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15 Dicembre 2013
Supplemento Concerto al Santo Volto

Notizie dal mondo

1. Noi siamo donne donne. Non diversamente uomini

2 novembre 2013

In principio erano Lady Oscar e la Principessa Zaffiro, ma loro almeno lo facevano per il regno. La modella americana Elliott Sailors, superati i trent’anni, età ahimé non più così fresca per il settore, non trovando spazio nella moda si è riciclata come modello. Uomo. Ha tagliato i capelli cortissimi, si è fasciata il seno, ha abilmente messo in evidenza i tratti un po’ duri del suo bel viso e, soprattutto, ha approfittato a piene mani della confusione di genere.

Così, usando astuzia, intelligenza e perfetta conoscenza delle regole del gioco che fanno sì che gran parte della moda sia ostaggio di un cliché (non sei “cool” se non sembri gay), Elliott ha cominciato a frequentare i casting riservati agli uomini spuntando sempre un contratto. A parte l’ovvia considerazione che questo la dice lunga sulla mascolinità media dei modelli scelti, possibile che il modello androgino sia così radicato nella pubblicità da poterci proporre sovrapposizioni così incoerenti? Possibile che una donna debba negare la sua femminilità per vendere camicie di flanella e jeans cargo agli uomini?

C’è da dire che l’idea della Sailors, ampiamente supportata dal marito che ne intravede la luminosa carriera e sorride quando i passanti pensano che siano una coppia gay, non è così nuova. Prima di lei un’altra modella, Casey Legler, già nuotatrice olimpica per la Francia, è stata la prima donna ad aver sfilato esclusivamente come modello maschile: «È più facile lavorare come un uomo che come una donna”. E le due donne seguono pari pari, solo in senso contrario, le orme di Andrej Peijic, l’efebico modello australiano che calca indifferentemente le passerelle di moda donna e moda uomo, meritando elogi entusiasti per la sua “angelicità”.

Salvo rarissime eccezioni la moda non ama le donne per come sono, le preferisce inconsistenti, eteree, aguzze, inespressive. La mascolinizzazione dei modelli femminili, e la femminilizzazione di quelli maschili, tendono a rendere tutto tristemente uniforme a un unico e inesistente modello irreale. Qui non è in gioco la questione del sentirsi liberi di vestire in un modo o nell’altro, ma è piuttosto il veicolare surrettizio di un’ideologia che omologa, ammantandolo di apparente indifferenza. Sì, perché non è che gli stilisti o i fotografi dei casting ignorino di trovarsi di fronte un uomo o una donna. Lo sanno benissimo e giocano sullo scambio.

La modella, che pensa di prolungare la carriera perché ha messo nel sacco il circo della moda spacciandosi per uomo, finge di non capire che è ancora una volta lei ad essere sfruttata per vendere di più. Perché l’androginia vende, almeno fino al prossimo “terzo genere”. In fondo, il mondo della moda è il tassello luccicante di un puzzle più grande, che si basa su una distorta evoluzione della percezione dei confini di genere e secondo cui la vera uguaglianza si realizza solo se non se non vi è alcuna differenza.

Ma non si era scese in piazza per dire che noi donne eravamo orgogliosamente “differenti”? La parità sociale, politica, culturale, da perseguire ogni giorno e in ogni ambito, non può passare attraverso la negazione di ciò che siamo e di come siamo. Non siamo diversamente uomini, siamo donne. Vorremmo non si facesse confusione sul punto.

Emanuela Vinai

(Fonte: «Sir»)

2. Gli psichiatri Usa sdoganano la pedofilia, da malattia a “orientamento”

5 novembre 2013

La stampa conservatrice parla già di “mainstreaming della pedofilia”, della sua definitiva normalizzazione. I liberal più militanti esultano per la “destigmatizzazione della pedofilia”. È successo che l’Associazione degli psichiatri americani, una delle più importanti associazioni scientifiche del mondo, ha modificato nel suo ultimo manuale la linea sulla pedofilia: non più “disordine” ma “orientamento” come gli altri. In sostanza, le “attenzioni” degli adulti nei confronti dei bambini non sono più considerate un “disturbo”.

La decisione è stata subito denunciata dall’Associazione della famiglia americana e va a completare un ciclo di ripensamenti della pedofilia cominciato negli anni Cinquanta. Una sorta di evoluzione linguistica che indica però una trasformazione culturale. Nel precedente Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, una specie di “bibbia” occidentale per gli psichiatri, il manuale usato per i trattamenti psichiatrici e che si prefigge l’obiettivo di «fornire alla comunità psichiatrica internazionale un linguaggio comune sui disturbi mentali basato sull’evidenza scientifica», la pedofilia era stata declassata da “malattia” a “disordine”, a un “orientamento sessuale o dichiarazione di preferenza sessuale senza consumazione”.

Adesso l’Apa, a tredici anni di distanza dall’ultima revisione del testo, fa un passo ulteriore: «Come l’Apa dichiarò negli anni Settanta che l’omosessualità era un orientamento sotto la forte pressione degli attivisti omosessuali, così ora sotto la pressione degli attivisti pedofili ha dichiarato che il desiderio sessuale verso i bambini è un orientamento», denuncia l’Associazione cattolica. Nel precedente manuale, a cui hanno lavorato oltre mille esperti in psichiatria, psicologia, assistenza sociale, pediatria e neurologia, si considerava “disordine mentale” quello di un molestatore di bambini, se la sua azione «causa sofferenze clinicamente significative o disagi nelle aree sociali, occupazionali o in altri importanti campi».

La pedofilia viene definita “amore intergenerazionale”. Una trasformazione avvenuta sotto la spinta degli studi di Alfred Kinsey, il guru della rivoluzione sessuale occidentale che ha ispirato molti studi psichiatrici in campo sessuale. Nel suo secondo Rapporto c’è un paragrafo intitolato «Contatti nell’età prepubere con maschi adulti», nel quale vengono descritti rapporti sessuali tra adulti e bambini: «È difficile capire per quale ragione una bambina, a meno che non sia condizionata dall’educazione, dovrebbe turbarsi quando le vengono toccati i genitali, oppure turbarsi vedendo i genitali di altre persone, o nell’avere contatti sessuali ancora più specifici».

Già nel 1998 il prestigioso «Bollettino di psichiatria» aveva pubblicato uno studio di tre professori (Bruce Rand della Temple University, Philip Tromovitch della Università della Pennsylvania e Robert Bauserman della Università del Michigan) che per la prima volta ridefinivano l’espressione e il significato di “abuso sessuale sui bambini”. Si legge nel volume che «questi studi dimostrano che le esperienze sofferte da bambini, sia maschi che femmine, che hanno avuto abusi sessuali sembrano abbastanza moderate. Essi asseriscono inoltre che l’abuso sessuale su un bambino non necessariamente produce conseguenze negative di lunga durata».

Dopo le accuse questa settimana di aver normalizzato la pedofilia, l’Associazione degli psichiatri ha detto che rettificherà il nuovo manuale, distinguendo stavolta fra “pedofilia e disordine pedofiliaco”. Se la seconda resta una patologia psichiatrica, la prima diventerà “un orientamento normale della sessualità umana”. Il discrimine è nella mano che accarezza? Sofismi da parte di chi per anni, nelle aule dei tribunali americani e sui media, ha scatenato la caccia alla chiesa cattolica a suon di psichiatri- testimoni e che adesso considera la pedofilia al pari di ogni altro comportamento sessuale. D’altronde questa è la forza di chi scrive i manuali scientifici: un disturbo psichiatrico non esiste se non c’è nel manuale degli psichiatri americani. È il potere di scrivere, letteralmente, la realtà.

Giulio Meotti
(Fonte: Il Foglio quotidiano)

3. Disturbi depressivi pesano sulla società

7 novembre 2013

La depressione pesa sulla società: non solo è tra le principali cause di disabilità, ma aumenta in modo significativo le probabilità di suicidio o cardiopatia ischemica. Lo afferma Harvey Whiteford, professore di psichiatria all’Università del Queensland in Australia e coordinatore di uno studio pubblicato su «PLoS Medicine».

«La depressione è un disturbo mentale comune che può comparire anche a tre anni di età e in tutte le zone del mondo. Gli studi Global Burden of Disease (Gbd) svolti nel 1990 e nel 2000 avevano contribuito a spostare l’attenzione internazionale sui disturbi depressivi, elencandoli tra le principali malattie che pesano sulla società», sottolinea Whiteford. Tali studi rappresentano un importante metro di misurazione della salute che genera stime sul carico sociale di fattori come il fumo, gli incidenti o le malattie, capaci di orientare politiche e programmi sanitari e sociali.

«Il Gbd del 1990 classificava la depressione come quarta causa di disabilità a livello mondiale, pari al 3,7% di tutti i Daly, cioè gli anni di vita persi per disabilità. Nel Gbd del 2000, invece, la depressione era la terza causa di oneri sociali, pari al 4,3% di tutti i Daly», continua lo psichiatra. Ma nel Gbd 2010, coordinato dall’Institute for Health Metrics and Evaluation di Seattle, in collaborazione con l’Harvard University, l’Imperial College, la Johns Hopkins University, l’Organizzazione mondiale della sanità e le Università del Queensland e di Tokyo, le cose sono cambiate. Il numero delle condizioni prese in considerazione è salito a 291, e quello dei fattori di rischio a 67. E i Daly sono stati ricalcolati tenendo conto della tendenza osservata a partire dal 1990, con proiezioni al 2030. Il tutto diviso in 21 regioni che comprendono l’intero globo.

E su «PLoS Medicine» i ricercatori australiani hanno messo a fuoco la depressione, scoprendo che i disturbi depressivi maggiori (Mdd) rappresentano il 2,5% dei Daly globali, con variazioni tra le diverse regioni mondiali dal 1,9 al 3,2%, con incidenza maggiore tra le donne e tra gli adulti in età lavorativa. Ma non è tutto: questi disturbi sono anche responsabili di 16 milioni di DALY per suicidio e di quasi 4 milioni di DALY per malattie cardiache ischemiche. Ciò ne aumenta il carico sociale fino al 3,8% dei DALY globali.

«Questi dati sottolineano l’importanza di includere i disturbi depressivi tra le priorità di salute pubblica, attuando interventi efficaci per ridurne il peso sociale», conclude Whiteford.

(Fonte: «Doctor33»)
(Approfondimenti: http://www.plosmedicine.org/article/info%3Adoi%2F10.1371%2Fjournal.pmed.1001547)

4. Usa, Senato approva legge contro la discriminazione gay sul lavoro

8 novembre 2013

Il Senato americano ha approvato una legge contro ogni tipo di discriminazione ai danni di lavoratori gay, lesbiche, bisessuali e trans. La norma passerà adesso al vaglio della Camera. I voti favorevoli sono stati 64, mentre 32 sono stati i contrari, ma ben 10 senatori repubblicani si sono uniti alla maggioranza democratica. Un numero che rappresenta una speranza per il via libera finale alla Camera, dove sono i conservatori ad avere la maggioranza dei seggi.

Ancora però tutto è incerto. Lo speaker della Camera, John Boehmer, repubblicano, si è detto contrario alla sua approvazione e ha bollato il provvedimento come «inutile e costoso in termini di spese legali per le aziende». Sarà un test per la tenuta dei conservatori, che, come in occasione del voto per lo shutdown, potrebbe vedere la maggioranza spaccarsi a metà tra gli oltranzisti contrari al provvedimento, e l’ala più moderata che potrebbe anche optare per un voto favorevole.

Il presidente degli Stati Uniti ha definito un “passo storico” il voto del Senato: «È una decisione che spinge l’America verso la realizzazione dei nostri ideali di libertà e giustizia. Chiedo alla Camera di votare quel testo e inviarlo alla mia scrivania in modo da trasformarlo in legge». Lo stesso Obama si era già espresso in favore della proposta di legge sul sito americano dell’«Huffington Post»: «Negli Stati Uniti, chi sei e chi ami non potranno mai essere due elementi per poter licenziare» una persona.
Durante i tre giorni di discussione sul testo, i sostenitori hanno descritto la norma come un provvedimento che avrebbe la stessa importanza che ebbe il Civil Rights Act del presidente Lyndon Johnson cinquant’anni fa, che concesse pari diritti civili a tutti, cancellando ogni discriminazione di tipo razziale.
La legge federale in vigore proibisce la discriminazione sulla base di sesso, razza e religione. Ma non può fermare un datore di lavoro che voglia licenziare o rifiutare di assumere un dipendente perché omosessuale. Con questo provvedimento si vieta alle aziende con più di 15 dipendenti di sfruttare l’orientamento sessuale come la base per prendere decisioni di tipo lavorativo.

L’Employment Non Discrimination Act (Enda) rappresenta una vittoria storica per il movimento gay americano e mondiale. Il lavoro sulla legge era iniziato 17 anni fa, ma fu più volte abbandonato. «Era tempo per il Congresso di approvare una legge federale che assicuri a tutti i nostri cittadini di andare al lavoro senza avere paura di essere chi sono», ha affermato Harry Reid, capogruppo della maggioranza democratica al Senato. Nel 2006, quando i democratici presero il controllo del Congresso (con 60 seggi su 100) decisero di mettere da parte la bozza, temendo di poter far diminuire la popolarità dei politici democratici moderati eletti in stati conservatori.  Il voto arriva al culmine di un anno pieno di vittorie per i movimenti gay. Lo scorso giugno la Corte Suprema ha confermato la validità dei matrimoni gay e ha concesso benefici legali alle coppie sposate. Il 6 novembre l’Illinois ha approvato l’adozione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso, diventando così il 15esimo stato americano a renderli legali.

(Fonte: «la Repubblica»)

5. L’epidemia di poliomielite in Siria è una minaccia per l’Europa

8 novembre 2013

Un gran numero di persone è oggi in fuga dalla Siria, alla ricerca di un rifugio negli Stati vicini e in Europa. E c’è la possibilità che il virus della poliomielite che sta circolando nel Paese possa essere reintrodotto in aree che sono state «polio-free» per decenni. È quanto evidenziano su «The Lancet» gli infettivologi Martin Eichner dell’Università di Tubinga e Stefan Brockmann del Reutlingen Regional Public Health Office (Germania).

I DUE TIPI DI VACCINO – Gli esperti spiegano che i Paesi europei oggi utilizzano il vaccino antipolio inattivato (Ipv), piuttosto che la vaccinazione antipolio orale (Opv), che è stata interrotta in molte aree a causa del rischio di paralisi acuta. L’Ipv è altamente efficace nel prevenire la poliomielite, ma fornisce solo una protezione parziale contro l’infezione. In Europa, dove il virus della poliomielite non circola più da decenni, la trasmissione può essere evitata solo se la copertura vaccinale con Ipv è molto alta e se la popolazione ha elevati standard igienici e basso affollamento.

IMMUNITÀ DI GREGGE – Gli autori avvertono quindi che nelle regioni d’Europa dove la copertura vaccinale è bassa (tra cui la Bosnia-Erzegovina , Ucraina e Austria) l’immunità cosiddetta «di gregge» potrebbe non essere sufficiente per prevenire la trasmissione sostenuta del virus della polio, una volta che esso verrà reintrodotto nella comunità. Inoltre, poiché solo un’infezione su 200 causa la malattia sintomatica, gli autori calcolano che il virus potrebbe rimanere in circolazione per quasi un anno prima che si evidenzi un singolo caso o possa essere identificato un focolaio. Per gli esperti «vaccinare solo i profughi siriani», come è stato raccomandato dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie, è insufficiente. Dovrebbero essere prese in considerazione misure più incisive.

I VACCINI IN SIRIA – Nel tentativo di stroncare sul nascere la possibilità di un ritorno della polio in Medio Oriente a partire dal focolaio confermato in Siria, l’Oms ha deciso di vaccinare oltre 20 milioni di bambini in tutta l’area. Il piano originario per far fronte alla possibile emergenza era di vaccinare due milioni e mezzo di bambini in Siria e altri sei milioni in sei paesi confinanti, ma dopo la conferma del focolaio siriano il numero verrà raddoppiato, rendendo necessarie 50 milioni di dosi, parte delle quali verranno “stornate” da altri programmi.

«Se c’è una reinfezione in Medio Oriente – ha spiegato Bruce Aylward dell’Oms riportato dal «New York Times» – serve uno sforzo più massiccio». Il primo focolaio di polio dal 1999 a questa parte è stato registrato in Siria nelle settimane scorse e ha paralizzato 10 bambini e rischia, secondo l’Oms, di affliggerne altre centinaia di migliaia nella regione. Prove preliminari indicano che il virus è di origine pakistana, ma si è ancora in attesa dei risultati sulla sequenza genetica. La poliomielite è ancora endemica in Pakistan, così come in Nigeria e Afghanistan.

IN ITALIA – «In Italia i tassi di copertura per la vaccinazione antipolio sono altissimi, superiori al 95%, e questo ci mette al sicuro perché è dimostrato scientificamente che un virus non può circolare in una popolazione con una copertura così alta – spiega Carlo Signorelli, vicepresidente della Societa Italiana di Igiene e Medicina Preventiva – certo, le persone in arrivo rappresentano un possibile rischio, ed è per questo che si deve far sì che i livelli restino alti».

(Fonte: «Corriere della Sera Salute»)
(Approfondimenti: http://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(13)62220-5/fulltext)

6. Computer e video non migliorano la salute mentale

8 novembre 2013

Sistemi multimediali che prevedono l’utilizzo di video e computer possono facilitare il riconoscimento e la gestione della depressione e riescono a stimolare la richiesta di informazioni sull’argomento, ma non riescono a migliorare realmente la salute mentale. È questa la conclusione alla quale sono giunti Richard L. Kravitz, dell’Università della California, e i suoi colleghi dopo aver portato a termine uno studio che ha coinvolto poco meno di 900 persone depresse e non.

«Nonostante i passi avanti compiuti negli anni, la depressione spesso non viene riconosciuta nel contesto di visite di assistenza primaria e di conseguenza il disturbo non viene trattato», afferma l’autore per spiegare il razionale alla base dello studio appena pubblicato sulla rivista «Jama». Partendo da queste osservazioni, Kravitz e colleghi hanno valutato se, grazie a strategie di comunicazione più mirate, fosse possibile migliorare il coinvolgimento dei pazienti e la prescrizione di farmaci ad hoc o di visite specialistiche. E per raggiungere il loro obiettivo i ricercatori hanno confrontato i risultati ottenuti con l’ausilio di video che miravano a un coinvolgimento attivo nei confronti della depressione, programmi multimediali interattivi basati sull’uso del computer o un video con consigli per migliorare la qualità del sonno (considerato come controllo).

Tutti questi strumenti sono stati utilizzati immediatamente prima della visita vera e propria su 559 pazienti depressi e 308 non depressi. «Nelle persone depresse, l’utilizzo di sistemi mirati e personalizzati anche in base a età, sesso e reddito, ha permesso di migliorare il riconoscimento e la gestione della depressione, e ha anche stimolato una maggior partecipazione dei singoli pazienti che hanno chiesto informazioni sulla malattia», spiega Kravitz commentando i risultati dello studio. Le percentuali di raggiungimento dell’obiettivo primario (prescrizione di farmaci antidepressivi e/o richiesta di visita specialistica) si sono attestate infatti su 17,5% con il video relativo alla depressione, 26% per il programma multimediale interattivo e 16,5% per il video di controllo. «Va detto però che dopo 3 mesi la depressione non ha mostrato miglioramenti significativi», conclude l’autore che ricorda anche come per i pazienti non depressi non siano stati osservati danni causati dall’uso di queste particolari strategie di comunicazione, come per esempio la prescrizione di farmaci o visite inutili.

(Fonte: «Doctor33») 
(Approfondimenti: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24193079)

7. Belgio: le persone fragili minacciate dall’eutanasia. Dichiarazione congiunta firmata dai capi religiosi

8 novembre 2013

In un comunicato congiunto diffuso il 7 novembre, i leader religiosi del Belgio hanno espresso la loro «viva inquietudine» per il dibattito politico sull’eutanasia nel Paese. Il Parlamento nazionale di Bruxelles ha avviato infatti un dibattito che mira ad ampliare ai minorenni e alle persone dementi la legge del 2002, che legittima l’eutanasia nel Regno.

«Mentre il Parlamento prende nuovamente in esame una possibile estensione della legge del 2002 che depenalizza l’eutanasia, vogliamo ancora una volta far sentire la nostra voce in questo dibattito che riguarda tutta la società, sia come cittadini che si basano su argomenti filosofici, sia come credenti eredi delle nostre rispettive tradizioni religiose». Così scrivono i diversi firmatari, rimarcando la loro «opposizione a queste estensioni» ed esprimendo «viva inquietudine di fronte al rischio di banalizzazione crescente di una realtà tanto grave». «Siamo contro la sofferenza, sia fisica che morale, in particolare quella dei bambini», sottolineano i capi religiosi, «ma proporre che minorenni possano decidere della propria eutanasia è un modo di falsare la loro facoltà di giudizio e quindi la loro libertà».

Inoltre, si legge nel testo, «proporre che persone con demenza possano essere sottoposte all’eutanasia è una negazione della loro dignità e abbandonarle al giudizio, anzi all’arbitrio, di chi prende questa decisione». Tra l’altro, estendere l’attuale legge significa anche fare pressione sui medici e sul personale infermieristico per compiere «un atto cosiddetto medico», avverte la nota. «Invece di sostenere la persona sofferente, unendo attorno ad essa tutte le persone e le forze che la circondano – evidenzia il comunicato – si rischia proprio di dividere queste forze e quindi di isolare questa persona sofferente, di colpevolizzarla e di condannarla a morte».

Secondo i firmatari, «il consenso previsto dalla legge tende a diventare sempre di più una realtà senza consistenza. La libertà di coscienza delle persone coinvolte rischia di non essere più salvaguardata». «L’eutanasia delle persone fragili, bambini o persone con demenza, è una contraddizione radicale della loro condizione di esseri umani», ammoniscono i leader religiosi del Belgio, che concludono dicendo di non poter «entrare in una logica che conduce a distruggere le fondamenta della società». La dichiarazione congiunta è stata firmata dai capi delle maggiori Chiese cristiane: monsignor André-Joseph Léonard, arcivescovo di Malines-Bruxelles e presidente della Conferenza Episcopale belga; il metropolita greco-ortodosso Panteleimon Kontogiannis; il pastore Steven Fuite, presidente della Chiesa protestante unita; il canonico Robert Innes, del Comitato centrale della Chiesa anglicana in Belgio, e Geert Lorein, del Sinodo federale delle chiese protestanti ed evangeliche. Con loro, tra i firmatari, anche il Gran rabbino di Bruxelles, Albert Guigui, e il presidente dell’Esecutivo dei musulmani in Belgio, Semsettin Ugurlu.

(Fonte: «Zenit»)

8. Suicidi in aumento tra giovani a un anno da diagnosi cancro

11 novembre 2013

Secondo uno studio svedese pubblicato su «Annals of Oncology», negli adolescenti e nei giovani adulti sale il rischio di suicidio durante i 12 mesi immediatamente successivi a una diagnosi di cancro. I ricercatori del Karolinska Institutet di Stoccolma hanno infatti valutato il tasso suicidario in quasi 8 milioni di giovani, rilevando che nelle 12.669 persone tra 15 e 30 anni di età per i quali era stata emessa diagnosi di tumore maligno, le probabilità di tentare o commettere suicidio nell’anno successivo alla scoperta erano più che raddoppiate.

«Scoprirsi ammalati di cancro è un evento alquanto stressante, e il profondo disagio del paziente può non solo compromettere la qualità della vita, accelerando la progressione della malattia, ma anche causare una mortalità non correlata al tumore tra cui il suicidio», afferma Donghao Lu, del Dipartimento di epidemiologia medica e biostatistica del Karolinska.

Studi precedenti stimano che il rischio di suicidio tra i pazienti affetti da cancro negli Stati Uniti è circa il doppio rispetto a quello della popolazione generale, specie subito dopo la diagnosi. Tuttavia la casistica trattata è fatta principalmente da adulti e, per quanto se ne sa, sono pochi gli studi svolti su giovani e adolescenti, un’età dove il suicidio è riconosciuto essere la seconda più comune causa di morte nel mondo.

«In Svezia il tasso di comportamenti suicidi nei giovani tra i 19 e i 23 anni è progressivamente aumentato tra il 1995 e il 2005, in netta controtendenza rispetto alle altre fasce d’età, ma mancano studi sull’eventuale comportamento suicidario in relazione a una diagnosi di cancro tra i giovani», riprende Lu, che per chiarire l’argomento ha usato i registri nazionali svedesi. «Il raddoppio di suicidi, tentati o completati, osservato in questo studio sembra simile a quello osservato negli adulti più anziani nel medesimo periodo dopo la diagnosi», continua l’epidemiologo. E conclude: «Fortunatamente la schiera di sopravvissuti al cancro infantile continua a crescere, e spetta quindi al sistema sanitario garantire le migliori cure non solo del corpo, ma anche della mente dei giovani pazienti oncologici».

(Fonte: «Doctor33»)
(Approfondimenti: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24169626)

9. «Uno di noi»: consegnate le firme al Viminale

11 novembre 2013

L’atmosfera che aleggia nella sala stampa del Viminale è carica di soddisfazione. Nel giorno in cui si consegnano le firme raccolte per la campagna Uno di noi, gli organizzatori gongolano. E ne hanno ben donde. Infatti, il totale delle persone che hanno sottoscritto la propria adesione, per chiedere all’Unione Europea il riconoscimento della dignità umana dell’embrione, ha raggiunto la ragguardevole quota di 1.891.406.

Non è tutto: tale cifra è destinata a lievitare ancora, giacché le firme raccolte su carta (a differenza di quelle digitali) necessitano di un processo di controllo particolarmente scrupoloso e lento.

«Il risultato è davvero straordinario», afferma Carlo Casini, presidente del Movimento per la Vita e del comitato italiano Uno di Noi. Gli fa eco Michele Trotta, coordinatore per l’Italia della campagna, il quale esulta: «Abbiamo gettato il cuore oltre l’ostacolo».

L’iniziativa, del resto, era partita nello scetticismo generale. Nell’aprile 2012 in pochi si sarebbero immaginati che si potesse raggiungere quel milione di adesioni fissato dal Trattato di Lisbona come soglia minima per l’accoglimento di petizioni europee promosse dai cittadini. Ora che la cifra fissata come requisito base potrebbe essere persino raddoppiata, l’entusiasmo pervade gli animi di quanti si sono adoperati per raggiungere l’obiettivo. Prima della consegna agli addetti del Ministero dell’Interno dei settanta pacchi contenenti i fogli con le oltre 600 mila firme raccolte in Italia, gli organizzatori hanno tenuto una conferenza stampa per tracciare un bilancio dell’iniziativa e annunciare i prossimi passi.

Il presidente Carlo Casini, ringraziando tutti i volontari che hanno permesso il raggiungimento di un simile traguardo, ha parlato di una lodevole esperienza di democrazia diretta. Finora, su più di trenta tentativi, soltanto altre due petizioni europee erano riuscite a superare, seppur per poco, la soglia di un milione di firme (una petizione per l’acqua potabile e un’altra contro la vivisezione).  «In un momento di grandi lacerazioni – ha aggiunto Casini – lo straordinario risultato di Uno di Noi rappresenta una testimonianza di unità e pacificazione tra i cittadini, di ogni confessione e Paese, in nome della dignità umana e dei diritti dell’uomo». Casini ha quindi posto l’accento sul “valore ecumenico” dell’iniziativa: «C’è stata un’adesione molto forte da parte di Paesi cristiani ortodossi come la Grecia, Cipro e soprattutto la Romania, oltre che di Paesi protestanti: l’Olanda è stato il primo Paese a presentare la raccolta». L’Italia, con le sue 600 mila firme, guida la classifica staccando la Polonia, seconda a quota 250 mila. «È da qui che bisogna ricominciare – ha concluso Casini – per creare un rinnovamento civile e morale su scala europea».  L’eventuale riscontro positivo da parte dell’Ue alla richiesta in questione non vincolerà gli Stati in materia di temi sensibili. «Le istituzioni europee non possono imporre agli Stati di non liberalizzare l’aborto o di non effettuare ricerche sugli embrioni vivi, ma possono decidere se elargire finanziamenti ad attività che portano alla distruzione dell’uomo anche nella fase embrionale».

Il rispetto dell’embrione umano è stato già sancito – ricorda il comitato Uno di noi – dalla sentenza del 2011 della Corte europea nota come “sentenza Brüstle”. In quell’occasione i giudici stabilirono la non brevettabilità di cellule umane vive ai fini della ricerca scientifica. La sentenza accolse il principio per cui «sin dalla fase della sua fecondazione, qualsiasi ovulo umano deve essere considerato come un embrione umano, dal momento che la fecondazione è tale da dare avvio al processo di sviluppo di un essere umano».

Pertanto il comitato Uno di noi altro non chiede che le Istituzioni dell’Unione agiscano coerentemente con quanto la Corte ha già riconosciuto. Prima di sapere la risposta di Bruxelles a questa richiesta passerà però ancora qualche mese. Carlo Casini ha spiegato che, una volta consegnate le firme di tutti i Paesi all’Unione europea, bisognerà attendere tre mesi per le ulteriori verifiche e la registrazione della richiesta. Terminata questa fase, la Commissione europea sarà obbligata, entro altri tre mesi, a dare una risposta, la quale dovrà essere preceduta da un’audizione ad alto livello degli organizzatori.  A quel punto, almeno un risultato sarà stato sicuramente ottenuto: l’ingresso del dibattito sul diritto dell’embrione umano – invocato da 2 milioni di cittadini – nell’agenda dell’Unione europea.

Federico Cenci
(Fonte: «Zenit»)

10. Conflitto di interessi in ambito medico: studio britannico lo riporta alla ribalta

13 novembre 2013

Gli universitari con interessi nell’industria farmaceutica erano più propensi a parlare sulla stampa dei rischi della pandemia di influenza suina verificatasi nel 2009-10, dichiarandosi a favore di farmaci e vaccini, rispetto ai loro colleghi senza tali interessi. È quanto emerge da uno studio pubblicato sul «Journal of Epidemiology & Community Health».

«Durante la pandemia sono stati spesi nel Regno Unito circa un miliardo di sterline in farmaci, compresi gli antivirali inibitori della neuraminidasi. E il vaccino anti H1n1 è stato venduto in una quantità di dosi stimata tra 4 e 6 miliardi di sterline» spiega Kate Mandeville, ricercatrice al Department of Global Health and Development, London School of Hygiene and Tropical Medicine di Londra, coautrice dell’articolo. E dopo il salasso è sorto qualche dubbio sull’eventuale conflitto di interessi che gli esperti dei comitati scientifici consultivi, compreso il Comitato di emergenza dell’Organizzazione mondiale della sanità, potevano avere con le aziende farmaceutiche.

Per vederci chiaro Mandeville e colleghi hanno analizzato le rassegne stampa quotidiane, media radiotelevisivi esclusi, sulla pandemia tra aprile e luglio 2009, periodo in cui sono state prese le decisioni importanti sul modo di rispondere alla minaccia dell’influenza suina. I ricercatori hanno selezionato 425 articoli con pareri pro o contro farmaci e vaccini, analizzando gli interessi privati di ogni accademico citato mediante le dichiarazioni di conflitto di interesse, le fonti di finanziamento dettagliate sui profili personali, le ricerche su Google e le dichiarazioni di finanziamento scritte su tutte i lavori pubblicati nei quattro anni precedenti. Tutto è stato annotato: sovvenzioni, onorari, cachet da relatore, consulenze, azionariato e gli altri eventuali interessi in gioco.

«Durante il periodo di studio il ministro della Salute è stata la fonte più citata, con una copertura del 34% degli articoli, seguito dai docenti universitari (30%). E tra i 61 accademici citati, un terzo aveva interessi in conflitto. E gli editori della rivista, Martin Bobak e Jim Dunn, commentano: «Questi dati dimostrano che le consulenze scientifiche possono spesso essere influenzate da interessi economici non dichiarati. E dal punto di vista di un editore questo è un fatto inquietante a causa dei limiti che le riviste hanno nello stabilire i conflitti di interesse degli autori».

(Fonte:«Doctor 33»)

(Approfondimenti: http://jech.bmj.com/content/early/2013/10/30/jech-2013-203128.abstract?sid=10c656b9-1da1-4349-a2f1-d58276c77902)

11. La Cina corregge il figlio unico

14 novembre 2013

Un’incrinatura, non una rivoluzione. Un aggiustamento, non una radicale revisione di quello che è stato il più ambizioso (e tragico) esperimento di ingegneria sociale mai attuato nella storia. La Cina è pronta a correggere la politica del figlio unico, una strategia che ha “inchiodato” negli anni la crescita della popolazione, impedendo la nascita di almeno 400 milioni di bambini.

Il cambiamento – voluto dal terzo Plenum del Comitato centrale del Partito comunista che si è concluso il 12 novembre a Pechino – non è dettato da considerazioni di carattere morale o da conquiste “libertarie”. Ma da preoccupazioni legate all’andamento demografico del gigante asiatico. Qual è, allora, il primo passo deciso dal Partito? Consentire alle coppie, nelle quali uno dei due genitori sia a sua volta un figlio unico, di avere più di un bambino, “privilegio” questo fino ad oggi riservato soltanto alle coppie composte da due figli unici.  La “svolta” è l’ennesima conferma del realismo con il quale si muove la classe politica cinese. Tatticismo che nasce dai guasti prodotti dalla legge introdotta ufficialmente nel 1979 – la sperequazione tra maschi e femmine, ad esempio – e dai suoi spaventosi costi sociali e umani: basti pensare ai 13 milioni di aborti praticati nel Paese ogni anno.

Come ha riconosciuto la nota rivista «Caixin», che ha anticipato i risultati del Plenum, «la Cina è diventata una vittima del proprio successo nel controllo della popolazione». Gli indicatori sono tutti preoccupanti. Il tasso di fertilità è sceso a 1,5 figlio per donna, soglia giudicata allarmante dagli esperti. Secondo le Nazioni Unite, la popolazione cinese raggiungerà il picco di 1,45 miliardi nel prossimo decennio, per poi declinare (e invecchiare). Se trenta anni fa, solo il 5 per cento della popolazione aveva più di 65 anni, oggi quella fascia si è ingrossata fino a raggiungere quota 123 milioni, il 9 per cento del totale.

Secondo cifre riportate dal sito «Diplomatic», entro il 2050 gli anziani del Paese saranno 330 milioni, vale a dire pari a un quarto della popolazione dell’intero Dragone. Entro il 2020, poi, la Cina passerà da 944 milioni a 920 milioni di lavoratori. Poi – come scrive Agi China 24 – ci sarà «il crollo: la forza lavoro conterà solo 877 milioni di persone entro il 2030 e 823 milione nel 2040».

L’inversione, o quanto meno la relativa liberalizzazione delle nascite, avrebbe effetti benefici a cascata sulla società e l’economia cinese. Primo: tamponerebbe la carenza di manodopera, già patita dall’economia del Dragone. Renderebbe, poi, più sostenibile il sistema della previdenza sociale. E ridurrebbe i costi dell’elefantiaca macchina burocratica deputata al controllo delle nascite (un esercito di 400 mila impiegati). Ma avrebbe anche un ritorno politico, eliminando o almeno riducendo la “presa” di uno dei provvedimenti più odiati dai cinesi. E, soprattutto, darebbe fiato a una società che nell’abolizione della famiglia tradizionale vede una delle ferite più gravi mai prodotte sul suo tessuto. Quel culto degli anziani (e degli antenati) reso di fatto impossibile a figli unici troppo soli.

Luca Miele

(Fonte: «Avvenire»)

12. Giovani e cinema: sparatorie film istigano a violenza

15 novembre 2013

In tema di violenza armata al cinema i divieti ai minori mostrano seri limiti, e i film PG-13 battono gli R-rated, almeno secondo uno studio pubblicato su «Pediatrics», finanziato dall’Annenberg Public Policy Center dell’Università di Pennsylvania e dalla Robert Wood Johnson Foundation. «Sono le pellicole vietate ai minori: PG-13, proibite sotto i 13 anni e R-rated sotto i 16» puntualizza Daniel Romer, psicologo all’Annenberg e coautore dell’articolo. «Secondo i nostri dati la violenza nei film è più che raddoppiata dal 1950, e quella armata nei PG-13 ha addirittura superato le proiezioni R-rated» aggiunge il ricercatore, spiegando che in molte sparatorie avvenute realmente gli assassini indossavano uniformi, maschere da hockey o tenute da combattimento, proprio come nel copione di un film.

L’esempio più recente è del 20 luglio 2012: il ventenne James Holmes compra un biglietto per «The Dark Knight Rises» ad Aurora in Colorado. Circa 20 minuti dopo l’inizio Holmes lascia il teatro per tornare vestito di nero, con tanto di maschera antigas e giubbotto antiproiettile, lanciando candelotti lacrimogeni e sparando sulla folla. Dopo avere ucciso 12 persone, ferendone 70, dice alla polizia di essere il Joker. «L’episodio, come altri simili, suggerisce che la presenza di armi nei film può amplificare l’uso della violenza nei giovani», riprende lo psicologo, che assieme ai colleghi ha esaminato un campione dei primi 30 film di ogni anno dal 1950 ai giorni nostri, scoprendo che le scene violente sono raddoppiate e che quelle armate visibili nei film PG-13 sono più che triplicate dal 1985, anno di entrata in vigore del divieto, superando le pellicole R-rated.

«Ma i PG – 13 hanno fatto 5,7 miliardi di dollari al botteghino nel 2012, cioè oltre il 50 per cento del totale, nonostante siano solo il 18 per cento dei titoli»,  osserva il ricercatore. E rincara: «Invece di essere usato in modo appropriato per impedire ai ragazzi di vedere violenze che potrebbero rivelarsi dannose dal punto di vista psicologico, il divieto PG -13 viene spesso utilizzato come richiamo per fare cassa». E secondo Romer l’esposizione a modelli violenti, specie con l’uso delle armi per uccidere o ferire, aumenta le probabilità che l’osservatore sviluppi analoghi comportamenti aggressivi in cui entrano in gioco numerosi fattori. Tra questi la predisposizione genetica, il contesto socio-culturale nonché il livello di sviluppo cognitivo, affettivo e relazionale dello spettatore.

Un altro esempio è il film «Il cacciatore», famose le sue scene di roulette russa, che ai tempi indusse 29 giovani americani tra 8 e 31 anni, a spararsi un colpo in testa. «Con il dilagare delle sparatorie nei film, i giovani saranno più interessati ad acquistare e usare armi dopo averli visti», sostiene lo psicologo, sostenendo che la violenza armata si vende meglio del sesso, come insegnano numerosi altri film PG-13 violenti.

Ma Christopher Ferguson, esperto di violenza dei media e direttore del Dipartimento di psicologia alla Stetson University in Florida, non è convinto. «I dati presentati non correlano in modo diretto l’aumento della violenza armata nei film con quello nel mondo reale: se la prima cresce, la seconda, almeno tra i giovani negli Stati Uniti, è in calo. Lo studio distoglie invece l’attenzione dalle cause più probabili: povertà, disparità sociali e salute mentale».

(Fonte: «Doctor33»)

(Approfondimenti: http://pediatrics.aappublications.org/content/early/2013/11/06/peds.2013-1600.abstract)

13. Premio Sakharov 2013: Malala è sicura: «C’è speranza»

22 novembre 2013

«Ci sono tanti bambini che non desiderano un iPhone o una Playstation, ma solo un libro e una penna per scrivere. Non lasciamoli soli». Malala Yousafzai ha solo 16 anni, ma già da cinque si batte affinché nel suo Paese, il Pakistan, e in tutto il mondo, non sia negato il diritto all’istruzione ai minori, e specialmente alle ragazze. A 11 anni ha cominciato a scrivere un diario anonimo per la sessione in lingua urdu della Bbc on line, denunciando l’impossibilità di avere accesso alla scuola nella valle dello Swat per un divieto imposto dai talebani. Poi la sua battaglia si è trasferita sulle piazze, i media le hanno dato visibilità, finché nell’ottobre 2012 ha subito un attentato dal quale si è salvata per miracolo. Ma lei non si arrende e ripete incessantemente una parola: «Speranza».

“Icona globale” dei diritti. Malala è stata accolta nella sede dell’Euroassemblea a Strasburgo il 20 novembre: con una cerimonia semplice ma intensa le è stato conferito il Premio Sakharov 2013 per la libertà di pensiero. È la più giovane premiata delle 25 edizioni sinora svoltesi e ora il suo nome è accostato a personalità del calibro di Nelson Mandela, Alexander Dubcek, Aung San Suu Kyi, le Damas de blanco e Leyla Zana, Ibrahim Rugova e Kofi Annan, Reporter senza frontiere e Guillermo Farinas. Come loro è un simbolo della promozione dei diritti fondamentali e della democrazia. «Malala – come ha affermato Martin Schulz, presidente del Parlamento Ue, nel presentarla in emiciclo – è una giovane eroica, una icona globale, costretta a vivere lontano dal suo Paese perché minacciata di morte dai talebani. Malala ha portato la sua battaglia al di là delle frontiere, impegnandosi con tutta se stessa per assicurare un’istruzione alle ragazze e alle donne di tutto il mondo».  «Il 2013 segna i 25 anni di difesa e promozione dei diritti dell’uomo attraverso il Premio Sakharov», ha affermato ancora Schulz prima di dare la parola a Yousafzai. «Nel corso del tempo abbiamo riconosciuto e sostenuto la lotta di singoli individui e organizzazioni che, con coraggio, hanno preso posizione contro il razzismo e la repressione, la guerra e il terrorismo, la prigione e la tortura, in difesa dei propri diritti e di quelli altrui».

All’ingresso di Malala nell’aula parlamentare tutti gli eurodeputati si alzano in piedi e le tributano un lungo applauso. «Nel nome di Dio, generoso e misericordioso…»: inizia così l’intervento della giovane attivista dei diritti, con voce sottile ma ferma, il capo coperto da un tradizionale velo arancione. «Milioni di bambini nel mondo in questo stesso momento vivono nella fame, non hanno istruzione, vengono sfruttati. Questo dovrebbe scuotere le nostre coscienze», denuncia. «È difficile immaginare un mondo senza istruzione», sottolinea Malala, che ora è costretta a vivere nel Regno Unito per evitare le vendette dei suoi persecutori. Ricorda che nel suo «Paese le bambine non possono andare a scuola, subiscono violenze e abusi di ogni tipo, sono obbligate a vivere tra le quattro mura di casa, senza poter parlare liberamente, senza diritti. Obbligate a matrimoni precoci. Eppure c’è speranza… Nel mio Paese – aggiunge – ci sono guerra e terrorismo, eppure c’è speranza… Nel mondo c’è povertà, ma c’è speranza… C’è speranza perché siete qui, siamo qui, insieme, a denunciare queste ingiustizie e perché ci batteremo insieme, per aiutare queste bambine, questi ragazzi. Dobbiamo intraprendere azioni per aiutarli».

«Cari fratelli e sorelle – afferma ancora Malala Yousafzai -, abbiamo bisogno di un cambio di mentalità. Cambiamo l’ideologia del potere. Le grandi nazioni siano giudicate non in base al loro esercito e alle loro armi, ma per la capacità di produrre istruzione e cultura, per la difesa dei diritti fondamentali, perché trattano uomini e donne allo stesso modo. Queste sono le vere superpotenze». Malala prosegue davanti agli eurodeputati: «È necessario lottare per i deboli, per la loro sopravvivenza. Se lasciamo milioni di persone ai margini delle nostre società, come sopravvivremo?”. Yousafzai, giunta a Strasburgo accompagnata dal padre che ne ha seguito e incoraggiato l’impegno per i diritti, insiste sulla speranza e sul dovere di «avviare un’azione comune che ridia diritti e giustizia a tutte le persone e ai popoli del mondo».

(Fonte: «Sir»)

14. Shock in Belgio: «Schediamo i neonati con il dna»

19 novembre 2013

Usare la genetica per combattere la criminalità. La proposta clamorosa è del procuratore generale di Anversa Yves Liegeois che il 16 novembre ha messo nero su bianco la sua ricetta per risolvere casi di criminali in futuro: registrare il Dna di tutti i nuovi nati in Belgio nonché di coloro che sono nati all’estero ma entrano nel Paese. Lo scopo è quello di creare una banca genetica sulla falsariga di quelle esistenti per reati gravi come l’omicidio e lo stupro, per i quali campioni di Dna sono già stati memorizzati in file che contengono 28 mila nomi. Oppure come quella che sarà costituita nel 2014 riguardo agli autori di rapine violente. O, ancora come il file che conta 34 mila dati genetici prelevati dalle scene del crimine. Insomma, usare la genetica come uno strumento di polizia non è affatto una novità e pare basti da sola a suggerire il 15% delle piste possibili da seguire per la soluzione di un reato.

Ebbene, per Liegeois si tratta semplicemente di estendere il sistema attuale anche ai neonati e pace se questo va a scapito di qualche diritto in materia di tutela della privacy, la sicurezza vale bene qualche sacrificio. In fondo, sostiene il procuratore, il medico di famiglia ha già la cartella personale dei propri pazienti con tutti i dati che lo riguardano e in futuro le impronte digitali compariranno sulla carta di identità elettronica, dunque non c’è poi così tanto da scandalizzarsi, il principio è lo stesso. «Lo dico senza ridere – ha detto il procuratore al quotidiano «De Standaard» – dobbiamo avere il coraggio di pensare a come i cittadini in futuro saranno protetti. Sarebbe un grande passo avanti per semplificare le indagini sui reati criminali. Chiaramente per far ciò sono necessari dei rigidi criteri legislativi che concedano la raccolta di tali dati. La nostra legge è andata troppo in là per quel che riguarda la tutela della privacy».

Immediate le polemiche, anche se la proposta shock non manca di avere fautori. A favore i sindacati di polizia, supportati da un sondaggio condotto su internet il 17 novembre, che ha rivelato come il 60% degli intervistati fiamminghi ritenga l’idea «interessante». Di tutt’altra opinione la Commissione nazionale sulla privacy, che punta il dito sull’assenza di un quadro giuridico che renda la proposta attuabile. Senza contare l’obiezione avanzata da alcuni giuristi secondo i quali la generalizzazione effettuata dal procuratore è preoccupante perché implica che ogni neonato sia un potenziale criminale.

Il mondo politico nicchia e preferisce tacere. Invece l’Istituto nazionale sulla criminalità ipotizza che, anziché utilizzare un software per memorizzare i dati di tutti i bambini del regno, sarebbe più opportuno per la lotta alla criminalità sottoporre ai test gli adulti. Potrebbe essere una strada alternativa percorribile, se non fosse che un test costa 40 euro e il bilancio della giustizia è già notoriamente insufficiente, fanno sapere persone informate. Insomma, a parte i problemi di ordine etico, a complicare le cose ci pensano i soldi che non ci sono o sono troppo pochi.

Dunque per ora si tratta di teoria, come è teorica l’altra proposta, sempre del procuratore di Anversa, di aumentare il numero delle videocamere di sorveglianza nei luoghi pubblici, in modo da agevolare la risoluzione di controversie in materia di incidenti stradali, ma anche di casi di stupro. «Viviamo già in una società che controlla un sacco di cose», è la replica secca di chi vede nella strategia di Liègeois un mero attacco alla privacy. La polemica continua.

Sonia Renzini
(Fonte: «L’Unità»)

15. Ambulatori generalisti aperti tutto il giorno? Se ne parla in Gb

20 novembre 2013

Studi di medicina generale aperti più a lungo? È quanto il governo britannico vorrebbe, ma non tutti sono d’accordo. Ne discutono sulla rubrica «Head to Head» del «British Medical Journal» due generalisti di opposte vedute.

Il primo è James Kingsland, Presidente della National Association of Primary Care e membro anziano del St. Hilary Group Practice in Merseyside, una contea metropolitana nel nordovest dell’Inghilterra con quasi un milione e mezzo di residenti, il quale è d’accordo con la proposta. «Ridurrà la pressione sui servizi di emergenza» dice. Secondo Kingsland gli studi dei medici di famiglia britannici hanno orari di apertura che variano in modo ingiustificato e poco consono alle esigenze degli assistiti. «Il triplice obiettivo di migliorare i risultati delle cure, la loro qualità e la soddisfazione dei pazienti non potrà essere raggiunto senza modificare le modalità di accoglienza degli ambulatori, in termini sia di orario sia di ricettività» sostiene Kingsland, affermando che la programmazione degli appuntamenti potrebbe diventare una vera e propria emergenza nazionale. I servizi di emergenza infatti, già stipati di pazienti, vengono ormai sempre più usati anche da chi di cure urgenti non ha bisogno.

Di visione opposta è Peter Swinyard, presidente della Family Doctor Association e generalista a Swindon, una contea nel sudovest dell’Inghilterra, a metà strada tra Bristol e Reading: «Aprire nuovi studi è una proposta poco praticabile nell’attuale clima finanziario». È invece il momento di riprogettare l’assistenza sanitaria non programmata, ricordando che aumentare gli orari della medicina generale risolverebbe i casi non urgenti e non le emergenze. «Il recente annuncio del primo ministro Cameron, che vuole tenere aperti gli ambulatori dei generalisti dalle 8 alle 20 sette giorni su sette ha suscitato la costernazione dei generalisti» sottolinea Swinyard, avvertendo che l’attuale sistema potrebbe diventare insostenibile entro il prossimo decennio. Le ragioni? Da un lato il numero di generalisti inadeguato alla crescente domanda di cure, e dall’altro la progressiva demotivazione della categoria, sempre più oberata di lavoro. Conclude il generalista: «È necessario intendersi con onestà sul livello di prestazioni che il Servizio sanitario nazionale dovrebbe fornire». Un esempio sono i centri Darzi, dal nome del loro ideatore, l’allora ministro della Sanità lord Darzi, aperti tutto l’anno 12 ore al giorno. «I Darzi sono costosi, e se i finanziamenti a loro dedicati tornassero ai generalisti, allora si che l’eccellenza richiesta dai pazienti sarebbe vicina alla nostra portata» fa sapere Swinyard.

E in Italia? Anche qui sta per scattare la rivoluzione della medicina generale secondo la legge Balduzzi 189/2012. Niente più medico singolo, ma studi associati. Poi revisione delle indennità e dei diritti sindacali a costo zero. Tra le norme fa capolino anche la modifica di orario: studi aperti sette giorni su sette. E in un’intervista sulla «Stampa» del 24 luglio 2012 Giacomo Milillo, segretario nazionale della Fimmg, sindacato dei medici di famiglia, dice: «Si potrebbe fare anche subito, visto che sono quattro anni che lo proponiamo. Ma il lavoro di gruppo è essenziale, perché a nessuno si può chiedere di lavorare 7 giorni su 7 per 365 giorni l’anno. L’importante è che i cittadini trovino in studio il medico che li cura o che almeno ne conosca il profilo sanitario. E non uno sconosciuto come il medico di guardia medica, che nel nuovo modello assistenziale andrà integrato con i generalisti».

(Fonte: «Doctor 33»)
(Approfondimenti: http://www.bmj.com/content/347/bmj.f6832)

16. Alta interazione staff, elevata soddisfazione paziente

21 novembre 2013

Il rapporto tra i clinici e lo staff non medico gioca un ruolo importante nella percezione della qualità delle cure da parte del paziente. La dimostrazione deriva dalla validazione di una nuova scala, denominata Work relationship scale (Wrs), in grado di misurare il grado di interazione tra operatori sanitari e che, al contempo, può essere usata per ottimizzare la qualità dell’assistenza nel setting della medicina primaria. Autori del nuovo strumento (un questionario con 15 item basati su dati di letteratura) sono un gruppo di ricercatori coordinati da Erin P. Finley, del South Texas Veterans Health Care System, a San Antonio.

Il Wrs è stato completato da 457 partecipanti tra medici e personale dello staff mentre altri 274 hanno risposto a interviste semistrutturate. Ecco due esempi di item del Wrs: «Questa clinica incoraggia il personale infermieristico a effettuare cambiamenti nel proprio operato» oppure «La maggior parte delle persone che operano in questa clinica sono disposte a cambiare il loro modo di agire in risposta ai feedback provenienti dagli altri».

Il metodo è stato quindi validato in 17 cliniche di eccellenza per veterani distribuite nel Texas, ponendolo a confronto con le interviste semistrutturate e ai dati della Survey of healthcare experiences of patients (Shep).  Si è visto che le cliniche di cure primarie con i più bassi punteggi Wrs tendevano ad avere i minori ratings – stilati dalla Shep per definire il livello di una clinica – riguardanti l’assistenza sanitaria globale e i singoli medici. Al contrario, è stata riscontrata la totale assenza di associazioni tra le variabili Shep “ottenere rapidamente assistenza” e “tempo di attesa per il medico” (tratte dalla stessa survey) e i Wrs scores.

«Questo studio è il primo che dimostra come i rapporti all’interno di un’organizzazione assistenziale sanitaria influiscano sul grado di soddisfazione del paziente» dicono gli autori. «Le relazioni tra gli operatori di una clinica sembrano esercitare un impatto significativo sulla percezione della qualità delle cure da parte del paziente e dovrebbero essere valutate come parte integrante degli sforzi per migliorare le performances assistenziali».

Arturo Zenorini
(Fonte: «Doctor33»)

17. Conferenza mondiale sul clima, la protesta degli ambientalisti

22 novembre 2013

Gesto clamoroso alla COP 19, la conferenza mondiale sui cambiamenti climatici che si è svolta a Varsavia: i delegati delle associazioni della società civile e ambientaliste lasciano il mastodontico stadio dove si stavano svolgendo i lavori per protesta, abbandonando la partecipazione alla conferenza delle Nazioni Unite sul clima.

Nel frattempo, proseguono i lavori e gli incontri bilaterali dei ministri: i discorsi della high level session, i side event, come se nulla fosse. Sembra, a Varsavia, che i potenti della terra vivano fuori dal mondo, come extraterrestri chiusi nello stadio (che sembra proprio una astronave) della città. Nessuno di loro si è accorto della clamorosa protesta.  Anche gli scienziati sono rimasti dentro, pur simpatizzando per la posizione degli ambientalisti e della società civile. Del resto lo scienziato dice pure che è suo compito studiare il clima o gli impatti socio economici o altro, non prendere posizione politica. Per estremo, uno scienziato puro direbbe a chi si sta per buttare da una finestra, posso calcolarti la forza d’urto o la probabilità di sfracellarti, ma non spetta a me dirti di non buttarti.

Lo scoglio del negoziato non sono solo le riduzioni di emissioni di gas serra, di quelle se ne riparlerà a Lima per la COP 20 e a Parigi alla COP 21 quando si dovrà decidere quanto ridurre di emissioni climalteranti dopo il 2020.

Qualcuno su Twitter ha commentato: ma cos’è la COP, una agenzia di viaggi?

Questa, comunque, doveva essere la COP della finanza, ovvero dei soldi da stanziare per un apposito fondo climatico verde e per il loss&damage, perdita e danni. Ovvero, ripagare i danni a chi, paesi in via di sviluppo, li subisce. Ma i soldi non ci sono per il clima mentre ci sono per le banche, lo ha ricordato la ministra dell’ambiente di Cuba e come disse lo scomparso presidente venezuelano Hugo Chávez nel 2009 a Copenhagen: «Se il clima fosse una banca sarebbe già stato salvato».

Ora però, a furia di rimandare le promesse, i nodi vengono al pettine. Il Ministro dell’ambiente Andrea Orlando nel suo discorso ha parlato, manco a dirlo, di sviluppo sostenibile. Lo si fa da anni ma non funziona, perché con sviluppo si sottintende crescita, che è insostenibile. Poi, si vorrebbero conciliare economia e ambiente, magari con la green economy. Peccato che la TAV in val di Susa o le nostrane bretella A22 e Cispadana non siano certo sostenibili e forse neanche sviluppo.  Tutti piangono e cercano soldi, ma i soldi ci sono, basti pensare alle spese militari o, appunto, ai salvataggi delle banche. E poi, per combattere i cambiamenti climatici più che investire denaro, occorre smettere di spenderne, soprattutto in grandi opere costose e impattanti, ma anche nel consumismo e nell’usa e getta. Vogliamo mitigare le emissioni? In molti side event si è detto che spetta anzitutto alle città e alle Regioni agire, e allora, è relativamente semplice: dirottiamo i soldi necessari a Cispadana, bretella A22, Passante Nord di Bologna, nuova E45, ecc… su trasporti pubblici, risparmio ed efficienza energetica, fonti energetiche rinnovabili. Basterà? Forse, perché a lungo termine servirà ben altro: un cambiamento radicale di modo di vivere, di pensare e di modello socio economico; intanto però tante cose si possono fare con grandi benefici.

Il negoziato non è ancora finito, si andrà probabilmente a oltranza per decidere le linee guida di cosa decidere nel 2015 e agire dal 2020; nel frattempo, le catastrofi non aspettano i tempi della diplomazia.

di Franco Fondriest e Luca Lombroso
(Fonte: «il Fatto Quotidiano»)

18. Linee guida anticolesterolo, conflitti di interesse minano credibilità

27 novembre 2013

Quando lo scorso 12 novembre gli esperti dell’American College of Cardiology e dell’American Heart Association hanno annunciato i nuovi orientamenti su colesterolo e rischio cardiovascolare si sono subito accese le polemiche sullo zampino di Big Pharma e potenziali conflitti di interesse.

Barbara Roberts, per esempio, cardiologo e professore associato di medicina alla Brown University di Providence, nel Rhode Island, aveva definito le linee guida «un grosso bacio a Big Pharma»: «Secondo il nuovo calcolatore di rischio tutti gli afro-americani di 65 anni con colesterolo e pressione normale dovrebbero assumere statine. Questo è un oltraggio alla decenza, non supportato da alcuna prova clinica». Pesanti critiche di merito erano apparse anche in un commento pubblicato su «Lancet» da Paul Ridker e Nancy Cook della Harvard Medical School di Boston.

Ora il «British Medical Journal» pubblica un articolo a firma Jeanne Lenzer con un titolo che è pura dinamite: «Majority of panelists on controversial new cholesterol guideline have current or recent ties to drug manufacturers». Ad avere legami con l’industria mentre servivano nel comitato erano otto dei 15 membri. Compreso il presidente, Neil J Stone, professore alla Feinberg School of Medicine della Northwestern University di Chicago. Intervistato da Lenzer, Stone afferma: «Quando mi è stato chiesto dal National Heart, Lung and Blood Institute di presiedere il gruppo del colesterolo ho subito reciso i legami con le aziende del settore prima di assumere il ruolo». Ma la giornalista investigativa, che scrive non solo per BMJ ma anche per «USA Today», «Newsweek Japan», «The Independent on Sunday» e «Huffington Post», rivela che Stone ha reciso quei legami nel maggio 2008, e al momento di elencare i conflitti di interesse nel periodo 2008-2012 ha scritto: nessuno.

In realtà Stone aveva avuto rapporti finanziari con Abbott, AstraZeneca, Merck, Pfizer, Reliant, Schering-Plough e Sonaste, sei aziende produttrici di farmaci anticolesterolo. E al momento di votare sulle questioni fondamentali non ha pensato di doversi astenere. Dal momento che le raccomandazioni, sue e degli esperti da lui presieduti, probabilmente raddoppieranno il numero di persone che potrebbero assumere statine, la chiarezza sui conflitti di interesse è essenziale. E a poco sembra valere la rassicurazione di Stone, che annuncia che per i due anni successivi alla pubblicazione delle linee guida si asterrà sicuramente dal ricevere onorari dell’industria.

Interpellato dal BMJ, David Newman, ricercatore alla Icahn School of Medicine di New York, contesta l’uso del rischio relativo (non accompagnato da quello assoluto) da parte degli estensori delle linee-guida: «Bisogna dire ai pazienti come stanno davvero le cose. Il 98% di chi non ha il diabete e non ha mai avuto un ictus o un infarto e viene trattato preventivamente con statine per cinque anni, non vedrà alcun beneficio». Certo, all’1,6% sarà risparmiato un attacco di cuore e allo 0,4 un ictus, ma non ci saranno differenze nella mortalità generale. Allo stesso tempo, il due per cento dei trattati con statine preventive svilupperà diabete e il 10% danni muscolari. «Dobbiamo raccontare la verità a chi curiamo, lasciando decidere a loro se i benefici delle statine preventive superano i rischi».

(Fonte: «Doctor 33»)
(Approfondimenti: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24264770)

19. Eutanasia per i minori dal Senato belga primo drammatico sì

27 novembre 2013

Un giorno triste il 27 novembre per il Belgio, dove si è presa una delle decisioni più difficili con un voto politico che va a toccare l’indicibile, il dolore e la morte dei bambini. Le Commissioni riunite Affari Sociali e Giustizia del Senato hanno adottato con 13 voti favorevoli e 4 contrari la proposta di legge che mira a estendere ai minori la legalizzazione dell’eutanasia, in determinate condizioni, previo il parere di uno psicologo che attesti la capacità di discernimento dell’interessato. Solo i minori che stanno vivendo sofferenze fisiche insopportabili e non curabili, in fase terminale, potranno, sotto la supervisione di un team di medici e con il consenso dei genitori, beneficiare di eutanasia che essi stessi hanno richiesto. Per i ragazzi sopra i 16 anni è previsto che possano decidere autonomamente, ovvero senza l’autorizzazione dei genitori.

Socialisti e liberali, francofoni e fiamminghi, i verdi così come la N-va hanno votato a favore della proposta di legge. I senatori di Cdh, Cd&v e Vlaams Belang hanno votato contro. Il testo approvato in Commissione deve ora essere considerato in seduta plenaria. Oltre al Belgio, in Europa l’eutanasia è ufficialmente autorizzata nei Paesi Bassi e in Lussemburgo, mentre in altre nazioni, come gli Stati Uniti d’America, le cosiddette “direttive anticipate” hanno valore legale a seconda degli Stati. Ma se il Parlamento di Bruxelles approvasse l’iniziativa, il Belgio diventerebbe il primo Paese al mondo dove gli adolescenti avrebbero specificamente il diritto di rinunciare volontariamente alla vita.

Uniti e compatti contro la decisione del Senato sono scesi in campo i leader religiosi del Belgio con un comunicato in cui esprimono “tristezza e delusione”. Il testo è firmato dal Gran rabbino di Bruxelles, dall’imam, dall’arcivescovo Leonard e dai rappresentanti delle Chiese anglicane, protestanti e ortodosse. Segno che il rispetto per la vita in ogni sua fase e condizione, appartiene come patrimonio prezioso all’umanità. Ma segno anche che le religioni si mettono a fianco di chi soffre.  «Noi crediamo – scrivono – che non abbiamo il diritto di lasciare un bambino soffrire: anche perché la sofferenza può e deve essere sollevata. E la medicina ne ha i mezzi. Non banalizziamo l’atto di dare la morte dal momento che siamo fatti per la vita. Amare fino alla fine chiede un immenso coraggio. Mettere fine alla vita è un atto che non solamente uccide ma distrugge un poco per volta i legami che esistono nella nostra società, nelle nostre famiglie, in preda a un individualismo crescente».

La notizia del voto in Belgio è arrivata anche in Italia e ha evidentemente scosso uno dei massimi rappresentanti di questioni bioetiche come il cardinale Elio Sgreccia, già presidente della Pontificia Accademia per la vita, che utilizzando il sito della fondazione Ut Vitam habeant, che ora presiede, ha immediatamente reagito alla decisione del Senato belga. «Questa legge – dice – offende gravemente non solo la coscienza cristiana di molti cittadini belgi (fiamminghi e valloni) ma gli stessi diritti umani: il diritto alla vita, il diritto a essere curati, soprattutto se minori e malati, il diritto, per i minori, a essere difesi nei momenti di fragilità, il diritto per i malati mentali a essere assistiti. Diritti presenti in tutti i Codici etici, resi obbligatori dopo la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948».

Il cardinale lancia, allora, la proposta di «un intervento umanitario spirituale, attraverso la preghiera», e ricorda quanto papa Francesco ha detto sui più fragili e i sofferenti, definendoli «un patrimonio per ogni comunità cristiana», «un tesoro prezioso per la Chiesa!». E proprio il 27 novembre il Papa, in udienza generale, ha parlato della morte, che ci risulta – ha detto – «scandalosa»  quando «colpisce i piccoli, gli indifesi». «Perché soffrono i bambini? Perché muoiono i bambini?». E poi ha aggiunto: «La solidarietà nel compatire il dolore e infondere speranza è premessa e condizione per ricevere in eredità quel Regno preparato per noi. Chi pratica la misericordia non teme la morte. Pensate bene a questo! Chi pratica la misericordia – ha ribadito – non teme la morte».

Maria Chiara Biagioni
(Fonte: «Sir»)

20. Giornata mondiale contro l’Aids 2013: non abbassare la guardia

28 novembre 2013

Diagnosticare per tempo le nuove infezioni e prevenire i comportamenti a rischio: sono questi i due messaggi principali rilanciati dalla sanità mondiale in occasione del World Aids Day, che ricorre ogni anno il 1 dicembre.

Infatti, nonostante a livello globale l’incidenza di Aids e il numero di decessi per anno continuino a diminuire, principalmente per effetto delle terapie antiretrovirali combinate, i dati dell’Oms ricordano che, nel 2012, ancora 35,3 milioni di persone convivevano con il virus e, alla fine dello stesso anno, erano 9,7 milioni i residenti in Paesi a basso e medio reddito a cui venivano somministrati farmaci antiretrovirali. Senza dimenticare i quasi 19 milioni di malati che, anche se considerati idonei a ricevere trattamento con antiretrovirali (secondo le linee guida pubblicate dall’Oms nel 2013), attualmente continuano a non avere accesso a questi farmaci.

Un dato ulteriormente allarmante è che, nel mondo, quasi un nuovo caso di infezione su sette, riportato nel 2012, è stato diagnosticato tra gli adolescenti di età compresa tra i 10 e i 19 anni (soprattutto ragazze), che vivono in aree geografiche dove l’Hiv è endemico e tra i ragazzi appartenenti a gruppi di popolazione considerati maggiormente a rischio di trasmissione (ad esempio per via sessuale e tramite l’uso di droghe per via iniettiva). E proprio per supportare i governi a definire migliori programmi di prevenzione, trattamento, cura indirizzati agli adolescenti che convivono con l’infezione da Hiv, l’Oms ha pubblicato un pacchetto di raccomandazioni costituito da un testo di orientamento «Guidance for Hiv testing and counselling and care for adolescents living with Hiv» e dal «Policy brief on Hiv testing and counselling and care for adolescents living with Hiv».

La situazione nel “vecchio continente”

In Europa le infezioni da Hiv risultano abbastanza circoscritte tra i gruppi di popolazione considerati a maggior rischio: nei Paesi dell’Est sono più diffuse tra i consumatori di sostanze per via iniettiva, mentre nell’Europa occidentale il maggior numero di infezioni viene diagnosticato a seguito di rapporti sessuali non protetti. Dunque, gli operatori sanitari possono e devono avere un ruolo centrale nella prevenzione e nella diagnosi precoce. Per esempio promuovendo il test per l’Hiv tra i pazienti a cui sono state diagnosticate altre infezioni sessualmente trasmesse o tra le donne in gravidanza.

Per l’edizione 2013 del World Aids Day, l’European Centre for Diseases Prevention and Control (Ecdc) ha lanciato la prima settimana europea dedicata al test Hiv (22-29 novembre 2013) che, veicolata dallo slogan Talk Hiv, test Hiv e dall’impegno di oltre 400 organizzazioni impegnate sul territorio, ha l’obiettivo di aumentare la consapevolezza sull’importanza e l’efficacia del test.

E in Italia?

Secondo gli ultimi dati di sorveglianza sulle nuove diagnosi di infezione da Hiv e sui casi di Aids registrati in Italia – pubblicati dal Centro operativo Aids (Coa) dell’Iss nel Notiziario Iss-Coa «Aggiornamento delle nuove diagnosi di infezione da Hiv e dei casi di Aids in Italia al 31 dicembre 2012» – nel 2012 sono state effettuate 3853 nuove diagnosi di infezione da Hiv e il Coa ha ricevuto notifica di 715 nuove diagnosi di Aids.

Rispetto agli anni precedenti, il numero di segnalazioni è rimasto sostanzialmente invariato ma i dati evidenziano un progressivo aumento dell’età mediana alla diagnosi e un cambiamento delle modalità di trasmissione: diminuisce la proporzione di consumatori di sostanze per via iniettiva ma aumentano i casi attribuibili alla trasmissione per via sessuale. Inoltre, l’incidenza di Hiv tra gli stranieri è circa 4 volte più alta rispetto agli italiani.

Si conferma dunque anche in questo contesto l’importanza del ruolo degli operatori nella prevenzione, sia proponendo attivamente l’effettuazione del test Hiv, sia prestando attenzione ad alcune patologie o sintomi che possono essere indicativi di una infezione Hiv non ancora riconosciuta (epatiti, infezioni sessualmente trasmesse, infezioni ricorrenti, dimagrimento rapido, alcune forme tumorali), sia promuovendo l’uso del condom come metodo di barriera per prevenire non solo l’Hiv ma anche le altre infezioni trasmesse attraverso i rapporti sessuali.

Barbara Suligoi – direttore Centro operativo Aids (Coa), Istituto superiore di sanità
(Fonte: Epicentro)

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