esistenza, scandita da test, visite, eventuali misure preventive o terapeutiche, oltre a potenziali ripercussioni sociali, fino alla discriminazione.

L’informazione genetica, infatti, ci fornisce un dato indelebile su qualcosa che potrebbe accadere nel futuro, senza certezze riguardo al fatto se, quando e con quale gravità svilupperemo mai la malattia che ha già causato sofferenza o morte tra i nostri familiari. Ognuno di noi la può percepire come strumento di maggiore controllo sulla propria salute e sulla vita futura oppure come una forma inquietante di predestinazione. Tutto questo è ancora più rilevante in malattie inevitabilmente progressive, come la Sla, per la quale l’informazione genetica è disponibile prima che ci siano efficaci misure preventive, di monitoraggio precoce e terapeutiche.

L’informazione genetica, poi, non riguarda mai solo chi si sottopone al test genetico, ma i consanguinei che potrebbero un giorno ammalarsi della stessa malattia, creando particolari responsabilità di comunicazione verso i familiari. Eppure si possono anche provare delle esitazioni nel rivelare il risultato di un test genetico per salvaguardare la privacy, proteggere i propri cari da brutte notizie o perché non ci si frequenta tra familiari. Secondo la deontologia internazionale, il medico deve riuscire a creare un dialogo progressivo, nel tempo, così da spiegare al paziente le implicazioni familiari della mutazione genetica, ma non può e non deve mai scavalcare la volontà e il diritto alla privacy del paziente.

Quasi tutti i pazienti, dopo averci riflettuto, informano i loro familiari. Ma se loro, invece, non volessero sapere nulla dei propri geni? O ancora: se il medico, avendo in cura sia il paziente sia altri familiari, ritenesse di fornire loro l’informazione genetica per dovere professionale? Su questo punto la deontologia non è chiara. Le decisioni sulla comunicazione in genetica sono tra le più laceranti, soprattutto quando non esistono ancora terapie efficaci.

Perché, allora, comunicare a pazienti e familiari la presenza di un “gene della Sla”? Nelle nostre linee-guida proponiamo di farlo per rispettare intelligenza, dignità e diritto alla scelta di ogni individuo e per offrire a tutti un giusto contatto con il mondo della ricerca, che a sua volta si impegna nella diagnostica, prevenzione e terapia. Ma anche perché attraverso la comunicazione costante è possibile demistificare la diversità genetica e fare sì che non si trasformi in svantaggio sociale.

La maggior parte delle malattie ha origine dall’interazione tra geni e ambiente e questo noi possiamo e dobbiamo controllarlo. I geni non definiscono chi siamo in sentimenti, emozioni, esperienze, reazioni e scelte. Siamo tutti diversi e unici: per questo ci apprezziamo e sosteniamo a vicenda attraverso valori come rispetto, solidarietà e comunicazione.
Come coautore delle linee-guida con Chiò, infine, ho la convinzione che ogni medico debba prendersi cura dei pazienti e dei familiari in ogni aspetto: dalla ricerca su geni e farmaci all’accompagnamento medico e psico-sociale fino alla comunicazione.

Antonella Surbone – New York University
(Fonte: «TuttoScienze-La Stampa»)

Droga e off label. Pubblicata in Gazzetta Ufficiale la nuova legge

21 maggio 2014

Entra in vigore il 21 maggio la legge n. 79 del 16 maggio 2014, su Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 20 marzo 2014, n. 36, recante disposizioni urgenti in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, nonché di impiego di medicinali meno onerosi da parte del Servizio sanitario nazionale, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 115 del 20 maggio 2014.

Ricordiamo come, sul fronte droghe, il provvedimento si sia reso necessario dopo la bocciatura da parte della Corte Costituzionale della legge Fini-Giovanardi. Le prime quattro tabelle contengono le sostanze stupefacenti sottoposte a controllo internazionale e nazionale e la quinta elenca, invece, i medicinali a base di sostanze attive stupefacenti o psicotrope di corrente impiego terapeutico a uso umano o veterinario. Resta ferma la semplificazione sulla prescrizione e dispensazione dei farmaci contro il dolore e per le cure palliative, prevista dall’articolo 10 della legge 38/2010.

La cannabis viene classificata tra le sostanze leggere, in tabella II. Sono previste pene più lievi per il cosiddetto piccolo spaccio e viene ripristinata la possibilità per il giudice di applicare i lavori di pubblica utilità al posto del carcere ai tossicodipendenti condannati per fatti di lieve entità. Depenalizzato l’uso personale di sostanze stupefacenti. Le sanzioni amministrative sono differenziate per droghe leggere (da uno a 3 mesi) e pesanti (da 2 mesi a un anno).

Chiunque poi intenda coltivare, produrre, fabbricare, impiegare, importare, esportare, ricevere per transito, commerciare a qualsiasi titolo o comunque detenere per il commercio sostanze stupefacenti o psicotrope comprese nelle tabelle, dovrà munirsi dell’autorizzazione del ministero della Salute. Con una modifica introdotta dalle Commissioni si prevede che tali autorizzazioni non possono essere date a soggetti che abbiano ricevuto condanne o sanzioni per illeciti reati connessi agli stupefacenti. Nell’ambito del divieti di coltivazione delle piante comprese nelle tabelle I e II, è fatta salva la coltivazione di canapa esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali consentiti dalla normativa Ue.

Rivista la normativa sui “buoni acquisto”, con l’abrogazione dell’articolo 39 del Testo unico. Inoltre la prescrizione di medicinali compresi nella tabella dei medicinali sezione A per il trattamento degli stati di tossicodipendenza da oppiacei deve essere effettuata all’interno del piano terapeutico individualizzato, secondo modalità stabilite con decreto del ministero della Salute. Nel caso un paziente in corso di trattamento con sostanze psicotrope si rechi all’estero, il medico provvederà alla redazione della certificazione di possesso dei medicinali stupefacenti o psicotropi compresi nella tabella dei medicinali da esibire alla dogana all’uscita dal territorio nazionale.

Per quanto invece riguarda i farmaci off label, il governo è intervenuto dopo la deliberazione dell’Antitrust che ha sanzionato le aziende farmaceutiche Roche e Novartis per un cartello che ha condizionato le vendite dei farmaci Avastin (offlabel) e Lucentis (onlabel) destinati alla cura oculare. La norma favorisce e promuove l’uso offlabel di un farmaco per una indicazione terapeutica diversa da quella autorizzata al momento della sua commercializzazione. Nel corso dell’esame in sede referente presso le commissioni riunite II e XII il testo originario dell’ex articolo 3 è stato interamente sostituito da una disposizione che favorisce l’inserimento nella Lista 648 dei farmaci offlabel sulla base di evidenze scientifiche, secondo parametri di economicità ed appropriatezza, e previo parere dell’Aifa.
In particolare, si prevede che parte delle risorse del Fondo istituito presso l’Aifa grazie ad un contributo delle aziende farmaceutiche pari al 5% delle spese promozionali autocertificate, potranno essere destinate, anche su richiesta delle Regioni e Società scientifiche, sentito il Consiglio superiore di Sanità, alla sperimentazione clinica su medicinali per indicazioni terapeutiche diverse da quelle indicate nell’autorizzazione all’immissione in commercio.
Cancellata la parte del decreto che affidava ad Aifa l’avvio di trial clinici, nel testo si spiega che anche in presenza di una valida alternativa terapeutica nell’ambito dei farmaci autorizzati, è possibile inserire nella Lista 648 (off label) i farmaci che possono essere utilizzati per una indicazione terapeutica diversa da quella autorizzata purché tale indicazione sia nota e conforme a ricerche condotte nell’ambito della comunità medico-scientifica nazionale e internazionale, secondo parametri di economicità ed appropriatezza. L’inserimento può avvenire solo previa valutazione dell’Aifa, con conseguente erogazione a carico del Servizio sanitario nazionale. In caso di inserimento di un medicinale offlabel nella Lista 648, l’Aifa dovrà attivare idonei strumenti di monitoraggio a tutela della sicurezza dei pazienti ed assume tempestivamente le necessarie determinazioni.

(Fonte: «Quotidiano Sanità»)
(Approfondimenti: http://www.quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=7642050.pdf)

Papa Francesco, udienza: «Se distruggiamo il creato, il creato ci distruggerà»

21 maggio 2014

“Se distruggiamo il creato, il creato ci distruggerà”. Così il Papa, fuori testo, ha spiegato la necessità, per l’uomo, di “custodire” il creato, che è un dono di Dio e non una nostra “proprietà”. Al termine della catechesi, ha raccontato un aneddoto personale. “Una volta ero in campagna – ha detto ai fedeli – e ho sentito un detto di una persona semplice, alla quale piacevano tanto i fiori, e lui custodiva questi fiori. Mi ha detto: ‘’Dobbiamo custodire le cose belle che Dio ci ha dato. Il creato è per noi, perché ne approfittiamo bene, non per sfruttarlo, ma per custodirlo. Dio perdona sempre, noi, uomini e dome, perdoniamo alcune volte, ma il creato non perdona mai, e se tu non lo custodisci ti distruggerà’”. “Questo ci deve far pensare”, il commento del Papa sempre a braccio: “Chiediamo al Signore il dono della scienza per capire bene che il creato è il dono più bello di Dio”.
“Il dono della scienza ci aiuta a non cadere in alcuni atteggiamenti eccessivi o sbagliati”, ha spiegato il Papa, il primo dei quali “è costituito dal rischio di considerarci padroni del creato”. “Il creato non è una proprietà, di cui possiamo spadroneggiare a nostro piacimento – ha ammonito il Santo Padre – né, tanto meno, è una proprietà solo di alcuni, di pochi: il creato è un dono, è un dono meraviglioso che Dio ci ha dato, perché ne abbiamo cura e lo utilizziamo a beneficio di tutti, sempre con grande rispetto e gratitudine”. Il secondo atteggiamento sbagliato, per il Papa, “è rappresentato dalla tentazione di fermarci alle creature, come se queste possano offrire la risposta a tutte le nostre attese”. “Ma vorrei soffermarmi sul primo atteggiamento sbagliato”, ha proseguito il Papa: “Bisogna custodire il creato, non padroneggiarci del creato. Il creato è il regalo di Dio a noi. Noi siamo i custodi del creato, ma quando noi sfruttiamo il creato, distruggiamo il segno dell’amore di Dio”. “Distruggere il creato è dire a Dio: ‘Non mi piace’”, ha esclamato il Pontefice: “Che cosa piace a te? Me stesso, e quello è il peccato”. “Custodire il creato è custodire il dono di Dio”; ha ribadito il Papa sempre a braccio, è dire “non distruggerò mai il creato”.

“Quando i nostri occhi sono illuminati dallo Spirito, si aprono alla contemplazione di Dio, nella bellezza della natura e nella grandiosità del cosmo, e ci portano a scoprire come ogni cosa ci parla di Lui e del suo amore”. Con queste parole, all’inizio della catechesi, il Papa ha spiegato come la meraviglia del creato “suscita in noi grande stupore e un profondo senso di gratitudine”. “È la sensazione che proviamo anche quando ammiriamo un’opera d’arte o qualsiasi meraviglia che sia frutto dell’ingegno e della creatività dell’uomo”: di fronte a tutto questo, “lo Spirito ci porta a lodare il Signore dal profondo del nostro cuore e a riconoscere, in tutto ciò che abbiamo e siamo, un dono inestimabile di Dio e un segno del suo infinito amore per noi”. “Tutto questo – ha detto il Papa – è motivo di serenità e di pace e fa del cristiano un testimone gioioso di Dio, sulla scia di san Francesco d’Assisi e di tanti santi che hanno saputo lodare e cantare il suo amore attraverso la contemplazione del creato”.

(Fonte: «Sir»)

Bambini e smartphone, rischio dipendenza

21 maggio 2014

Quasi la metà dei bambini e dei teen-ager (esattamente il 46% di quelli di 9-16 anni) possiede uno smartphone, il 41% lo usa quotidianamente per navigare su internet, il 20% possiede un tablet e il 23% di questi lo usa per stare online ogni giorno. Quasi 3 giovani su 4 (72%) percepiscono il disagio di una eccessiva dipendenza dallo smartphone, dal dover essere sempre connessi e quindi “presenti”, anche se solo virtualmente.

Sono alcuni dei dati emersi dal progetto The Net Children Go Mobile presentati alla 64ma conferenza annuale della International Communication Association a Seattle. Il progetto include Italia, Danimarca, Portogallo, Gran Bretagna, Belgio, Irlanda, Romania e ha coinvolto 3.500 bambini e adolescenti di 9-16 anni intervistati nelle proprie abitazioni.

L’utilizzo di smartphone e tablet è risultato associato a maggiori capacità digitali e comunicative e, per quanto vi sia un rischio percepito di cyberbullismo e pericoli sessuali, l’accesso a Internet attraverso cellulari e tablet non è risultato un fattore di vulnerabilità, spiega Giovanna Mascheroni dell’Università Cattolica di Milano, che coordina il progetto europeo. Anzi, l’utilizzo di apparecchi collegati a internet offre a questa fascia di popolazione anche notevoli opportunità. È emersa anche una spiccata percezione di attaccamento allo smartphone, perché è sempre a portata di mano e dà l’idea di rafforzare le relazioni umane con amici e parenti.

(Fonte: «Avvenire»)

Ghiacciai: in 30 anni superficie ridotta del 40%. Presentato il nuovo Catasto dei Ghiacciai Italiani

22 maggio 2014

Sono stati presentati il 22 maggio all’Università Statale di Milano i risultati del Nuovo Catasto dei Ghiaccia Italiani realizzato dall’equipe del professor Claudio Smiraglia, del Dipartimento di Scienze della Terra, grazie al contributo di Levissima e in collaborazione con l’Associazione EvK2CNR e il Comitato Glaciologico Italiano. Un progetto di grande rilevanza che ha visto coinvolta l’equipe dell’esperto glaciologo a partire dal 2012 e che integra dati raccolti nel corso di un decennio. Risalgono al 1962 e al 1984 i precedenti catasti, realizzati dal Comitato Glaciologico Italiano e, rispetto ai dati rilevati allora, risultano visibili gli effetti e l’impatto sui ghiacciai italiani del cambiamento climatico in corso: aumento del numero, sensibile riduzione della superficie e del volume, cambiamento della morfologia stessa del cuore freddo delle Alpi.

In gran parte i ghiacciai italiani risultano essere di piccole dimensioni con un valore areale medio di 0,4 km2. Un dato assai significativo poiché le ridotte dimensioni espongono in maniera esponenziale i ghiacciai a ulteriori fenomeni di fusione dovuta all’innalzamento delle temperature medie annuali.

Le novità non sono solo dovute ai cambiamenti climatici ma in alcuni casi anche ai risultati dei nuovi studi: il ghiacciaio più vasto è risultato essere infatti non più quello dei Forni come indicato nel precedente catasto ma il ghiacciaio del complesso Adamello-Mandrone che grazie a recenti rilievi si è scoperto essere composto da un corpo glaciale unitario. La variazioni assumono poi differente rilievo a seconda che vengano confrontati i con il catasto del 1962 e con quello del 1984 (durante quegli anni si è registrata infatti un piccola fase di espansione). I dati sono di complessa lettura e non sarebbero corrette previsioni troppo semplicistiche. Rispetto ai precedenti rilievi, ed esempio, risulta incrementata la copertura detritica.

«Nonostante sia tutt’ora in atto una lunga fase di regresso glaciale, l’incremento della copertura detritica superficiale potrebbe ridurre i ritmi di fusione, mentre l’incremento di polveri naturali o antropiche potrebbe aumentarla. La variabilità meteo-climatica, con inverni molto nevosi ed estati fresche ed umide, favorirebbe inoltre periodi di rallentamento di questa attuale fase negativa. A fine estate 2013, ad esempio, la riduzione di spessore di molti ghiacciai italiani è stata minore rispetto a quella registrata negli anni precedenti, a causa delle forti nevicate dell’inverno 2012-2013. E’ chiaro che, per avere una vera e propria inversione di tendenza, dovrebbe verificarsi una successione, almeno decennale, di queste caratteristiche meteo-climatiche, come quella del 1965-1985. Vista l’indiscussa funzione dei ghiacciai come indicatori del cambiamento climatico in atto, diventa quindi sempre più importante che ciascuno di noi adotti uno stile di vita responsabile, preservando le risorse naturali che ci circondano», spiega Smiraglia, a capo del progetto di ricerca.

Alla presentazione del progetto, patrocinato dal Ministero dell’Ambiente, dalla Convenzione delle Alpi e dal World Glacier Monitoring Service, sono intervenuti insieme a Claudio Smiraglia, Alessandro Pavese Direttore del Dipartimento Scienze della Terra dell’Università degli Studi di Milano, Agostino Da Polenza, Presidente Associazione EvK2CNR, Carlo Baroni, Presidente Comitato Glaciologico Italiano, Daniela Murelli, Direttore CSR Gruppo Sanpellegrino – Levissima e Luca Cetara, Coordinatore della Segreteria Scientifica Presidenza italiana della Convenzione delle Alpi.

ALCUNI DATI SIGNIFICATIVI DEL NUOVO CATASTO

Superficie coperta dai ghiacciai:
– oggi: 368 km2
– nel catasto del 1962: 519 km2
– nel catasto del 1984: 609 km2
Oggi rispetto agli anni ’50 si è fusa una superficie glaciale di 151 km2, rispetto agli anni ’80 di 241 km2

Numero dei ghiacciai:
– oggi 896
– nel catasto 1984: 1381, oggi sono 485 in meno
– nel catasto del 1962: 824, oggi sono 72 in più.
Oggi i ghiacciai sono aumentati rispetto agli anni ’50 a causa di un’intensa frammentazione.
Negli anni ’80 erano di più per un motivo opposto, durante quegli anni si è registrata una fase di espansione.

Tipologia dei ghiacciai oggi:
– Ghiacciai montani: 62% (di medie dimensioni collocati sui versanti montuosi a quote elevate, caratterizzati dalla mancanza di una lingua che fluisce lungo una valle)
– Ghiacciai glacionevati: 35% (forme iniziali o terminali dell’evoluzione di un ghiacciaio, di dimensioni limitate, solitamente inferiori a 0,05 km2, e privi di movimento)
– Ghiacciai vallivi: 3% (con un vasto bacino di accumulo nella zona superiore e una lingua che scende a bassa quota nella zona inferiore)
(Fonte: «EvK2CNR») 

Non autosufficienza. Per la maggioranza degli italiani l’assistenza spetta alla famiglia

22 maggio 2014

Secondo l’Istat, nel 2011 gli over 65 in Italia erano circa 12 milioni e 300 mila – con oltre sei milioni di ultra settantacinquenni – mentre nel 2030 saranno il 33% della popolazione, con 3,5 milioni di non autosufficienti (contro gli attuali 2 milioni). Non stupisce dunque scoprire dalla nuova ricerca dell’Osservatorio Sanità di UniSalute, la compagnia del Gruppo Unipol specializzata in assistenza sanitaria, che il 61% degli italiani conosca personalmente casi di persone non autosufficienti che hanno bisogno di assistenza.

Ma a chi si affiderebbero gli italiani per le cure alle persone non autosufficienti? Se il 16% si rivolgerebbe a una casa di cura e l’8% al Servizio Pubblico, la maggior parte degli italiani crede che sia la famiglia la principale “istituzione” che deve prendersi carico dell’assistenza. Come? Direttamente un familiare secondo il 44% o attraverso una badante, per 1 italiano su 3.

E come muoversi nella maniera più rapida ed affidabile per reclutare la badante? Per 1 italiano su 2 è il passaparola lo strumento migliore: il 51% infatti si affiderebbe alle indicazioni di amici e parenti. Non solo, perché il 18% chiederebbe consiglio alle associazioni di volontariato, il 14% al proprio Comune o Provincia mentre l’11% si affiderebbe alle agenzie per il lavoro.

Il problema della non autosufficienza è una delle sfide centrali della sanità italiana per il prossimo futuro ed è ormai evidente che il Ssn, farà sempre più fatica a rispondere alle reali esigenze del cittadino. Nonostante l’aumento della popolazione anziana e quindi del fabbisogno assistenziale, in Italia infatti la spesa pubblica per la non autosufficienza è rimasta costante: secondo la Ragioneria Generale dello Stato, la percentuale di PIL destinata alla spesa per anziani non autosufficienti è rimasta immutata tra il 2010 e il 2011, attestandosi all’1,28%.

In questo scenario l’assistenza rimane in carico alle famiglie e lo status economico rischia di essere sempre più rilevante nel determinare l’accesso e la qualità dell’assistenza in caso di non autosufficienza. Per Unisalute risulta quindi «indispensabile sviluppare il secondo pilastro della sanità (a fianco di quello pubblico) con il coinvolgimento delle autorità pubbliche – nazionali e locali – del mondo del lavoro e di operatori specializzati in grado di organizzare e gestire l’erogazione di prestazioni assistenziali sostenibili nel tempo».

(Fonte: «Quotidiano Sanità»)

CODICE/2. Ecco il nuovo Codice deontologico dei medici e degli odontoiatri italiani. In 79 articoli la “carta” dei valori della Fnomceo

23 maggio 2014

Il dado è tratto, La Fnomceo ha il suo nuovo codice a distanza di otto anni dall’ultimo aggiornamento risalente al 2006. Quattro gli articoli inediti, ciascuno corrispondente a una questione bioetica mai affrontata prima: la medicina potenziativa (art. 76) – volta non a curare ma a migliorare lo stato di benessere, sino a superare gli stessi limiti della natura – la medicina militare, articolo condiviso con il ministero della difesa, l’applicazione tecnologie informatiche alla sanità, la partecipazione del medico alle organizzazioni sanitarie.
Ma anche un occhio più attento all’ambiente, alla prevenzione del rischio clinico e alla sicurezza delle cure, al controllo del dolore e alle cure palliative, alle competenze professionali, alla lotta all’abusivismo, al consenso informato.

Torna, in alcuni articoli, il termine “paziente”, in una prima versione del testo sostituito sempre da “persona assistita”. e ciò per dare coerenza al cambio di paradigma della medicina moderna, che passa da esclusiva azione di cura della malattia, a quella più vasta di promozione e tutela della salute. La scelta dell’Assemblea specifica ancor meglio questa vera e propria “rivoluzione copernicana”, mantenendo la parola “paziente” quando si parla di “cure”, e introducendo “persona assistita” negli articoli di più ampia accezione.

LA DIAGNOSI SPETTA SOLO AL MEDICO. E poi, come a ribadire la primazia del medico rispetto alle avances più o meno esplicite di altre professioni, nel nuovo codice viene specificato con chiarezza che “la diagnosi a fini preventivi, terapeutici e riabilitativi è una diretta, esclusiva e non delegabile competenza del medico e impegna la sua autonomia e responsabilità”.
«Questo non è un codice di difesa della professione», ha spiegato Amedeo Bianco presidente della Fnomceo e senatore del Partito democratico, in sede di presentazione alla stampa del nuovo Codice deontologico dei medici italiani, approvato la scorsa settimana a Torino. «Ma al contrario – aggiunge – chiama alla responsabilità i professionisti e mette al centro un’idea di medicina che ha a cuore la tutela della salute. È inoltre un codice che si affaccia su nuove tematiche e che ha il coraggio di pronunciarsi su determinate materie in ragione dei principi fondamentali che ci guidano. Tutto ciò che fa un professionista ha come obiettivo la tutela della salute, la tutela della vita, il rispetto dei diritti civili, etici, delle persone a cui si rivolge».

IL DISSENSO DI ALCUNI ORDINI. È però anche un Codice che ha già scatenato delle polemiche da parte di 10 Ordini provinciali, tra cui Milano e Bologna, che non lo hanno approvato in sede di votazione, e che hanno promesso battaglia e persino il ricorso al Tar. Sul perché di questa polemica Amedeo Bianco, fa sapere che le motivazioni dei dissidenti sono di due tipi: «il primo, secondo alcuni è insufficiente la carica innovativa del documento»; la seconda obiezione invece risiede nel fatto che secondo alcuni Ordini provinciali sono «altri i problemi che attanagliano i medici, primo fra tutti la responsabilità professionale». Bianco però in sede di conferenza stampa di presentazione riconosce «legittimo il pregiudizio di revisionare il Codice: Certo -aggiunge – in questi due anni di lavori i contributi che sono arrivati da alcuni Ordini provinciali sono stati pari a zero».

Poi Bianco e con lui i vertici della Federazione cercano di spegnere le polemiche. «Vedremo se gli Ordini provinciali dissidenti decideranno di non applicarlo. Però, se posso dire, questo lo considero un aspetto marginale senza offesa per nessuno, senza voler offendere le opinioni altrui. Mi sembra una questione marginale e pericolosa per l’autonomia degli Ordini. Perché chiamare, ammesso che ci sia titolarità, la magistratura amministrativa a intervenire su atti così interni, così delicati che tutti riconoscono di esclusiva competenza degli Ordini professionali, mi sembra un autogol straordinario. Io li invito a ragionare, a far sedimentare le cose. Tra l’altro ho già ricevuto qualche lettera di presidente che ha votato contro, il quale sostiene che non ha nessuna intenzione di andare oltre. Mi auguro che il buon senso, la responsabilità, alla fine prevalgano».

Sull’obbligo delle assicurazioni, altro punto su cui si è creata la polemica Bianco aggiunge: «Abbiamo specificato che questo si riferisce al libero professionista, il quale deve provvedere ad idonea copertura. Quanto alle obiezioni per cui i liberi professionisti si trovano a disagio, magari non avendo offerta di assicurazioni o avendole a prezzi non sostenibili, questo è un tema sul quale stiamo lavorando e pensiamo e riteniamo di dover trovare soluzioni strutturali con la legge sulla responsabilità professionale. Per l’urgenza invece contiamo sull’emanazione di un Dpr che guarda in modo specifico a queste categorie riducendo i costi delle assicurazioni e accogliendo quei professionisti che non trovano offerta assicurativa».

Come abbiamo visto ci sono 4 articoli del tutto inediti, ciascuno corrispondente a una questione bioetica mai affrontata prima, dedicati a: medicina potenziativa (art. 76), medicina militare (art. 77); tecnologie informatiche (art. 78); organizzazione sanitaria (art. 79).
In particolare sulla medicina potenziativa, Bianco dice: «Noi abbiamo aperto a queste riflessioni deontologiche rispetto a materie che sono oggetto di ricerca e sviluppo. Queste erano tematiche che non abbiamo mai schiuso e ritengo che ciò sia un fatto positivo perché i problemi dietro queste tematiche ci sono. Certo le soluzioni che abbiamo trovato possono essere discutibili e migliorabili».

(Fonte: «Quotidiano Sanità»)
(Approfondimenti: http://www.quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=12368.pdf)

Come difendersi in Rete dalle leggende sulla scienza

23 maggio 2014

Tra «i derelitti e perditempo », che affollano la taverna del famigerato Skin-the- Goat (Scorticacapre) nella notte tra il 16 e il 17 giugno 1904, un marinaio ne racconta di tutti i colori: cannibali sudamericani che pasteggiano col fegato crudo di un cavallo morto, asiatici che preparano un succulento pasticcio di topo, e perfino «un coccodrillo che mastica un’ancora come un qualsiasi pezzo di tabacco tra i nostri denti». Buon appetito! Così James Joyce si beffa nel suo «Ulisse» di coloro che si divertono a diffondere le storie più strampalate. Pensate ora a un pub grande come tutta la Rete e lasciate che qui circolino le notizie più bizzarre tipo «I vaccini fanno diventare autistici i nostri pargoli», oppure «Chi è vegano non si ammalerà di cancro», oppure «Con pochi mezzi è possibile realizzare la fusione fredda persino nel vostro scantinato» (speriamo di no!), eccetera eccetera.

Di questa infezione è vittima soprattutto l’impresa tecnico-scientifica, da ben prima di Internet. All’alba della modernità Galileo e Cartesio invano protestavano contro il moltiplicarsi di spiegazioni fasulle sulla stampa dell’epoca; e alla fine persino l’Illuminismo non è riuscito ad arginare la marea di quelle che liquidava come «pure superstizioni ».

Ci deve essere qualcosa dentro la scienza che giustifica il fenomeno. Forse è lo specialismo di molti scienziati, che ora sembrano gli araldi di una nuova salvezza e poi deludono con la «normalità» dei loro risultati. O forse è il fatto che l’arida scienza, come diceva Friedrich Nietzsche, col suo stesso progresso «toglie gioia», o almeno elimina consolazioni a buon mercato. Non siamo più al centro dell’Universo, abbiamo con le scimmie più tratti comuni di quanto vorremmo ammettere, e una macchina può essere così sofisticata da batterci in complessi giochi di intelligenza. Ma intanto la scienza «ufficiale» appare il prodotto di una comunità chiusa nei propri laboratori, trincerata dietro incomprensibili formule matematiche, protetta in modo «asettico» dal turbinio delle emozioni.

Eppure, proprio la Rete potrebbe essere uno dei luoghi della comunicazione fra amministrazione, politica, industria, da una parte, e mondo tecnico-scientifico, dall’altra. Anzi, «quello strumento resta comunque il più potente per raggiungere le giovani generazioni, che non possiamo perdere nel nostro lavoro di educazione alla ricerca», mi dice Gianluca Vago, rettore dell’Università degli Studi di Milano e specialista in Anatomia patologica: «Dobbiamo sforzarci di utilizzare lo stesso linguaggio della Rete per far capire quelli che sono gli aspetti più salienti dell’impresa scientifica, nell’accezione più ampia del termine». Né dobbiamo dimenticare che dietro la mandria delle «bufale» che impazzano nella Rete ci potrebbe essere un fuoco «democratico» che anima coloro che mal sopportano una barriera rigida tra competenza e ignoranza. Una reazione comprensibile di fronte a quei ricercatori che esitano a uscire dalle trincee in cui definiscono la loro disciplina.

Ma ai luoghi comuni (sbagliati) che la Rete costruisce mancano due doti che invece contraddistinguono l’investigazione spregiudicata della realtà: coraggio e modestia. Niente moto perpetuo, ma consapevolezza del costo di qualunque forma di energia; niente cure miracolose del cancro o di qualsiasi altro flagello dell’umanità, ma paziente sperimentazione sui farmaci; niente messaggi dagli spiriti, ma puntigliose analisi di cosa sono la vita e la coscienza. Coraggio e modestia richiedono anche l’assoggettarsi al dovere del ragionamento coerente e della prova controllabile. Questa non è una burocratizzazione della ricerca, semmai il suo contrario; e se università, istituti superiori, centri di eccellenza scientifica eccetera riusciranno nei modi più vari e originali a presentare non tanto questo o quel risultato quanto tale atteggiamento di fondo, avranno dato un’ulteriore dimostrazione che la conoscenza è forza democratica per eccellenza, mentre una società ove la conoscenza viene confinata in piccole isole resta terribilmente fragile e può subire dure involuzioni autoritarie, anche… grazie alla Rete.

Giulio Giorello
(Fonte: «Corriere della Sera»)

Medicina estetica. Congresso Sime. Un settore che non conosce crisi e piace sempre di più agli uomini

23 maggio 2014

La crisi sembra non arrestare la voglia degli italiani di migliorare sempre il proprio aspetto. Rughette insipienti e pannicoli adiposi rimangono tra i nemici da combattere, tant’è che negli ultimi anni il ricorso ai trattamenti estetici è cresciuto del 15%, a dispetto della chirurgia plastica che invece ha registrato una flessione del 30%. Non solo, se fino a poco tempo fa la medicina estetica era appannaggio delle donne, ora è diventata uno dei punti di rifermento dell’universo maschile. Sono infatti sempre di più gli uomini che ricorrono ai trattamenti estetici. E non solo per “correggere”, ma anche per prevenire.

A tracciare i contorni di un settore che non perde smalto sono i medici estetici riuniti a Roma, dal 23 al 25 maggio, per il 35esimo congresso della Società italiana di medicina estetica (Sime). «La richiesta di trattamenti estetici aumenta – ha spiegato Emanuele Bartoletti, Presidente del congresso di medicina estetica – perché al di là del valore economico e delle prestazioni, i pazienti riconoscono alla medicina estetica un ruolo importante e alternativo alla chirurgia. Non dimentichiamo che la spesa è sicuramente minore e i risultati sono meno invasivi e più naturali. Inoltre negli ultimi anni gli uomini, nella fascia di età tra i 30 e i 50 anni sono sempre più coinvolti».

L’UOMO E LA MEDICINA ESTETICA. Sono finiti i tempi in cui gli uomini erano “sollecitati” ad andare dal medico estetico perché spinti da mogli e fidanzate a spianare rughe sulla fronte e a cancellare l’avanzare del tempo. Oggi dal medico estetico gli uomini ci vanno da soli e sempre di più chiedono punturine di botox, filler, trattamenti per alleggerire la “pancetta”, ma anche per eliminare definitivamente peli su schiena, gambe e addome. E non disdegnano neppure la biostimolazione per mantenersi sempre giovani.

«Gli uomini – ha detto Bartoletti – sono molto attenti alla prescrizione cosmetica, perché si rendono conto che la pelle avrà dei benefici utilizzando dei cosmetici ad hoc, ovviamente interamente dedicati a loro e completamente diversi da quelli delle donne. Non c’è azienda di cosmetici di un certo livello ormai che non abbia la sua linea ‘maschile’ ed è giusto che sia così, perché la pelle dell’uomo ha delle caratteristiche e delle necessità completamente diverse da quelle della donna. Differenze di genere che si rispecchiano anche nei trattamenti; il labbro dell’uomo, ad esempio non può essere trattato come quello di una donna. Stessa cosa vale per i trattamenti a base di tossina botulinica».

L’uomo, a differenza della donna, è in genere molto più espressivo, spiega Bartoletti, per cui cercare di avere su un uomo lo stesso risultato di riduzione di movimento che si ottiene su una donna è sbagliato: «Pensare che nell’uomo sia necessario usare una maggior quantità di tossina botulinica perché la muscolatura è più grossa, più forte e più potente, non è del tutto corretto – ha aggiunto – riteniamo infatti che nell’uomo vadano utilizzate le stesse quantità di tossina che utilizziamo nella donna; se il risultato non è soddisfacente lo si può sempre ritoccare dopo 15 giorni, ma non succede di frequente. Riteniamo infatti che per avere un buon risultato estetico, nell’uomo deve restare una possibilità d’espressione maggiore, rispetto a alla donna».

COSA PREDILIGONO GLI UOMINI… Ma quali sono i cinque trattamenti più richiesti dal sesso forte? Al primo posto figurano l’eliminazione delle rughe della fronte con il botox, utilizzato però in quantità inferiori rispetto alle donne, per mantenere una maggiore espressività. Al secondo posto i filler per riempire il solco fra il naso e lo zigomo e le guance, ma i più giovani chiedono anche di aumentare il volume del labbro superiore, se troppo sottile. Il terzo trattamento più gettonato è quello per eliminare il grasso dai fianchi e dall’addome. Al quarto posto la cancellazione delle macchie, seguita dalla depilazione della schiena e del petto.

… E LE DONNE. Cambiano le graduatorie tra le donne: al primo posto figurano i filler seguiti dal botox. Ricorrono poi al medico estetico per cancellare o ridurre le macchie anche sulle mani, per diminuire o eliminare il grasso addominale e per la depilazione permanente.

LE NUOVE TENDENZE DELLA BELLEZZA. Interventi sempre più “soft” e meno “deturpanti”. Nuove terapie antiaging con bio-stimolazione, trattamenti con fili di sospensione riassorbibili per il collo e il “terzo inferiore” del viso. Sono queste le nuove tendenze e le nuove frontiere del settore al centro del convegno Sime.
Tra i trattamenti più promettenti figura quello della biostimolazione con il plasma arricchito di piastrine: «Le piastrine – ha spiegato Bartoletti – hanno la capacità di stimolare il derma e i fibroblasti. Non ci sono ancora degli studi clinici di riferimento, ma siamo di fronte ad un trattamento che darà ottimi risultati e che è soprattutto, sicuro. Esistono altre forme di biostimolazione, quella chimica a base di acido ialuronico, quella fisica a base di trattamenti a radiofrequenze, ma nessuna è efficace come quella con plasma arricchito di piastrine».

(Fonte: «Quotidiano Sanità»)

Nuove sfide per educare i ragazzi all’affettività e alla sessualità

25 maggio 2014

Si è conclusa con l’assemblea generale che ha approvato il bilancio e la sintesi affidata ai rappresentati dei gruppi di lavoro, la due giorni del convegno nazionale dell’Associazione Scienza & Vita. Titolo dell’evento: «Amore & Vita. Questioni di cuore e di ragione, tracce per un percorso formativo all’affettività e alla sessualità».

«Dobbiamo essere soddisfatti di questo primo esperimento di interazione e non dobbiamo disperdere il ricchissimo materiale formativo ed esperienziale che è stato elaborato nelle quattro sessioni di lavoro», ha dichiarato Paola Ricci Sindoni, Presidente nazionale Scienza & Vita. «La dialettica, anche intensa, dei gruppi di lavoro e le criticità emerse, ne dimostrano la grande vitalità e vivacità – ha proseguito – Nei diversi registri e livelli che sono stati affrontati, si è mostrata la frattura generazionale in atto all’interno della trama intrigante tra affettività e sessualità».
«Il convegno, grazie al pieno coinvolgimento dei giovani alla ricerca di linguaggio condiviso con gli adulti, è riuscito a mettere insieme le tracce per continuare insieme un percorso formativo» ha affermato Domenico Coviello, copresidente nazionale.

Molteplici le sollecitazioni giunte dai quattro gruppi. A testimonianza di quanto alcune questioni siano particolarmente sensibili per i giovani e gli educatori, sono stati al centro di un animato dibattito trasversale temi complessi e fonte di disorientamento come quello del gender. Per ogni argomento trattato, dalla conoscenza del proprio corpo alla scoperta dell’antropologia dell’amore, passando per le dinamiche delle relazioni affettive, sono arrivate richieste di suggerimenti operativi, sussidi informativi, strumenti formativi.

«I ragazzi ci chiedono gli strumenti per orientarsi e questo vuol dire imparare di nuovo l’uso di certe parole – ha concluso Paola Ricci Sindoni – per esempio: che differenza c’è tra emozione, sentimento e passione? Le parole devono riacquistare verità e densità, per riconfermarsi come autentici canali di comunicazione. In tal senso, l’attenzione per i giovani non deve farci dimenticare la grande responsabilità di noi adulti, che Scienza & Vita fa sua e si impegna a promuovere».

(Fonte: «Zenit»)

Anziani all’estero per cure low-cost, l’esperto: più attenzione ai loro problemi

27 maggio 2014

Circa nove milioni di italiani hanno ormai rinunciato alle cure mediche, di questi due milioni sono anziani e cioè coloro i quali necessitano di maggiori cure. Ad oggi, è stato stimato che 270 mila anziani coinvolti nelle fughe all’estero percepiscono una pensione che va da 650 a 1.000 euro al mese». Con queste parole, il presidente di Fipac Confesercenti Massimo Vivoli ha commentato il dossier sui costi della sanità per gli anziani presentato a Roma in occasione della presidenza di categoria.

Da una parte i farmaci troppo costosi, dall’altra l’impossibilità ad accedere alle cure mediche, hanno determinato quello che gli autori del rapporto hanno voluto chiamare il fenomeno dei “nonni in fuga”. Secondo Fipac Confesercenti, la fuga non è solo verso Paesi in cui il costo della vita è inferiore, ma anche dal Servizio sanitario nazionale: si tratta di numerosi anziani costretti a curarsi nei Paesi low cost, perché non in grado di sopportare una spesa medica eccessiva: il fenomeno coinvolgerebbe oltre 400 mila anziani che, per raggirare costi e lungaggini, scelgono strade alternative, anche fuori dai confini nazionali. Marco Trabucchi, direttore del Gruppo di ricerca geriatrica di Brescia ritiene che «in molti casi, almeno nell’Italia settentrionale, la cura dell’anziano sia adeguata, gli ospedali e l’assistenza sul territorio funzionino; ma certo c’è un’insufficiente attenzione verso i problemi degli anziani, che psicologicamente si sentono a rischio di essere poco presi in carico ed è facile che vadano in cerca di soluzioni alternative».

Trabucchi ritiene che i segnali di allarme siano ormai numerosi e che sia necessario attrezzarsi, specialmente per affrontare in modo adeguato le cronicità. Il rischio è che anche in Italia il fenomeno della “fuga” di anziani si accentui, come già accade all’estero: «In Germania, per esempio, molti vanno nelle case di riposo polacche perché costano meno; da noi problemi di cultura e di lingua hanno finora posto un freno a situazioni di questo tipo».

Renato Torlaschi
(Fonte: «Doctor 33»)

Hiv, le infezioni non si fermano. Carosi: non si fanno più screening

27 maggio 2014

«L’epidemia Hiv continua, con quattromila nuove infezioni all’anno solo in Italia»: è questo il primo dato emerso al Congresso nazionale Icar (La conferenza italiana su Aids e retrovirus) in corso a Roma dal 25 al 27 Maggio e sottolineato da Giampiero Carosi, professore ordinario di clinica delle malattie infettive e tropicali dell’Università degli Studi di Brescia. Insieme con Mauro Moroni e Stefano Vella, Carosi ha fondato l’Icar nel 2009, per avere in Italia un equivalente dell’americano Croi (Conference on retroviruses and opportunistic infections). Siamo ora al sesto convegno e ancora una volta si evidenzia come il pericolo Hiv sia tutt’altro che scongiurato, anche se se ne parla molto meno che in passato.
«L’epidemia – riferisce Carosi – torna a diffondersi in alcuni gruppi, in particolare tra i giovani omosessuali». Il generale calo di attenzione favorisce la trasmissione del virus e il ritardo con cui si arriva alla diagnosi, fenomeno particolarmente evidente nel nostro Paese, dove l’infezione viene scoperta a un’età media di 38 anni per i maschi e di 36 per le femmine, quando spesso ha già determinato gravi danni.

«Gli screening si fanno poco e male – dice il professore – , basti dire che nei Sert, i Servizi per le tossicodipendenze, si è ormai scesi intorno al 20%, perché erroneamente si pensa che essendo diminuita l’eroina in vena sia scomparso anche il rischio della trasmissione dell’Hiv, mentre invece anche la dipendenza da cocaina, oggi molto diffusa, si associa a un maggior rischio di trasmissione attraverso una sessualità promiscua». La gravità del ritardo nella diagnosi è dovuta principalmente al fatto, sempre più evidente, dell’importanza di iniziare precocemente il trattamento antiretrovirale.
Nel frattempo, la ricerca di un vaccino continua a segnare il passo. I risultati della fase due della sperimentazione del nuovo vaccino terapeutico italiano sono incoraggianti, ma Barbara Ensoli, che lo ha messo a punto, afferma: «Non possiamo illudere i malati; ci vogliono ancora alcuni anni prima di avere il vaccino disponibile per le persone».

(Fonte: «Doctor 33»)

Rapporto Istat: «Nascite al minimo storico, in 5 anni 100mila giovani all’estero»

28 maggio 2014

Nascite al minimo storico da vent’anni a questa parte, 6.3 milioni di disoccupati, aumento dell’emigrazione, soprattutto per i giovani, che in quasi 100mila, negli ultimi cinque anni, hanno scelto di fuggire all’estero. Nello stesso periodo, i padri e le madri di famiglia disoccupati sono cresciuti di oltre mezzo milione di unità. E sempre più famiglie vedono nella madre l’unica “breadwinner”, cioè l’unica fonte di sostentamento.

E l’Italia continua a essere uno dei Paesi europei con maggiore divario nella distribuzione del reddito. I segnali di ripresa sono “deboli”: dal 2012 al 2013 un milione di famiglie è uscito dalla fascia di “grave deprivazione“, nella quale però permangono oltre 7 milioni di nuclei. È la fotografia del declino italiano scattata dal Rapporto annuale dell’Istat 2014, presentato il 28 maggio alla Camera dei deputati.

«Dal rapporto emerge un’Italia in grande sofferenza a causa della crisi economica che ha messo a dura prova il tessuto sociale, alcuni dati sono impressionanti e ci lanciano un messaggio di allarme che dovrebbe indurre a dare risposte immediate», ha commentato la presidente della Camera Laura Boldrini, a Montecitorio, nel corso della conferenza di presentazione del rapporto annuale.

NASCITE, 515MILA NEL 2013. Riguardo alle dinamiche demografiche, l’istituto registra il nuovo minimo storico per le nascite da quasi vent’anni. Nel 2013 si stima che saranno iscritti all’anagrafe poco meno di 515mila bambini, 12mila in meno “rispetto al minimo storico registrato nel 1995″. In cinque anni sono arrivate in Italia 64mila nascite in meno.

EMIGRATI IN 68MILA NEL 2012, +36% IN UN ANNO. È un vero e proprio boom di italiani che cercano fortuna all’estero. Nel 2012 – fa sapere l’Istat – gli emigrati erano 68mila, il 36% in più del 2011, “il numero più alto in 10 anni”. Nello stesso anno, oltre 26 mila giovani italiani (tra i 15 e i 34 anni) hanno lasciato il Paese, 10 mila in più rispetto al 2008, meno di quanti sono rientrati. Il rapporto Istat spiega che negli ultimi cinque anni se ne sono andati quasi 100 mila giovani, per l’esattezza 94mila. Il flusso di uscita dei laureati è di 6.340 unità, con un saldo di -4.180 unità. Le mete di destinazione privilegiate sono Regno Unito, Germania (circa 900 emigrati in ciascun Paese) e Svizzera (726). La crisi frena anche gli immigrati stranieri in Italia: nel 2012 gli ingressi sono stati 321mila, -27,7% rispetto al 2007. Aumenta invece il numero di stranieri che se ne vanno (+17,9%).

GIOVANI: 1,8 MILIONI DI OCCUPATI IN MENO IN CINQUE ANNI. Del resto sono proprio i giovani i più colpiti dalla crisi. I 15-34enni occupati diminuiscono, fra il 2008 e il 2013, di 1 milione 803 mila unità, mentre i disoccupati e le forze di lavoro potenziali crescono rispettivamente di 639 mila e 141 mila unità. Il tasso di occupazione tra i 15-34 anni scende dal 50,4% del 2008 all’attuale 40,2%, mentre cresce la percentuale di disoccupati (da 6,7% a 12%), studenti (da 27,9% a 30,7%) e forze di lavoro potenziali (da 6,8% a 8,3%). Le differenze di genere sono importanti: il tasso di occupazione è al 34,7% tra le donne e raggiunge il 45,5% tra gli uomini.

DISOCCUPAZIONE, 6.3 MILIONI DI “POTENZIALI IMPIEGABILI”. Il numero dei disoccupati in Italia è raddoppiato dall’inizio della crisi. E in quasi 7 casi su 10 l’incremento è dovuto a quanti hanno perso il lavoro. Cresce anche la disoccupazione di lunga durata che raggiunge il 56,4% del totale (dal 45,1% del 2008). Tra disoccupati e persone che vorrebbero lavorare in Italia si contano 6,3 milioni di senza posto. Nel 2013 ai 3 milioni 113mila disoccupati si aggiungono 3 milioni 205mila forze lavoro potenziali, ovvero gli inattivi più vicini al mercato del lavoro. Si arriva così a oltre 6 milioni di individui che l’Istat nel Rapporto annuale definisce “potenzialmente impiegabili”. L’Istat fa anche sapere che aumentano gli scoraggiati (1 milione 427 mila). Guardando ai giovani, nel 2013 tra i ragazzi tra i 15 e i 29 anni che né lavorano né studiano, i cosiddetti Neet, sono 2 milioni 435 mila, in aumento di 576mila rispetto al 2008. Alzando l’asticella agli under35, l’Istat fa notare come nei 5 anni di crisi gli occupati in questa fascia d’età siano scesi di 1 milione 803 mila.

LA CRISI COSTA IL POSTO A MEZZO MILIONE DI GENITORI. È “particolarmente grave l’incremento dei genitori disoccupati”, rileva il Rapporto Istat 2014. Tra il 2008 e il 2013 si registra un rialzo di 530mila tra padri (+303mila) e madri (+227mila) disoccupati. Guardando alle mamme, quelle che vogliono lavorare, considerando pure le forze lavoro potenziali, sono 1milione 767mila.

E LE DONNE DIVENTANO “BREADWINNER”. Aumentano le famiglie con donne ‘breadwinner’, ovvero quelle in cui la donna è l’unica ad essere occupata: sono il 12,2% delle famiglie, erano il 9,4% nel 2008. Quelle con il breadwinner uomo sono il 26,5% (stabile rispetto a cinque anni prima). Tra il 2008 e il 2013 le famiglie in cui l’unico occupato è una donna sono aumentate di 591mila unità (+34,5%), superando i 2,3 milioni.

REDDITO, DISUGUAGLIANZE RECORD. In generale, sottolinea l’Istat, “l’Italia è uno dei Paesi europei con la maggiore disuguaglianza nella distribuzione dei redditi primari, guadagnati dalle famiglie sul mercato impiegando il lavoro e investendo i risparmi”. Inoltre, “nonostante l’intervento pubblico operi una redistribuzione dei redditi di mercato di apprezzabile entità, non inferiore a quella dei Paesi scandinavi, in Italia il livello di disuguaglianza rimane significativo anche dopo l’intervento pubblico”.

NORD-SUD, IL DIVARIO RESTA. Anche i divari territoriali sono marcati: al Nord il tasso di occupazione è pari al 50,1% (-12,1 punti percentuali dal 2008), contro il 43,7% del Centro (-10,4 punti) e il 27,6% del Mezzogiorno (-8,4 punti). Le differenze territoriali sono importanti anche per le quote di disoccupati (15,3% nel Mezzogiorno contro 9,3% nel Nord) e di forze di lavoro potenziali (14,3% contro 4%). Sempre nel Mezzogiorno è leggermente più elevata la quota di studenti (32%, contro il 31,4% del Centro e il 29,3% del Nord). Tra quanti vivono ancora con i genitori, la percentuale di disoccupati e forze di lavoro potenziali diminuisce al crescere del titolo di studio dei genitori (12,3% tra i figli di laureati e 37,7% tra i figli di genitori con al più la licenza elementare).

CRISI, “DEBOLI SEGNALI POSITIVI”. La morsa della crisi, però, nel 2013 pare attenuarsi: la quota di persone appartenenti a famiglie in condizioni di “grave deprivazione” scende al 12,5%, pari a 7,6 milioni di individui, dal 14,5% del 2012, corrispondente a 8,7 milioni. L’Istituto di statistica parla di “deboli segnali positivi”. Ma nel 2013 sono 2 milioni le famiglie (con almeno un 15-64enne) senza occupati e pensionati da lavoro, a cui si aggiunge un’altra area di disagio fatta da famiglie composte da più persone, ma rette solo da una pensione da lavoro. Sommando i gruppi emergono 3 milioni di famiglie che potrebbero essere in difficoltà, dove nessuno lavora.

INFLAZIONE ALL’1,2% PER DEBOLEZZA DELLA DOMANDA. Rispetto ai dati macroeconomici, nel 2013 l’inflazione è calata nettamente, in un quadro caratterizzato dal perdurare della fase di recessione economica e di debolezza della domanda di beni di consumo. Il tasso si è più che dimezzato, scendendo all’1,2% dal 3% del 2012. La fase di rallentamento dell’inflazione è proseguita nel 2014.

PIL 2013, MENO 1,9%. CALO ANCHE NEL 2014. Nel 2013, il Pil si è contratto nuovamente (-1,9%), riportando il livello dell’attività economica leggermente al di sotto di quello del 2000. Nel quarto trimestre si è registrato un timido segnale di ripresa economica dopo nove trimestri consecutivi di contrazione dell’attività (+0,1% su base congiunturale). Tuttavia, la stima flash relativa al primo trimestre del 2014 ha evidenziato una nuova flessione.

(Fonte: «Il Fatto Quotidiano»)

Allarme carceri, Babudieri (Simspe): alta diffusione di Tbc, Hiv ed epatiti

28 maggio 2014

«In Italia viene ufficialmente negato che all’interno delle carceri si pratichino tatuaggi, circolino stupefacenti e si faccia sesso: il risultato è un tasso di malattie trasmissibili enormemente più elevato rispetto a quello registrato tra la popolazione generale». La denuncia viene da Sergio Babudieri, presidente della Società italiana di medicina e sanità penitenziaria (Simspe) che nei giorni scorsi si è riunita a congresso a Torino.

Tra i detenuti rinchiusi negli istituti penitenziari, l’incidenza della tubercolosi è superiore dalle 25 alle 40 volte rispetto alla media generale; la sieropositività all’Hiv è dieci volte maggiore e altrettanto preoccupante è la diffusione delle epatiti: nella popolazione carceraria, tra il 30%e il 40% delle persone hanno l’epatite C, mentre l’epatite B si attesta intorno al 7%.
«Le percentuali sono fornite da ricerche condotte dal gruppo di lavoro della Simspe – spiega il presidente della Società – e non sono soltanto dell’ultimo periodo; abbiamo condotto le prime oltre un decennio fa in collaborazione con l’Istituto superiore di sanità; si tratta di dati riconosciuti e attendibili, ma sono stati raccolti su base volontaria. Il fatto è che lo Stato non ne fornisce altri e già questo è estremamente negativo; servirebbe invece un Osservatorio nazionale sulla sanità in carcere».

Nell’ultimo decennio, la situazione non è migliorata: «Chi entra in carcere – dice Babudieri – normalmente appartiene a uno strato socioculturale in cui i comportamenti a rischio per diverse malattie sono molto diffusi e il carcere di per sé è un concentratore di patologie. La popolazione di tossicodipendenti è estremamente elevata e la pratica dei tatuaggi è diffusissima, ma essendo negata non viene controllata, moltiplicando i rischi. In altri Paesi, tipicamente quelli del Nord Europa si prende atto della realtà e, all’interno degli istituti carcerari, vengono installate apparecchiature che a fronte dell’immissione di una siringa usata ne erogano una nuova e sterile».

Renato Torlaschi
(Fonte: «Doctor 33»)

Le nuove Linee guida del Garante della privacy: vietato diffondere informazioni sulla salute

28 maggio 2014

Solo dati aggiornati e indispensabili. Vietato diffondere informazioni sulla salute. Sì agli “open data”, ma senza pregiudicare i diritti delle persone. Garanzie per i più deboli. Allo scopo di contemperare le esigenze di pubblicità e trasparenza con i diritti e le libertà fondamentali nonché la dignità delle persone, il Garante della privacy ha individuato un quadro organico e unitario di cautele e misure che le Pa devono adottare quando diffondono sui loro siti web dati personali dei cittadini.

Le Linee guida, emanate alla luce del recente decreto legislativo n.33/2013, riguardano sia la pubblicazione di dati e documenti che le Pa devono mettere on line per finalità di trasparenza, sia di quelli finalizzati a garantire altri obblighi di pubblicità degli atti amministrativi (es. pubblicazioni matrimoniali, deliberazioni sull’albo pretorio on line, avviso di deposito delle cartelle esattoriali etc.). Su tali Linee guida (in corso di pubblicazione sulla G.U.) il Garante ha sentito il Dipartimento della funzione pubblica, l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) e l’Agenzia digitale.

Ecco in sintesi le principali misure indicate per la trasparenza on line.

PRINCIPI GENERALI:
Le Pa devono pubblicare solo dati esatti, aggiornati e contestualizzati.
Prima di mettere on line sui propri siti informazioni, atti e documenti amministrativi contenenti dati personali, le amministrazioni devono verificare che esista una norma di legge o di regolamento che ne preveda l’obbligo.
Le Pa devono pubblicare on line solo dati la cui pubblicazione risulti realmente necessaria. È sempre vietata la pubblicazione di dati sulla salute e sulla vita sessuale. I dati sensibili (etnia, religione, appartenenze politiche etc.) possono essere diffusi solo laddove indispensabili al perseguimento delle finalità di rilevante interesse pubblico.
Occorre adottare misure per impedire la indicizzazione dei dati sensibili da parte dei motori di ricerca e il loro riutilizzo.
Qualora le Pa intendano pubblicare dati personali ulteriori rispetto a quelli individuati nel decreto legislativo n.33, devono procedere prima all’anonimizzazione di questi dati, evitando soluzioni che consentano l’identificazione, anche indiretta o a posteriori, dell’interessato.

OPEN DATA E RIUTILIZZO DEI DATI
I dati pubblicati on line non sono liberamente utilizzabili da chiunque per qualunque finalità.
L’obbligo previsto dalla normativa in materia di trasparenza on line della Pa di pubblicare dati in “formato aperto”, non comporta che tali dati siano anche “dati aperti”, cioè liberamente utilizzabili da chiunque per qualunque scopo. Il riutilizzo dei dati personali non deve pregiudicare, anche sulla scorta della direttiva europea in materia, il diritto alla privacy.
Le Pa dovranno quindi inserire nella sezione denominata “Amministrazione trasparente” sui propri siti web un alert con cui si informa il pubblico che i dati personali sono riutilizzabili in termini compatibili con gli scopi per i quali sono raccolti e nel rispetto del norme sulla protezione dei dati personali.
I dati sensibili e giudiziari non possono essere riutilizzati.

DURATA DEGLI OBBLIGHI DI PUBBLICAZIONE
Il periodo di mantenimento on line dei dati è stato generalmente fissato in 5 anni dal decreto legislativo n.33. Sono previste però alcune deroghe, come nell’ipotesi in cui gli atti producano i loro effetti oltre questa scadenza. In ogni caso, quando sono stati raggiunti gli scopi per i quali essi sono stati resi pubblici e gli atti hanno prodotto i loro effetti, i dati personali devono essere oscurati anche prima del termine dei 5 anni.

MOTORI DI RICERCA
L’obbligo di indicizzare i dati nei motori di ricerca generalisti (es. Google) durante il periodo di pubblicazione obbligatoria è limitato ai soli dati tassativamente individuati dalle norme in materia di trasparenza. Vanno dunque esclusi gli altri dati che si ha l’obbligo di pubblicare per altre finalità di pubblicità (es. pubblicità legale sull’albo pretorio, pubblicazioni matrimoniali etc).
Non possono essere indicizzati (e quindi reperibili attraverso i motori di ricerca) i dati sensibili e giudiziari.

SPECIFICI OBBLIGHI DI PUBBLICAZIONE
Risulta proporzionato indicare il compenso complessivo percepito dai singoli dipendenti (determinato tenendo conto di tutte le componenti, anche variabili, della retribuzione). Non è però giustificato riprodurre sul web le dichiarazioni fiscali o la versione integrale dei cedolini degli stipendi. Esistono invece norme ad hoc per gli organi di vertice politico.
A tutela di fasce deboli, persone invalide, disabili o in situazioni di disagio economico destinatarie di sovvenzioni o sussidi, sono previste limitazioni nella pubblicazione dei dati identificativi.
Vi è invece l’obbligo di pubblicare la dichiarazione dei redditi di politici e amministratori, con l’esclusione di dati non pertinenti (stato civile, codice fiscale) o dati sensibili (spese mediche, erogazioni di denaro ad enti senza finalità di lucro etc.).

OBBLIGHI DI PUBBLICITÀ DEGLI ATTI PER FINALITÀ DIVERSE DALLA TRASPARENZA
Il rispetto dei principi di esattezza, necessità, pertinenza e non eccedenza, permanenza on line limitata nel tempo dei dati personali, vale anche per la pubblicazione di atti per finalità diverse dalla trasparenza (albo pretorio on line degli enti locali, graduatorie di concorsi etc.).
Al fine di ridurre i rischi di decontestualizzazione del dato personale e la riorganizzazione delle informazioni secondo parametri non conosciuti dall’utente, è necessario prevedere l’inserimento all’interno del documento di “dati di contesto” (es. data di aggiornamento, periodo di validità, amministrazione, numero di protocollo) ed evitare l’indicizzazione tramite motori di ricerca generalisti, privilegiando funzionalità di ricerca interne ai siti web delle amministrazioni.
Deve essere evitata la duplicazione massiva dei file.

(Fonte: «Quotidiano Sanità»)
(Approfondimenti: http://www.quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=9124472.pdf)

Donazione corpi post-mortem. La commissione Affari Sociali adotta testo unico

29 maggio 2014

La Commissione Affari Sociali di Montecitorio ha adottato un testo unico come base per la discussione della donazione del corpo post mortem a fini di studio e di ricerca scientifica. Il documento, che raccoglie le proposte di legge C. 100 Binetti, C. 702 Grassi e C. 1250 Dorina Bianchi, è stato già approvato in sede referente. Vediamo il contenuto dei suoi 9 articoli.

L’articolo 1 si limita a qualificare l’oggetto del provvedimento, spiegando che sono da intendersi utilizzabili ai fini di studio e di ricerca scientifica il corpo e i tessuti dei soggetti la cui morte sia stata accertata da certificato rilasciato dagli organi a ciò preposti.

Si passa poi, nell’articolo 2, alle iniziative di informazione sul tema che competeranno sia al Ministero della Salute, sia alle Regioni e Asl, cui spetterà informare i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta.

Quanto alla manifestazione del consenso, all’articolo 3 si spiega che l’utilizzo del corpo umano e dei tessuti post mortem avviene mediante una dichiarazione di utilizzo del corpo post mortem redatta nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata. Una copia di tale dichiarazione deve essere consegnata al centro di riferimento competente per territorio o alla Azienda sanitaria di competenza, cui spetta comunque l’obbligo di consegnarla al suddetto centro di riferimento.

L’individuazione di questi centri, come spiegato nell’articolo 4, spetterà al Ministro della salute, che, previa intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni e di concerto con il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, dovrà individuare le strutture universitarie e le aziende ospedaliere di alta specialità da utilizzare per la conservazione e l’utilizzazione delle salme. Sempre questi centri di riferimento, dopo aver ricevuto le salme, saranno tenuti a restituire la salma stessa alla famiglia in condizioni dignitose entro un anno dalla data della consegna.

L’articolo 5 spiega che gli oneri per il trasporto della salma dal momento del decesso fino alla sua restituzione, le spese relative alla tumulazione, nonché le spese per l’eventuale cremazione, sono a carico delle istituzioni in cui hanno sede i centri che l’hanno presa in consegna.

L’articolo 6 sottolinea come l’utilizzo del corpo umano e dei tessuti post mortem non possa avere fini di lucro.

Nell’articolo 7 viene spiegato che entro tre mesi dall’entrata in vigore della legge, il Ministero della Salute con un proprio decreto dovrà adottare il regolamento di attuazione al fine di:
– stabilire le modalità e i tempi, comunque non superiori a due anni, per la conservazione, per la richiesta, per il trasporto, per l’utilizzo e per la restituzione in condizioni dignitose alla famiglia della salma da parte dei centri di riferimento, prevedendo che si possa procedere alla sepoltura delle salme per cui la famiglia di appartenenza non richiede la restituzione;
– indicare le cause di esclusione dell’utilizzo delle salme ai fini di cui alla presente legge;
– individuare le modalità applicative volte a garantire il rispetto del limite di spesa.
Proprio i limiti di spesa sono trattati nell’articolo 8, laddove si stabilisce che il limite per il trasporto, la tumulazione o la cremazione delle salme è di 2 milioni di euro annui a decorrere dal 2014.

Infine, viene abolito con l’articolo 9, l’articolo 32 del Regio Decreto n. 1592 del 31 agosto 1933, che riservava all’insegnamento e alle indagini scientifiche quei corpi che non venivano richiesti dai familiari.

Giovanni Rodriquez
(Fonte: Quotidiano Sanità)
(Approfondimenti: http://www.quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=773780.pdf)

Divorzio breve, una fretta rischiosa

30 maggio 2014

Un divorzio velocissimo approvato a tempi di record. Se non interverranno modifiche al Senato, sarà possibile – in base al testo licenziato il 29 maggio dalla Camera con ampia convergenza di voti – sciogliere definitivamente un vincolo coniugale dopo un anno soltanto di separazione giudiziale, in luogo degli attuali tre, e sarà vero e proprio divorzio lampo (sei mesi) in caso di separazione consensuale, al di là della presenza o meno di figli all’interno del nucleo.

Si sono contati alla fine ben 381 voti a favore e solo 30 contrari, 14 gli astenuti, in virtù di una schiacciante maggioranza trasversale saldata dai due relatori Alessandra Moretti del Pd (che ha annunciato poi il suo abbandono, optando per lo scranno di Strasburgo) e Luca D’Alessandro di Fi. Un esito in parte annunciato, complice però l’accelerazione impressa ai lavori, con il termine per presentare gli emendamenti fissato alla chetichella per il lunedì post-elettorale, e sfuggito ai più.
Le proposte del forzista Fabrizio De Stefano volte essenzialmente (al pari di quelle che erano state avanzate in Commissione Giustizia da Alessandro Pagano, del Ncd) a tutelare i figli sono state bocciate con un esito schiacciante, che già fotografava i numeri pro e contro sanciti alla fine dal presidente di turno Roberto Giachetti e tristemente sottolineati da un applauso dell’assemblea.

«Non credo si possa parlare di conquista, tanto meno definirla storica», è intervenuto in serata monsignor Nunzio Galantino. «Il divorzio sprint non darà nessun contributo». E si rischia la «deriva culturale». Il segretario della Cei rimarca un «riflettere senza un confronto», con il rischio di «sfasciare tante famiglie», mentre «la riflessione, il più delle volte, farebbe prevalere il buon senso e porterebbe a risolvere i tanti problemi che comunque ci sono».

Il testo approvato il 29 maggio interviene sulla disciplina dello scioglimento del matrimonio regolata dalla Fortuna Baslini del 1970 e poi confermata dal referendum di 40 anni fa. Con un ulteriore intervento sul Codice civile si anticipa, se presente, anche lo scioglimento della comunione dei beni tra i coniugi. I gruppi politici si sono tutti espressi a favore del provvedimento, con l’eccezione dei Popolari per l’Italia-Udc e della libertà di coscienza disposta dalla Lega, con alcune significative di aperto dissenso.

«Questo testo – ha sostenuto Massimiliano Fedriga – spazza via una norma finalizzata alla possibile riconciliazione, e viene incontro a chi ha il preciso interesse a sancire la rottura del vincolo familiare».
Appassionati nel Ncd gli interventi contrari di Eugenia Roccella e Alessandro Pagano. Quest’ultimo a ricordare il «trauma pressoché insuperabile per un figlio, come ci ricordano gli psicologi», della separazione dei genitori. Con i dati Istat, che nel 2012 hanno registrato che «il 40 per cento delle separazioni pronunciate dal 1998 al 2010 non è sfociato in divorzio». Invece è passato ieri alla Camera il dato di un misero 2 per cento di separazioni che approderebbe alla riconciliazione. Dato contestato anche da Gianluigi Gigli, dei Popolari per l’Italia che ha rimarcato come si rischi di minare l’istituto stesso della famiglia fondata sul matrimonio sancito dalla Costituzione. Con il paradosso – ha fatto notare – che «c’è gente che preferisce risultare separata solo per godere dei benefici della separazione». Resta da seguire ora la seconda “lettura” del Senato. Ma i margini appaiono stretti su un testo che, per una volta, mette d’accordo con poche defezioni (Antonio Palmieri oltre a De Stefano, dentro Fi) Grillini, forzisti e Democratici. Con i senatori del Pd che promettono addirittura di fare gli «straordinari» per accelerare l’approvazione definitiva. Davvero poche, ieri, le voci in dissenso nel partito di Renzi. Beppe Fioroni ha motivato la sua astensione sostenendo che «l’istituto della famiglia va sostenuto e rafforzato».

Angelo Picariello
(Fonte: «Avvenire»)

© Bioetica News Torino, Giugno 2014 - Riproduzione Vietata