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16 Gennaio 2014
Supplemento Convegno: Bioetica, filosofia e teologia

Notizie dall’Italia

1 – «La vita non è sola»: bilancio del 1° Festival di Scienza & Vita

1 dicembre 2013

A fronte della crisi educativa e del logorarsi delle relazioni è necessario rinsaldare i legami, farlo con gratuità, veicolare fiducia. I messaggi che chiudono il Festival di Scienza & Vita «La vita non è sola», che si è tenuto sabato 30 novembre e domenica 1 dicembre a Bologna, sono nel segno della positività, del recupero di testimonianza autentica, della ricerca della verità. Un’esperienza di comunicazione diversa, fuori dagli schemi del convegno, che si è dipanata in due giorni di spettacolo, di incontri e che ha visto la partecipazione attenta e coinvolta del pubblico che ha affollato i caffè delle conversazioni scientifiche.

«La vita non è sola è l’inizio di un nuovo modo di confrontarsi in un ambito culturale ampio e variegato che include un dibattito non solo sugli aspetti tecnico scientifici ma sul significato che questi interventi possono avere sulla concezione dell’uomo» – sottolinea Domenico Coviello, copresidente nazionale di Scienza & Vita – «Se la tecnologia ha reso l’uomo più solo, il dialogo e il recupero della relazione possono riportare la tecnologia al servizio dell’uomo».

Dopo la lezione inaugurale del sabato a cura del filosofo Salvatore Natoli, presentato dal copresidente nazionale Domenico Coviello, e dal filosofo Adriano Fabris, la manifestazione ha vissuto un intenso momento di poesia e musica con Davide Rondoni e l’orchestra di Ambrogio Sparagna.

Domenica, nella splendida cornice dell’Oratorio di S. Filippo Neri, Luciano Violante, Sergio Belardinelli, Paola Ricci Sindoni e Piero Damosso hanno animato la tavola rotonda che ha chiuso l’evento. Per Luciano Violante «in una società in cui non nascono legami se non dettati dalla convenienza, è importante recuperare il concetto della gratuità» e, parlando di bioetica, ha aggiunto: «Il confronto su questi temi in politica è stato usato come conflitto l’uno contro l’altro e il dibattito è stato penalizzato dalla tendenza a giudicare, quando invece bisognerebbe ascoltare e capire».

«La vita non è mai facile e dobbiamo imparare ad amarla anche nelle difficoltà» – ha ricordato il sociologo Sergio Belardinelli – «Ma vi è la convinzione diffusa che non ci sia nessun criterio di validità nei discorsi e che ciascuno possieda la verità, ma non si può pensare di accantonare il principio di verità».

«Dire la verità sulle questioni bioetiche non significa predicare principi astratti ma recuperare autorevolezza capace di attivare pratiche di libertà che partano dalla condivisione di principi costitutivi. Gli incontri di questi giorni e i caffè scientifici ci hanno ricordato che la scienza buona è quella che va sostenuta e incoraggiata» – ha concluso Paola Ricci Sindoni, presidente nazionale Scienza & Vita – «C’è bisogno di punti fermi positivi, di educazione, di veicolare le buone notizie».

(Fonte: «Zenit»)

2 – Farmaci veterinari costano cinque volte quelli umani

2 dicembre 2013

I farmaci veterinari possono costare anche cinque volte di più di quelli a uso umano, anche quando la molecola e le dosi sono le stesse e anche se si tratta di principi attivi in commercio da anni. A fare la denuncia è un’inchiesta del «Corriere della Sera» in cui vengono messe in luce le conseguenze del fenomeno: dal momento che il medico veterinario, in presenza di un farmaco a uso animale, non può prescrivere quello a uso umano, può capitare che si cerchino alternative sotto banco e questo fenomeno, nel caso di allevamenti a scopi commerciali, porta a uscire dal sistema di tracciabilità dei farmaci e dal controllo sulla farmaco-resistenza. Qualche esempio: «50 compresse da 5 milligrammi di un tonico cardiaco a base di benazepril hanno un costo di circa 8 euro per gli umani e 47 euro in versione veterinaria. Un collirio a base di tobramicina passa da 7,40 euro a 13,50, mentre la amoxicillina combinata con acido clavulanico costa 3 euro circa per gli umani e 14 per gli animali».

Il gap è giustificato dalle case farmaceutiche «sulla base della differenza di alcuni eccipienti e nella formulazione più adatta alla somministrazione veterinaria», ma a preoccupare è soprattutto l’effetto di tale fenomeno. «Talvolta si rinuncia alla prescrizione veterinaria e ci si procura il medicinale in qualche altro modo». Una pratica in uso anche tra gli allevatori di animali da reddito. E così, spiega Giuseppe Diegoli, del Servizio veterinario della Regione Emilia-Romagna, «ottenere le medicine, in particolare gli antibiotici, attraverso il circuito destinato alla salute umana significa non riuscire a controllare i dati sulla farmaco-resistenza e di conseguenza sulle nuove patologie che si stanno sviluppando tra gli animali, non solo quelli da affezione ma quelli destinati all’alimentazione umana». Sulla farmaco-vigilanza «il ministero della Salute è intervenuto in diverse occasioni per ricordare a farmacisti, allevatori e veterinari di non sostituire medicine per uso animale con quelle umane».

Francesca Giani

(Fonte: «Farmacista33»)

3 – Centri salute mentale, in 10 anni – 50% personale

2 dicembre 2013

Diminuite del 50% in dieci anni le risorse umane dedicate all’assistenza e alla cura dei malati psichiatrici, a fronte di un milione e 200 mila italiani, circa il 2% della popolazione, in cura presso i centri di salute mentale. Questo il quadro che emerge da un’indagine condotta dalla Società italiana di psichiatria (Sip), presentata nel corso di un convegno a Firenze. Il numero delle persone in cura, spiega il presidente della Sip Claudio Mencacci, «è elevatissimo, considerate le condizioni spesso gravi dei pazienti, ma sottostimato perché molti non si avvicinano alle cure a causa dello stigma che pesa sulla malattia mentale».

In base ai dati resi noti, raccolti in più del 30% dei dipartimenti di salute mentale di 14 Regioni, il numero di medici, psicologi, infermieri, educatori, assistenti sociali, operatori socio-sanitari e tecnici della riabilitazione psichiatrica che lavorano nei centri di salute mentale è passato da 0,8 a 0,4 ogni 1.500 abitanti. Nel 34% dei casi le persone in cura per problemi psichiatrici hanno tra i 18 e i 44 anni, nel 39% tra i 45 e i 64 anni, e nel 27% oltre i 64 anni.

«Questi dati – continua Mencacci -, sono allarmanti per le forti ripercussioni che hanno sul funzionamento delle strutture, già impoverite, e sull’impatto in termini di mole di lavoro, stress, fatica fisica, dispendio energetico degli operatori per prendersi cura in maniera trasversale di svariate malattie mentali». «In questa condizione di precarietà – conclude – è forte il monito e l’appello della Sip a non tagliare fondi dedicati alla ricerca e all’assistenza psichiatrica al fine di poter garantire assistenza e trattamenti perfezionati e di qualità, nel breve e nel lungo termine».

(Fonte: «Doctor33»)

4 – Binge drinking, l’esperto: in Italia numeri impressionanti tra i giovani

3 dicembre 2013

In Inghilterra il consumo di alcol sta diventando un’emergenza nazionale. Nei giorni scorsi sono state diffuse cifre impressionanti, da cui risultano un milione all’anno i ricoveri in qualche modo legati all’alcol. Ma la situazione più preoccupante riguarda i giovani. Uno tra i principali esperti italiani in materia, Antonio Gasbarrini, spiega che spesso tutto inizia nell’adolescenza o anche prima: «In Gran Bretagna c’è stato un incremento degli accessi al pronto soccorso per intossicazione acuta da alcol sia nella fascia sotto gli 11 anni che tra gli 11 e i 18». E in Italia? «Non abbiamo dati di questo tipo, però le ultime rilevazioni commissionate nel 2011 dall’Osservatorio permanente sui giovani e l’alcool fanno pensare che qualcosa di analogo stia succedendo anche nel nostro Paese. Qui non stiamo parlando di uso cronico di alcol, che ha tutta una serie di altre problematiche e non è molto diffuso tra i ragazzi. Ma l’intossicazione acuta da alcol è un problema anche da noi: è il fenomeno del binge drinking».

Secondo una delle definizioni più usate, si parla di binge drinking quando si bevono più di cinque drink fuori pasto in meno di due ore di tempo. «È la cultura dello sballo tipica dei fine settimana – ricorda Gasbarrini – e i numeri sono impressionanti: nella fascia dei ragazzi minorenni che hanno accesso ai nostri pronto soccorso per intossicazione acuta, uno su quattro ha meno di 13 anni, inoltre il 15% dei ragazzi tra i 13 e i 17 ha episodi di binge drinking». È un problema sociale ma anche sanitario: «questi ragazzi avranno un rischio molto più alto di sviluppare in futuro malattie croniche legate all’alcol come l’epatopatia cronica, le malattie degenerative e cardiovascolari; l’alcool è il primo cofattore della maggioranza delle malattie croniche e ha implicazioni gravissime per il singolo e per la società».

Renato Torlaschi

(Fonte: «Doctor 33»)

5 – Via libera Cdm alla Schengen sanitaria. Alberti: ora riammodernare ospedali

4 dicembre 2013

Via libera da parte del Consiglio dei ministri alla mobilità sanitaria con gli altri Paesi dell’Unione: il 3 dicembre, come previsto dalla legge delega dello scorso settembre, il Governo ha emanato il decreto legislativo che recepisce le direttive europee sulle cure transfrontaliere. Il decreto si riferisce precisamente alla direttiva 2011/24, sull’applicazione dei diritti dei pazienti relativi all’assistenza sanitaria transfrontaliera, e alla direttiva 2012/25 che prevede misure destinate ad agevolare il riconoscimento delle ricette mediche emesse in un altro Stato membro.

La reazione di Valerio Fabio Alberti, presidente Fiaso è stata tempestiva e di segno positivo: «La Schengen sanitaria recepita oggi rappresenta una grande opportunità per il nostro Paese, che possiede know how ed eccellenze in grado di attrarre cittadini europei in cerca di cure ad alto tasso di specializzazione». Alberti non ha mancato però di evidenziare due condizioni, che devono essere rispettate se si vuole vincere questa sfida: «Riattivare gli investimenti in sanità, fermi ormai da oltre dieci anni, e immettere linfa nuova nelle schiere dei professionisti della sanità pubblica, invertendo il processo di invecchiamento frutto dei ripetuti blocchi del turn over».

Insomma, solo la soluzione di alcune criticità, più volte evidenziate dai medici, potrà costituire il volano necessario per rendere le nostre strutture appetibili per i cittadini stranieri. A questo proposito, il presidente della Federazione Asl e ospedali si dice però preoccupato dalle ultime dichiarazioni di Beatrice Lorenzin: «Proprio in questi giorni sentiamo dire che con emendamenti alla legge di stabilità i risparmi della spending review dovrebbero essere interamente indirizzati alla riduzione del cuneo fiscale, mentre il ministro della Salute annuncia che il prossimo Patto per la salute consentirà di recuperare 10 miliardi nei prossimi 5 anni. Vogliamo dire con chiarezza che quelle risorse non vanno scippate alla sanità, se si vuole vincere la nuova sfida europea delle cure transfrontaliere e garantire un servizio adeguato ai nostri cittadini».

(Fonte:«Doctor 33»)

6 – Agenas, corruzione in sanità costa tra i 5 e i 6 miliardi

4 dicembre 2013

«È tra i 5 e i 6 miliardi di euro il costo della corruzione e delle frodi in sanità»: a dirlo è Giovanni Bissoni, presidente della Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali (Agenas), a margine del convegno «Trasparenza, legalità ed etica nel servizio sanitario nazionale» organizzato presso la Camera dei deputati.

«Secondo i dati dell’Associazione europea per la lotta alla corruzione, si stima mediamente che, nell’ambito dei servizi sanitari europei, tra il 5 e il 6% sono risorse destinate a frodi e corruzione», spiega Bissoni, specificando che in parte hanno a che vedere «con l’illegalità vera e propria» e in parte con «inefficienze di vario tipo».

Per quanto riguarda l’Italia, considerando una spesa sanitaria di 110 miliardi l’anno, il costo complessivo della corruzione si aggira quindi tra i 5 e i 6 miliardi. «La sanità – prosegue ancora Bissoni – nel settore della spesa pubblica è la più esposta al fenomeno». Un problema su cui intervenire «perché la difficoltà ad avviare con coerenza un mercato vero di beni e servizi è ostacolo alla competitività».

(Fonte: «Doctor 33»)

7 – Stamina, il Tar boccia il ministero

5 dicembre 2013

I massimi esperti italiani nel campo della ricerca sulle staminali e della neurologia? «Prevenuti» sul metodo Stamina. E dunque bocciati dal Tar del Lazio, che il 4 dicembre è intervenuto a gamba tesa sul ministero della Salute, sospendendo sia il decreto di nomina del comitato scientifico chiamato a giudicare il protocollo sia il parere contrario alla sperimentazione che lo stesso comitato aveva fornito e di cui il ministero – come logico – aveva preso atto. Tutto da capo, insomma. Altri devono essere chiamati a giudicare. E possibilmente dall’estero. Magari dall’Africa, dove il padre del metodo Stamina, Davide Vannoni, si trova in queste ore per contrattare con un governo “top secret” la sperimentazione delle sue cellule.

Da quella località sconosciuta il 4 dicembre Vannoni ha cantato vittoria, chiedendo addirittura le dimissioni del ministro della Salute Beatrice Lorenzin, colpevole d’esser stata troppo scrupolosa nella verifica delle condizioni di sicurezza dei pazienti curati col metodo. Il Tar d’altronde ha accolto in pieno le richieste dello psicologo torinese (questa la qualifica di Vannoni), che aveva presentato ricorso il 27 settembre contro il comitato, giudicandolo «di parte». Quegli esperti sono stati “di parte”, secondo i giudici, e non aver garantito «l’obiettività e l’imparzialità del giudizio» ha portato «grave nocumento per il lavoro dell’intero organo collegiale».

È necessario dunque che ai lavori del comitato scientifico per la sperimentazione «partecipino esperti – sottolinea il Tar –, eventualmente anche stranieri, che sulla questione non hanno già preso posizione o, se ciò non è possibile essendosi tutti gli esperti già esposti, che siano chiamati in seno al comitato, in pari misura, anche coloro che si sono espressi in favore del metodo ». Di più, tali esperti dovranno prendere in esame le cartelle cliniche dei pazienti e rispettare anche dei tempi diversi: «Troppo pochi tre mesi, peraltro cadenti nel periodo feriale», per decidere su una questione di importanza vitale.

La strada è tracciata, dunque, nuovamente dai giudici. E il ministero la segue, annunciando l’istituzione di un nuovo comitato al più presto: «Non possiamo lasciare malati e famiglie nel dubbio», scrive la Lorenzin su Twitter. Una preoccupazione di cui il Tar ha preso atto nella sentenza, sottolineando come sia «giusto» che ministero della Salute e comunità scientifica vigilino affinché «non siano autorizzate procedure che creino solo illusioni di guarigione o comunque, e quanto meno, di un miglioramento del tipo di vita, e che si dimostrino invece nella pratica inutili o addirittura dannose». Ma proprio questa preoccupazione «può essere superata – scrive il Tar – con un’istruttoria a tal punto approfondita in tutti i suoi aspetti da non lasciare più margini di dubbio, anche ai fautori del metodo in esame, ove il procedimento si concludesse negativamente». Come dire: gli esperti chiamati ad esprimersi su Stamina, oltre che di parte, sono stati anche superficiali.

Ora le porte per la sperimentazione del metodo di riaprono. E in attesa dell’udienza di merito fissata dal Tar per giugno, di un nuovo giudizio del comitato ministeriale e persino una decisione del Parlamento (ieri è stata annunciata un’indagine conoscitiva), ai tribunali – che in molti casi avevano negato le cure ai pazienti sulla base della decisione del comitato scientifico – viene lasciata autonomia e discrezionalità di scelta innanzi ai casi che di volta in volta si presenteranno.

Viviana Daloiso

(Fonte: «Avvenire»)

8 – Rischio denunce, il 99% dei medici lo teme. Lala: tutelare i medici una necessità

6 dicembre 2013

La quasi totalità dei medici (il 99%) ritiene di essere più esposto, rispetto al passato, al pericolo di denunce da parte dei pazienti e il 75% dichiara che gli capita di compiere atti di medicina difensiva positiva, tenendo un comportamento cautelativo che si sostanzia, ad esempio, nella richiesta di esami diagnostici che spesso possono risultare superflui ai fini di una corretta diagnosi. È quanto emerge da un sondaggio condotto su 20 mila medici da Sanità In-Formazione, presentato il 5 dicembre al primo congresso nazionale sull’Rc professionale, organizzato a Roma da SanitAssicura.

«La medicina difensiva è un’aberrazione della nostra professione», sottolinea Luigi Presenti, presidente Associazione Chirurghi Ospedalieri Italiani. «Siamo poco tutelati – anzi, i chirurgi sono tra i professionisti più esposti alle denunce – per cui si rende necessaria una riforma strutturale del sistema per renderlo più assicurabile, attraverso formazione, certificazione e analisi delle reali capacità e specializzazioni di cura».

«Tutelare i medici nello svolgimento della loro attività è sempre più una necessità, di cui anche la politica dovrebbe farsi carico, istituendo un tavolo tecnico», ha spiegato, dal canto suo il presidente dell’Ordine dei medici e degli odontoiatri di Roma, Roberto Lala, che ha ricordato anche come «l’obbligo di assicurarsi per tutti i medici, che entrerà in vigore ad agosto 2014, riguarda solo i professionisti sanitari, e non le compagnie di assicurazione. Se non avranno sottoscritto una polizza», ha concluso Lala, «i camici bianchi saranno in teoria fuori dal mercato del lavoro, per cui questo diventa un problema globale, non solo di medicina difensiva, ma proprio di salute pubblica». (M.M.)

(Fonte: «Doctor 33»)

9 – Ludopatie. Affari Sociali approva testo unificato: vietata pubblicità del gioco d’azzardo; distanza minima punti gioco da scuole e centri anziani

(6 dicembre 2013)

Il 5 dicembre la Commissione Affari Sociali della Camera ha approvato un testo unificato elaborato dal comitato ristretto riguardante Disposizioni per la prevenzione, la cura e la riabilitazione della dipendenza da gioco d’azzardo patologico. Il documento, adottato come testo base, è composto di 12 articoli che, in parte, richiamano alcuni punti già presi in considerazione dal Decreto Balduzzi, come l’inserimento della patologia nei Lea, l’istituzione di un Osservatorio nazionale che faccia capo al Ministero della Salute e la previsione di una distanza non inferiore a 300 metri tra sale da gioco e scuole, ospedali, luoghi di culto, caserme, centri di aggregazione giovanile e centri per anziani, nonché una distanza non inferiore a 100 metri da banche e uffici postali.

All’articolo 10 viene poi vietata la pubblicità del gioco d’azzardo su tutto il territorio nazionale. In aiuto delle famiglie, invece, è stata prevista all’articolo 4 l’attivazione di un numero verde presso il Ministero della Salute, per fornire ai familiari dei giocatori informazioni inerenti agli aspetti legali ed economici relativi alle perdite da gioco d’azzardo patologico, ai debiti accumulati, alla dissipazione dei beni patrimoniali e alla possibilità di usufruire dell’amministrazione di sostegno, nonché a fornire indicazioni sull’individuazione, sulle manifestazioni e sul trattamento della patologia e sulle strutture a cui rivolgersi nella zona di residenza.  Infine, è stata proposta l’istituzione di un Fondo per la prevenzione, la cura e la riabilitazione del gioco d’azzardo.

Giovanni Rodriquez

(Fonte: «Quotidiano Sanità»)
(Approfondimenti: http://www.quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=7548498.pdf)

10 – Messaggio di Papa Francesco per la XXII Giornata Mondiale del Malato, in programma l’11 febbraio 2014

7 dicembre 2013

Pubblichiamo di seguito il testo integrale del messaggio di Papa Francesco per la XXII Giornata Mondiale del Malato, che si celebra l’11 febbraio 2014, memoria liturgica della Beata Vergine Maria di Lourdes, sul tema: «Fede e carità: anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli»:

 

Cari fratelli e sorelle,

In occasione della XXII Giornata Mondiale del Malato, che quest’anno ha come tema «Fede e carità: anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli» (1 Gv 3,16), mi rivolgo in modo particolare alle persone ammalate e a tutti coloro che prestano loro assistenza e cura. La Chiesa riconosce in voi, cari ammalati, una speciale presenza di Cristo sofferente. È così: accanto, anzi, dentro la nostra sofferenza, c’è quella di Gesù, che ne porta insieme a noi il peso e ne rivela il senso. Quando il Figlio di Dio è salito sulla croce ha distrutto la solitudine della sofferenza e ne ha illuminato l’oscurità. Siamo posti in tal modo dinanzi al mistero dell’amore di Dio per noi, che ci infonde speranza e coraggio: speranza, perché nel disegno d’amore di Dio anche la notte del dolore si apre alla luce pasquale; e coraggio, per affrontare ogni avversità in sua compagnia, uniti a Lui.

Il Figlio di Dio fatto uomo non ha tolto dall’esperienza umana la malattia e la sofferenza, ma, assumendole in sé, le ha trasformate e ridimensionate. Ridimensionate, perché non hanno più l’ultima parola, che invece è la vita nuova in pienezza; trasformate, perché in unione a Cristo da negative possono diventare positive. Gesù è la via, e con il suo Spirito possiamo seguirlo. Come il Padre ha donato il Figlio per amore, e il Figlio ha donato se stesso per lo stesso amore, anche noi possiamo amare gli altri come Dio ha amato noi, dando la vita per i fratelli. La fede nel Dio buono diventa bontà, la fede nel Cristo Crocifisso diventa forza di amare fino alla fine e anche i nemici. La prova della fede autentica in Cristo è il dono di sé, diffondersi dell’amore per il prossimo, specialmente per chi non lo merita, per chi soffre, per chi è emarginato.

In forza del Battesimo e della Confermazione siamo chiamati a conformarci a Cristo, Buon Samaritano di tutti i sofferenti. «In questo abbiamo conosciuto l’amore; nel fatto che egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli» (1 Gv 3,16). Quando ci accostiamo con tenerezza a coloro che sono bisognosi di cure, portiamo la speranza e il sorriso di Dio nelle contraddizioni del mondo. Quando la dedizione generosa verso gli altri diventa lo stile delle nostre azioni, facciamo spazio al Cuore di Cristo e ne siamo riscaldati, offrendo così il nostro contributo all’avvento del Regno di Dio.

Per crescere nella tenerezza, nella carità rispettosa e delicata, noi abbiamo un modello cristiano a cui dirigere con sicurezza lo sguardo. È la Madre di Gesù e Madre nostra, attenta alla voce di Dio e ai bisogni e difficoltà dei suoi figli. Maria, spinta dalla divina misericordia che in lei si fa carne, dimentica se stessa e si incammina in fretta dalla Galilea alla Giudea per incontrare e aiutare la cugina Elisabetta; intercede presso il suo Figlio alle nozze di Cana, quando vede che viene a mancare il vino della festa; porta nel suo cuore, lungo il pellegrinaggio della vita, le parole del vecchio Simeone che le preannunciano una spada che trafiggerà la sua anima, e con fortezza rimane ai piedi della Croce di Gesù. Lei sa come si fa questa strada e per questo è la Madre di tutti i malati e i sofferenti. Possiamo ricorrere fiduciosi a lei con filiale devozione, sicuri che ci assisterà, ci sosterrà e non ci abbandonerà. È la Madre del Crocifisso Risorto: rimane accanto alle nostre croci e ci accompagna nel cammino verso la risurrezione e la vita piena.

San Giovanni, il discepolo che stava con Maria ai piedi della Croce, ci fa risalire alle sorgenti della fede e della carità, al cuore di Dio che «è amore» (1 Gv 4,8.16), e ci ricorda che non possiamo amare Dio se non amiamo i fratelli. Chi sta sotto la Croce con Maria, impara ad amare come Gesù. La Croce «è la certezza dell’amore fedele di Dio per noi. Un amore così grande che entra nel nostro peccato e lo perdona, entra nella nostra sofferenza e ci dona la forza per portarla, entra anche nella morte per vincerla e salvarci… La Croce di Cristo invita anche a lasciarci contagiare da questo amore, ci insegna a guardare sempre l’altro con misericordia e amore, soprattutto chi soffre, chi ha bisogno di aiuto» (Via Crucis con i giovani, Rio de Janeiro, 26 luglio 2013).

Affido questa XXII Giornata Mondiale del Malato all’intercessione di Maria, affinché aiuti le persone ammalate a vivere la propria sofferenza in comunione con Gesù Cristo, e sostenga coloro che se ne prendono cura. A tutti, malati, operatori sanitari e volontari, imparto di cuore la Benedizione Apostolica.

Papa Francesco

(Fonte: «Zenit»; ©Libreria Editrice Vaticana)

11 – Corruzione nella sanità: «In tre anni reati per 1,5 miliardi. È il costo di 5 ospedali»

 8 dicembre 2013

La corruzione fa male alla salute, lo dicono anche i numeri. Lo scorso anno il 5,6% delle risorse europee investite nel settore sanitario è andato perso in illegalità e tangenti, ha calcolato la Rete europea contro le frodi e la corruzione nel settore sanitario. In Italia, nel solo triennio 2010-2012, sono stati accertati dalla Guardia di finanza reati per oltre un miliardo e mezzo di euro, quanto basta per costruire cinque nuovi grandi ospedali modello. Una voragine che danneggia tutti e che, in soldoni, significa meno fondi per strutture, medicine, assistenza sanitaria e sociale.

Per fermare questo spreco di risorse, che lede il diritto alla salute di ogni cittadino, le associazioni Libera e Gruppo Abele lanciano una campagna per una sanità libera dalla corruzione. «Salute: obiettivo 100%» è il titolo dell’iniziativa che intende ripulire il settore sanitario pubblico dalle sue opacità a partire da una raccolta di firme dei cittadini. «Trasparenza e anticorruzione possono salvarci la vita – fanno sapere Libera e Gruppo Abele – una firma per dare inizio a una efficace terapia che renda integro e trasparente il nostro Servizio sanitario nazionale. C’è in gioco la nostra salute.»

Anche se alcuni studi collocano l’Italia ai primi posti fra i paesi Oecd quanto a livelli di efficienza sanitaria (siamo superati solo da Francia e Islanda), nel nostro Paese il settore resta particolarmente esposto all’illecito. Solo nel 2012, stando ai dati della Corte dei Conti, i risarcimenti per le sentenze pronunciate per quest’ambito hanno raggiunto un importo complessivo di oltre 45 milioni di euro. Senza dimenticare poi che la sanità è da sempre oggetto di attenzione da parte delle organizzazioni mafiose. Ad oggi nel nostro Paese sono ben quattro le Asl che sono state commissariate per infiltrazioni della criminalità organizzata.

Con la nuova campagna, Libera e Gruppo Abele chiedono alle 237 Aziende sanitarie presenti sul suolo nazionale di adeguarsi a quanto previsto dalla legge 190/2012 in materia di trasparenza e contrasto alla corruzione. Con l’aiuto dei cittadini la campagna monitorerà la loro risposta e vigilerà affinché entro il 31 gennaio 2014 tutte si mettano in regola con la norma, cominciando con il rendere pubbliche le informazioni sui loro vertici (cv, atto di nomina e compenso).

Attualmente, secondo i dati inediti forniti da Libera e Gruppo Abele, Basilicata (76%) e Friuli-Venezia Giulia (69%) sono le regioni più virtuose per trasparenza, mentre sono ancora molto indietro Sardegna (12%), Marche (14%), Calabria (15%) e Campania (19%). Fanalino di coda il Molise, la cui unica azienda sanitaria non ha al momento attuato nessuno dei tre interventi previsti dalla legge 190/92. Superano invece la sufficienza la Lombardia (58%) l’Abruzzo (53%) e il Piemonte (51%), seguite dalla Liguria (50%).

A partire dal 9 dicembre, giornata mondiale contro la corruzione, tutti i cittadini potranno partecipare al monitoraggio civico delle Aziende sanitarie sul sito www.riparteilfuturo.it e verificare lo stato di avanzamento della campagna a partire dalla propria Regione e territorio. L’obiettivo dichiarato dalle associazione è che tutte le Aziende sanitarie raggiungano al più presto il 100% del punteggio assegnato ad ogni ente in base al suo livello di adeguamento alla norma.

Elena Ciccarello

(Fonte: «Il Fatto quotidiano»)
(Approfondimenti: www.riparteilfuturo.it)

12 – Censis su Ssn: spesa grava sempre più sui cittadini

9 dicembre 2013

Il report annuale stilato dal Censis sulla situazione sociale dell’Italia dà una consistenza statistica a molti dei problemi che affliggono la sanità nel nostro Paese. Pubblicato nei giorni scorsi, il documento fotografa innanzitutto una profonda differenza tra le diverse aree geografiche: se i cittadini del Nord ritengono che il Servizio sanitario nazionale sia adeguato (il 49,6% nel Nord-Ovest e il 54,5% nel Nord-Est), nel Centro e soprattutto nel Sud l’insoddisfazione si estende alla maggior parte della popolazione.

Dall’indagine emerge una conferma dell’aumento della compartecipazione della spesa sanitaria (quella per i ticket sui farmaci è cresciuta del 117,3% dal 2008 al 2012) e del numero di italiani che si rivolgono direttamente alle strutture private. Si tratta, secondo il Censis, di «un importante segnale di una progressiva contrazione di fatto della copertura pubblica che, per le zone del Paese con situazioni di offerta più precaria e per le fasce più deboli, può tradursi anche in un rischio di uscita dal servizio pubblico».

Eppure, la sanità integrativa resta sconosciuta a molti degli italiani. Se 11 milioni hanno sottoscritto un’assicurazione sanitaria, il 33,6% degli intervistati non ha mai sentito parlare di fondi sanitari integrativi e polizze malattia e un ulteriore 34,9%, pur avendone sentito parlare, non sa esattamente cosa siano. Supera la metà la percentuale della popolazione che dichiara di non conoscere le differenze tra un fondo sanitario integrativo e una polizza malattia e sono oltre il 57% i cittadini che non sanno di poter ottenere, con i fondi sanitari integrativi, un vantaggio fiscale rispetto alle polizze malattia.

Anche i fenomeni demografici hanno un impatto sulla sanità. Laddove le famiglie hanno tradizionalmente ricoperto un ruolo essenziale di assistenza e cura, il progressivo aumento delle persone che vivono da sole costituisce un ulteriore rischio di tenuta del sistema di welfare: superano ormai i 7,5 milioni e sono aumentati di quasi 2 milioni nell’ultimo decennio.

(Fonte: «Doctor 33»)

13 – Crisi, oltre un milione di bambini italiani in povertà assoluta. In un anno +30%

10 dicembre 2013

Oltre un milione di bambini italiani, pari a uno su dieci, vive in povertà assoluta. Il dato allarmante, aumentato del 30% nel 2012, emerge dal rapporto L’Italia sotto sopra di Save the Children, che parla di «una tenaglia di povertà e deprivazione che giorno dopo giorno stringe ai fianchi sempre più bambini e adolescenti, costringendoli a vivere un presente con pochissimo ossigeno: cibo al discount, pochi o nessun libro, scuola solo la mattina senza neanche un’ora in più per attività di svago e socializzazione, e poi a casa, in uno spazio piccolo e soffocante, nient’altro da fare nel tempo libero perché non ci sono soldi e gli aiuti che arrivano dai servizi sociali, se ci sono, sono pochi, perché il Comune è in default».

Secondo il rapporto 1 milione e 344 mila minori vivono in condizioni di disagio abitativo e 650 mila in Comuni in default o sull’orlo del fallimento e per la prima volta è di segno negativo la percentuale di bambini presi in carico dagli asili pubblici, scesa dello 0,5 per cento. Il 22,2% di ragazzini è in sovrappeso e il 10,6% in condizioni di obesità: il cibo buono costa e le famiglie con figli hanno ridotto i consumi e gli acquisti (-138 euro in media al mese), anche alimentari.

Inoltre, un bambino su tre non può permettersi un apparecchio per i denti e gli 11 euro mensili di budget delle famiglie più disagiate con minori, per libri e scuola, è una cifra di 20 volte inferiore a quella del 10% delle famiglie più ricche. Sui 24 Paesi dell’Ocse, l’Italia è all’ultimo posto per competenze linguistiche e matematiche nella popolazione di 16-64 anni e per investimenti in istruzione: +0,5% a fronte di un aumento medio del 62% negli altri Paesi europei; sono 758 mila i ragazzi che lasciano la scuola e oltre 1 milione i giovani disoccupati.

«In questa fase di crisi i bambini e gli adolescenti si ritrovano stretti in una morsa: da una parte c’è la difficoltà di famiglie impoverite, spesso costrette a tagliare i consumi per arrivare alla fine del mese, dall’altra c’è il grave momento che attraversa il Paese, con i conti in disordine, la crisi del welfare, i tagli dei fondi all’infanzia, progetti che chiudono», ha commentato Valerio Neri, direttore generale Save the Children Italia. «In mezzo, oltre un milione di minori in povertà assoluta, in contesti segnati da disagio abitativo, alti livelli di dispersione scolastica, disoccupazione giovanile alle stelle».

(Fonte: «Il Fatto Quotidiano»)

14 – La sanità che funziona. Da Fiaso il secondo «Libro Bianco della Buonasanità»

10 dicembre 2013

La sanità? Non è solo “mala”. Anzi, crescono sempre di più le aziende che investono nelle buone pratiche stando attente ai costi. Questo il quadro che emerge dalla seconda raccolta di esperienze aziendali del «Libro Bianco della Buonasanità», presentato a Roma il 10 dicembre e che raccoglie 75 esperienze selezionate dal Comitato scientifico (composto di esperti delle istituzioni, del mondo accademico e delle rappresentanze dei cittadini) dell’Osservatorio FIASO (la Federazione di Asl e Ospedali) sulle buone pratiche sanitarie. Una pubblicazione realizzata grazie anche alla collaborazione della redazione dell’agenzia giornalistica Ansa e al contributo della Glaxo Smith Kline. Al Libro Bianco, infatti, si affianca la messa in rete di oltre 200 buone pratiche selezionate dall’Osservatorio FIASO e accuratamente classificate in modo da renderle facilmente consultabili e quindi più facilmente esportabili su tutto il territorio nazionale.

Mentre le politiche di welfare sembrano sempre più orientate verso il “mettere soldi in tasca” per assistere chi è più fragile, la ASL 4 di Prato dimostra quanto sia molto più produttivo offrire servizi alle persone. E così, con soli mille euro ad anziano, riesce a garantire l’assistenza domiciliare agli ultra sessantacinquenni soli e non autosufficienti, formando anche le badanti e abbattendo le più costose giornate di ricovero. A Trento invece si è puntato sul sapere degli utenti dei servizi di salute mentale e dei loro familiari, che con l’esperienza favoriscono il rapporto dei pazienti con gli operatori, migliorando l’adesione alle terapie; fatto tutt’altro che frequente nel campo del disagio psichico e mentale.

Poi c’è chi, come a Bologna, ha creato una banca del latte materno per il nutrimento sicuro dei nati prematuri. O l’Ospedale S. Maria Nuova di Reggio Emilia, che dotando i ricoverati di semplice braccialetto con codice a barre è riuscito ad abbattere gli errori in corsia, soprattutto nella somministrazione di farmaci. Il polo ospedaliero del Santo Spirito a Roma si è calato invece nella realtà multietnica di oggi e ha trovato il modo di garantire l’assistenza religiosa alle persone di altri credi. Tutto questo mentre si diffondono le esperienze dei PDTA, i Percorsi diagnostici, terapeutici ed assistenziali, che per le principali patologie individuano gli accertamenti e le cure più appropriate per i pazienti. Un modo per migliorare gli standard di assistenza eliminando al contempo gli sprechi.

«Il Libro bianco della Buonasanità – sottolinea il Presidente di FIASO, Valerio Fabio Alberti – è il contributo che come Aziende offriamo in tempi di crisi al Paese, per dimostrare con i fatti che è ancora possibile coniugare buona qualità dei servizi e sostenibilità economica».

Lo dimostra il fatto che la maggior parte delle esperienze selezionate dall’Osservatorio FIASO sulla “buonasanità” ha riguardato l’integrazione socio-sanitaria e la presa in carico delle malattie croniche (27%), tema sempre più strategico per Aziende ed assistiti. Mentre al secondo posto ci sono le modalità organizzative, gestionali, formative e valutative che connotano la politiche del personale (25%). Seguono le buone pratiche tese a migliorare le strategie e gli strumenti correlati alle performance clinico-assistenziali e gestionali (24%), il rapporto medico-paziente (19% delle esperienze), i mutamenti nel ruolo e nelle funzioni dell’operatore infermieristico nei servizi ospedalieri e territoriali (5%). In tutto sono state coinvolte 37 aziende, il 23% in più circa rispetto allo scorso anno. È importante rimarcare anche che in oltre il 70% dei casi le esperienze sono state adottate in forma stabile dalle aziende.

La parte del leone la fa ancora l’Emilia Romagna, con 25 buone pratiche, seguita dalle Marche, con 12 ma nel complesso si assiste ad una rimonta del Sud, dove si collocano il 18,7% delle esperienze, due anni fa localizzate quasi esclusivamente al Nord. Anche se nel settentrione sono state selezionate il 56% delle esperienze e nel centro poco più del 25%. Al Sud la piccola Basilicata, con 4 best practice è seconda solo alla Sicilia (5 esperienze) tra le regioni del Sud e delle Isole.

Rispetto alla presa in carico dell’assistito e all’integrazione socio-sanitaria, le numerose esperienze segnalate da FIASO mostrano come sia oramai una realtà sempre più diffusa quella della continuità assistenziale, ossia dei servizi capaci di prendersi cura del paziente dal momento del suo ricovero fino al post dimissioni, attraverso équipe multidisciplinari di professionisti sanitari che agiscono anche a domicilio. E sempre più numerose sono le iniziative per migliorare il rapporto medico-paziente. Che significa consenso alle cure e quindi minor contenzioso sanitario, all’origine di quella medicina difensiva che ci espone a rischi inutili e provoca almeno 10 miliardi di sprechi l’anno.

«Le esperienze e i progetti innovativi realizzati in questi anni dimostrano come sia possibile fare Buonasanità anche in tempi di crisi» sottolinea il presidente di FIASO  Valerio Fabio Alberti. «Risultati – ha proseguito – che sarebbe stato impossibile conseguire senza un management all’altezza e la dedizione del personale sanitario. Spesso costretto a lavorare in condizioni non agevoli ma sul quale è fondamentale puntare anche in futuro attraverso forme che incentivino meglio merito e professionalità».

«Al di là dei campanilismi – sottolinea a sua volta Giampiero Maruggi, vice presidente FIASO e Coordinatore dell’Osservatorio – la raccolta selezionata dimostra che è possibile fare buonasanità anche al Sud perché la discriminante non è geografica ma gestionale». «Senza dimenticare – ha aggiunto – come ciò avvenga mentre le mai sopite tendenze centralistiche trovano nelle esigenze di bilancio l’occasione per riprendere slancio, mortificando quell’autonomia di gestione senza la quale un’Azienda non può essere tale».

(Fonte: «Quotidiano Sanità»)
(Approfondimenti: http://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?approfondimento_id=4520)

15 – Rapporto Aiop, 5 milioni di persone rinunciano a curarsi

11 dicembre 2013

È uno scenario di profondo disagio sociale, quello che emerge dall’undicesimo rapporto Ospedali & salute realizzato dall’Aiop (Associazione italiana ospedalità privata) in collaborazione con Ermeneia e presentato l’11 dicembre a Roma. Nell’ultimo anno, sono infatti 5,5 milioni le famiglie che hanno rinunciato o rimandato cure dentarie, 4,7 milioni cure specialistiche e 2,9 milioni esami di laboratorio. Parallelamente alla crisi, che ha ridotto le disponibilità economiche di molti italiani, ha inciso l’aumento dei ticket: quelli sanitari per la diagnostica e le visite specialistiche sono lievitati del 22% dal 2009 al 2012 e quello sui farmaci è arrivato al 63%. I cittadini italiani hanno poi sborsato somme crescenti per il pagamento delle prestazioni intramoenia incrementato del 51% dal 2011 al 2012. Completa il quadro l’incremento delle addizionali Irpef regionali che ha toccato punte del 77%.

L’indagine Aiop ha prodotto numerose cifre sulla sanità italiana e conferma la ridotta spesa ospedaliera pubblica, che è pari a 61,6 miliardi di euro e costituisce il 7% del Pil. È una percentuale inferiore sia alla media dei Paesi del G7 (8%) che a quella dei Paesi Ocse (7,8%). Gli ospedali pubblici dispongono del 70% dei 211 mila posti letto complessivi, mentre l’altro 30% si trova negli ospedali privati accreditati. Le strutture ospedaliere sono in tutto 1.125, producono 67,9 milioni di giornate di degenza, offrono lavoro a 650 mila addetti e curano 14 milioni di pazienti.

Secondo l’Aiop, il sistema necessita di un processo di efficientamento e riqualificazione. Prima di tutto, serve «il riconoscimento di un finanziamento equo per tutti gli operatori, sia pubblici che privati», visto che questi ultimi rappresentano il 27,3% dell’attività complessiva ma costano solo il 14,4% della spesa totale. La seconda strada «è quella della trasparenza e della semplificazione nella gestione dei sistemi sanitari regionali, a partire dall’obbligo di bilanci trasparenti e confrontabili per tutti gli ospedali pubblici».

(Fonte: «Doctor 33»)

16 – Papa Francesco personaggio dell’anno 2013 secondo la rivista «Time»

11 dicembre 2013

È Papa Francesco il personaggio dell’anno del 2013 secondo la rivista statunitense «Time». Ad annunciarlo è il direttore del celebre settimanale, Nancy Gibbs. Dal 1927, la prestigiosa rivista attribuisce il riconoscimento all’individuo o all’entità che ha dominato l’anno che sta per concludersi. E già in passato aveva messo in copertina due Pontefici: Giovanni XXIII, nel 1962, e Giovanni Paolo II, nel 1994.

Bergoglio, il Papa che – dice «Time» – «ha scelto il nome del santo umile», è dunque il terzo Pontefice ad essere nominato personaggio dell’anno. «La cosa non stupisce – ha commentato padre Federico Lombardi direttore della Sala Stampa vaticana – data la risonanza e l’attenzione vastissima dell’elezione del Papa Francesco e dell’inizio del nuovo pontificato«.

Per il portavoce vaticano, «è un segno positivo che uno dei riconoscimenti più prestigiosi nell’ambito della stampa internazionale sia attribuito a chi annuncia nel mondo valori spirituali, religiosi e morali e parla efficacemente in favore della pace e di una maggiore giustizia».

Quanto al Papa, ha aggiunto, «da parte sua, non cerca fama e successo, perché fa il suo servizio per l’annuncio del Vangelo dell’amore di Dio per tutti». «Se questo attrae donne e uomini e dà loro speranza, il Papa è contento – conclude Lombardi -. Se questa scelta dell’uomo dell’anno significa che molti hanno capito, almeno implicitamente, questo messaggio, egli certamente se ne rallegra».

(Fonte: «Zenit»)

17 – Stamina. Il Tribunale de L’Aquila dice sì al metodo per Noemi

11 dicembre 2013

Stamina ancora protagonista delle cronache. E ancora una volta è un tribunale a intervenire. Dopo la bocciatura da parte del Tar della commissione degli esperti del Ministero, l’11 dicembre i giudici del Tribunale de L’Aquila hanno dato il via libera al metodo Stamina per Noemi, la bimba di 18 mesi di Guardiagrele, in provincia di Chieti, per la quale lo stesso Tribunale aveva negato la cura. Il Tribunale dell’Aquila ha infatti riformato il provvedimento assunto dal giudice del lavoro Anna Maria Tracanna depositato lo scorso 25 novembre, rigettando il ricorso d’urgenza presentato dai genitori della bambina. È stata quindi ordinata l’immediata somministrazione delle cellule staminali, già presenti nella struttura sanitaria di Brescia, a favore di Noemi.

«È bellissimo – ha dichiarato alle agenzie il padre di Noemi, Andrea Sciarretta, 26 anni -. L’ordinanza è definitiva. È una notizia che aspettavamo da tempo e ci dà una gioia immensa e una grande speranza. Aspettiamo ora che la promessa diventi concreta con l’avvio delle cure». Poi si è rivolto al governatore della Regione Abruzzo e ha aggiunto: «Ora non ha più scuse».

Ora la bimba, affetta da atrofia muscolare spinale, potrà sottoporsi a cure con il metodo Stamina presso l’azienda ospedaliera Spedali civili di Brescia. Sulla decisione dei giudici è intervenuto anche Davide Vannoni, presidente di Stamina Foundation, che si è detto soddisfatto, senza tuttavia non evidenziare «amarezza perché la bambina, se la situazione non cambierà, potrà essere curata a Brescia solo tra 3 o 4 anni, vista la lunga lista d’attesa». «Per la sua malattia significa mai. Una storia già vissuta da tutti gli altri pazienti, di cui 8 sono già deceduti nell’ingiustificata attesa», ha specificato Vannoni.

Ma nello stesso giorno è tornata a parlare del metodo Stamina la senatrice a vita Elena Cattaneo, che da anni fa ricerca sulle staminali. «L’unica sperimentazione attendibile con l’utilizzo di cellule staminali effettuata in Italia è stata quella per la cura delle cornee sostenuta dall’Università di Modena-Reggio Emilia con l’ospedale San Raffaele di Milano». Nel suo intervento sul tema «Big data e scienze sociali» ha parlato anche della polemica per il “caso Stamina”. «Il progetto Stamina non ha valore scientifico», ha sottolineato la senatrice.

(Fonte: «Quotidiano Sanità»)

18 – Nuove sostanze psicoattive: poco note ma sempre più diffuse

13 dicembre 2013

Siamo invasi da nuove droghe di cui si sa troppo poco e che vanno studiate per capire gli inediti effetti e per approntare le giuste terapie. È quanto sostenuto da Silvio Garattini, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri in occasione della presentazione del nuovo Piano di azione nazionale di lotta alle nuove droghe e di update scientifico il cui obiettivo è diffondere le nuove strategie nazionali per affrontare il fenomeno delle nuove sostanze psicoattive. Fenomeno che, ha sottolineato Giovanni Serpelloni, capo del Dipartimento politiche antidroga della Presidenza del Consiglio, «è in continua evoluzione e sempre nuove molecole sono pronte a essere inserite nel mercato, sia per soddisfare nuove richieste da parte dei consumatori ma anche, e soprattutto, per eludere i controlli che vanno istituendosi nei vari Paesi attraverso l’aggiornamento della normativa in materia».

Per agevolare operatori sanitari, personale di laboratorio e delle unità di emergenza sono state raccolte le schede tecniche, realizzate dal Sistema di allerta, dalle Forze dell’Ordine, dai laboratori dei Ris e dei Nas, dalle Agenzia delle dogane e monopoli, e dai centri universitari, che riportano le informazioni primarie per ogni singola molecola (nome comune, sigle, nome sistematico, nomi gergali), un’immagine della struttura chimica, la formula, il peso molecolare, la loro caratterizzazione analitica e, se possibile, la loro farmacologia, tossicologia, effetti, metabolismo nonché il loro stato legale in Italia e in Europa.

Simona Zazzetta

(Fonte: «Farmacista 33»)

19 – Sicurezza sanitaria globale, a Roma l’incontro dei Ministri della Salute di GHSI

13 dicembre 2013

«Abbiamo parlato di come combattere le pandemie che riguardano uomini e animali, sempre più frequenti, e abbiamo deciso di rafforzare gli scambi di campioni biologici di virus anche al di là dei Paesi qui rappresentati. Abbiamo inoltre affrontato il tema della resistenza agli antimicrobici, che sta diventando un problema globale: a livello internazionale, si sta lavorando insieme all’Oms per una strategia comune in grado di combatterla. Uno degli elementi che emergono come necessari è il fatto di dissuadere dall’utilizzo degli antibiotici quando non sono strettamente necessari, sia per la cura degli esseri umani che degli animali». Lo ha detto il Ministro Beatrice Lorenzin, illustrando le decisioni finali concordate durante il 14° meeting dei Ministri della Salute della Global Health Security Initiative (GHSI), che si è tenuto a Roma il 13 dicembre e ha affrontato il tema delle sfide sanitarie globali.

GHSI è un network che raccoglie i rappresentanti delle Amministrazioni sanitarie centrali dei Paesi del G7 (Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti d’America), del Messico e della Commissione europea. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) assicura la sua consulenza tecnica all’iniziativa.

Il meeting di Roma ha affrontato temi come la priorità nella preparazione collettiva di una risposta a possibili minacce di natura chimica, biologica e radio-nucleare (sia naturali che intenzionali), lo scambio di informazioni in caso di emergenze e la gestione della comunicazione del rischio al verificarsi di queste.

«Negli ultimi due anni – si legge nel documento finale del meeting – abbiamo dovuto affrontare due virus, l’influenza aviaria A (H7N9) e la sindrome respiratoria mediorientale da Coronavirus (Mers-CoV), ognuno dei quali ha il potenziale di causare una pandemia globale». Da qui la necessità – sottolineata nella conferenza stampa finale dal Ministro della Salute, Beatrice Lorenzin – di «rendere più rapido lo scambio di campioni biologici» anche al di fuori dei Paesi aderenti al network, in modo da «rendere sempre più veloce ed efficace la capacità di risposta a potenziali pandemie, magari legate allo sviluppo di nuovi virus».

La condivisione di questi campioni, hanno ammesso i Ministri, è complicata da regolamenti e leggi nazionali, oltre che da fattori come i diritti della proprietà intellettuale, ma è la sola soluzione capace di garantire «una tempestiva risposta pubblica» ad eventuali emergenze.  Con riferimento alla resistenza antimicrobica, essa rappresenta «una minaccia alla sicurezza globale della salute pubblica» e «una preoccupazione crescente dei Paesi membri del GHSI a causa del suo impatto sulla salute delle popolazioni mondiali, sulla sicurezza alimentare, sull’ambiente e sull’economia in genere».

La riunione dei Ministri è stata preceduta il 12 dicembre da incontri preparatori dei Direttori Generali e Dirigenti dell’area di prevenzione e sanità pubblica dei Ministeri della Salute, che si sono svolti presso la sede del Ministero di Viale Giorgio Ribotta 5.

(Fonte: Ministero della Salute)

(Approfondimenti: http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_notizie_1381_listaFile_itemName_0_file.pdf)

20 – Cronicità. Rapporto Cittadinanzattiva: tra costi elevati e difficoltà sul lavoro, curarsi è un lusso

13 dicembre 2013

Vietato ammalarsi. Per gli italiani avere una o più patologie croniche o rare, o accudire una persona malata, è ormai diventato un “lusso”. Costi diretti ed indiretti della malattia sono diventati ormai insostenibili per un numero crescente di pazienti e di famiglie. E il paradosso è che per contrastare la valanga di oneri si arriva addirittura a “nascondere” la propria patologia nei posti di lavoro o ci si accontenta di un lavoro non adatto alle proprie condizioni fisiche. Inoltre il welfare non riesce a rispondere alle richieste di malati e famiglie. Ci sono difficoltà di accesso ai farmaci e molte Regioni stentano ad assicurare anche i Lea. Assistenza domiciliare e riabilitazione sono messe a dura prova dai tagli. Uno scenario quindi a tinte fosche considerando che la corsa delle cronicità non si ferma. Quasi 4 cittadini su dieci hanno una patologia cronica, e due su dieci ne hanno almeno due. La maggioranza dichiara di non essere in buona salute (il 56,8%). E si sta peggio nel Meridione dove la percentuale di cittadini che ritiene di essere in buona salute non supera il 36%.

A descrivere questa situazione è il XII Rapporto nazionale sulle politiche della cronicità, dal titolo Permesso di cura, presentato il 13 dicembre alla Camera dal Coordinamento nazionale delle Associazioni dei malati cronici (CnAMC) di Cittadinanzattiva.

«Ritardare o rinunciare alle cure necessarie – ha affermato Tonino Aceti, coordinatore nazionale del Tribunale per i diritti del malato e responsabile del CnAMC di Cittadinanzattiva – perdere il posto di lavoro, confrontarsi con la crisi dei redditi familiari e con le discriminazioni regionali nell’accesso alle prestazioni socio sanitarie è ciò che vivono sulla propria pelle i cittadini grazie ad anni di politiche di disinvestimento del welfare e di erosione dei diritti. Non possiamo accettare che per “fare cassa” si continui a smantellare il Ssn o peggio ancora a svendere i diritti dei cittadini alla salute, al lavoro e all’inclusione sociale».

Per questo le Associazioni chiedono al Governo e al Parlamento un’azione concreta, a partire dalla Legge di Stabilità in discussione, eliminando l’insopportabile misura prevista dalla legge 214/2011 e dal nuovo regolamento ISEE secondo cui i trattamenti assistenziali come indennità di invalidità civile e di accompagnamento sono considerati “fonti di reddito” e quindi da considerare nel computo dei redditi familiari.

E ancora, chiedono al Governo e alle Regioni di avviare un confronto anche con le Associazioni di cittadini e di pazienti sia sul Patto per la Salute, sia sulla prossima spending review, che rappresentano le vere partite per il nostro Servizio sanitario nazionale. «Non vogliamo infatti correre il rischio che queste misure possano comportare un’ulteriore compressione di tutele e di diritti – hanno chiarito – ricordiamo al Governo che i cittadini hanno già dato tanto e sono invece ancora in attesa di ricevere quanto è stato previsto e promesso anche da leggi. Pensiamo solo all’aggiornamento dei Lea al palo da oltre 10 anni, e che dovrebbe prevedere, tra l’altro, la revisione del Nomenclatore tariffario delle protesi e degli ausili e degli elenchi delle patologie croniche e rare esenti».

Ma vediamo in sintesi i dati e gli scenari emersi dal Rapporto

Cronicità in aumento. Il rapporto parla chiaro. Cresce la percentuale di chi dichiara di avere almeno una patologia cronica: sono il 38,6% (+0,2 per cento rispetto al 2011), e di chi dichiara di avere almeno due patologie croniche: il 20,4% (+ 0,4 per cento rispetto al 2011). Di questi dichiara di essere in buona salute il 43,2%.

Le patologie croniche più diffuse. Per quanto riguarda le malattie croniche le più diffuse sono: l’artrosi/artrite (16,7%), l’ipertensione (16,4%), le malattie allergiche (10,6%), bronchite cronica e asma bronchiale (6,1%), diabete (5,5%).

Differenze regionali. E nascere in una Regione o in un’altra può fare la differenza. Si sta peggio in Calabria, Puglia e Basilicata, dove meno di 3 cittadini su dieci stanno bene (rispettivamente il 29,2%, il 32,1% e il 35,8% dichiarano di godere di buona salute). Quelle, invece, in cui i malati cronici godono di migliore salute sono le Province Autonome di Trento e Bolzano (56,7% e 64%), la Valle d’Aosta ed il Veneto (47,9%). La Regione che ha una maggiore incidenza di diabetici è l’Abruzzo (7,4%), quella che ha il maggior numero di pazienti con ipertensione e con artrosi e artrite è la Liguria (rispettivamente il 18,7% e il 21%). La Sardegna, invece, si caratterizza per il maggior numero di persone affette da bronchite cronica/asma bronchiale ed osteoporosi (7,9% e 10,3%). Ancora, il maggior numero di malati di cuore si trova in Lombardia (14%), il maggior numero di pazienti con disturbi nervosi si trova in Umbria (5,8%) ed il maggior numero di pazienti con ulcere gastriche duodenali si concentra in Calabria (3,8%). Infine, vengono consumati il maggior quantitativo di farmaci in Liguria (43,5%) ed il minor numero in Campania (32,2%).

Le famiglie italiane sono sempre più povere. Diminuisce il potere di acquisto del reddito disponibile passando da -0,6 del 2011 a -4,8 del 2012, mentre il carico fiscale cresce dell’1% rispetto all’anno precedente. Decresce allo stesso tempo la propensione al risparmio passando dal 20,7% del 1992-1996 all’8,2% del 2012. Calano, infine, anche i consumi passando da 3% del 2011 a -1,6% del 2012.

Il 24,1% delle famiglie si trova in una condizione di deprivazione materiale e il 14,3% si trova, invece, in una deprivazione grave, percentuale che sale al 25,1 se parliamo di Mezzogiorno. Si tratta di famiglie che non possono permettersi un pasto proteico almeno una volta ogni due giorni (16,6%), una settimana di ferie all’anno (50,4%), di riscaldare adeguatamente la propria abitazione (21,1%) o ancora è incapace di far fronte a spese impreviste (41,7%) o in arretrato con i pagamenti (affitto, mutuo, rate, ecc.) 13%.

Le difficoltà della persona e della famiglia. L’84% delle associazioni dichiara che i pazienti non riescono a conciliare l’orario di lavoro con le esigenze di cura ed assistenza, al punto che nel 63% dei casi hanno ricevuto segnalazioni di licenziamenti o mancato rinnovo del rapporto lavorativo per le persone con patologie croniche e invalidanti e nel 41% dei casi per i familiari che li assistono. Il 60% ha riscontrato difficoltà nella concessione dei permessi retribuiti, il 45% nella concessione del congedo retribuito di due anni; il 49% evita di prendere sul lavoro permessi per cura, il 43% nasconde la propria patologia e il 40% si accontenta di eseguire un lavoro non adatto alla propria condizione lavorativa.

I costi sostenuti dalle famiglie. L’assistenza sociosanitaria costa e non si può rischiare di perdere il posto di lavoro: il 54% ritiene troppo pesante o oneroso il carico assistenziale non garantito dal Ssn. Si spendono in media 1.585 euro all’anno per tutto ciò che serve alla cosiddetta prevenzione terziaria (diete particolari, attività fisica, dispositivi e tutto ciò che è utile per evitare le complicanze), più di 1.000 euro per visite ed esami a domicilio, o ancora in media 3.711 euro l’anno per adattare la propria abitazione alle esigenze di cura. Chi non può pagare, in una percentuale che arriva anche all’80% di chi è in cura, rinuncia alla riabilitazione, al monitoraggio della patologia, ad acquistare i farmaci non dispensati, alla badante, all’acquisto di protesi e ausili non passati dal Servizio sanitario nazionale.

La prevenzione, eterna cenerentola. Il 53% delle Associazioni non ritiene sufficiente la prevenzione primaria (corretti stili di vita); il 60% considera inadeguata o del tutto carente la prevenzione secondaria (interventi per una diagnosi precoce e per la riduzione del danno). Per la prevenzione terziaria (relativa alle complicanze) sale al 64% la percentuale delle Associazioni che ritengono non si faccia. Anche chi si impegna personalmente nella prevenzione, riconoscendone l’importanza, ha difficoltà ad accedere alle visite specialistiche o esami diagnostici necessari nel 66% dei casi e l’89% è, quindi, costretto a sostenere costi privati per accedere a queste prestazioni.

La diagnosi troppo spesso in ritardo. Il 75% delle Associazioni dichiara di aver ravvisato ritardi diagnostici nella propria patologia di riferimento. Il sospetto diagnostico viene formulato generalmente dallo specialista di riferimento (67%) e solo nel 20% dei casi dal Medico di Medicina Generale che si interfaccia con lo specialista solo per il 59% delle Associazioni. Si può attendere, quindi, otto anni in media per una diagnosi di endometriosi o cinque per la diagnosi di Lupus Eritematoso Sistemico. C’è addirittura chi ha atteso 33 anni per la diagnosi della sindrome di Bechet. Le cose non vanno meglio per i tempi medi: c’è chi attende al massimo un anno, ma anche chi in media attende dai due ai sei anni. In generale dipende dal medico che incontri o dal trovarsi al Nord o al Sud.

Invalidità civile, l’odissea continua. Crescono le difficoltà per vedersi riconosciuti l’handicap grave (L 104/92, +44% rispetto al 2011) e il contrassegno per invalidi (+21% rispetto al 2011), così come aumentano le difficoltà di accesso alla invalidità (+16%). Il 68% delle Associazioni, a distanza di oltre due anni dall’entrata in vigore della nuova legge, non riscontra né semplificazione né riduzione nei tempi per il riconoscimento: il 65% afferma che i propri associati sono costretti a sottoporsi a doppia visita di accertamento, presso la ASL e l’INPS, anche perché il medico INPS continua a non essere integrato nella commissione di accertamento nel 45% dei casi. Le convocazioni a visita di verifica avvengono in maniera non regolare per il 41% delle associazioni, attraverso sms (59%), lettera semplice (47%) o addirittura messaggi lasciati in segreteria (12%).

Un’Italia a più velocità. L’assistenza farmaceutica, quella protesica, così come l’assistenza domiciliare e la riabilitazione sono erogati nel nostro Paese a macchia di leopardo. Anche i percorsi diagnostici terapeutici e i registri di patologia (che indicano il numero di pazienti, suddivisi per patologia e Regione di residenza) sono poco diffusi e segnalati principalmente al Nord. Il 61% delle Associazioni dichiara di avere difficoltà di accesso all’assistenza farmaceutica in alcune Regioni. Le principali criticità riguardano i tempi eccessivamente lunghi per l’autorizzazione all’immissione in commercio da parte dell’AIFA (50%), il costo dei farmaci non rimborsati dal SSN in fascia C (44%), le limitazioni da parte dell’Aziende ospedaliere o dalle ASL per motivi di budget e i tempi di inserimento dei farmaci nei Prontuari regionali diversi da Regione a Regione (41%). Il 39% delle Associazioni, ancora, ha riscontrato l’interruzione o il mancato accesso a terapie perché particolarmente costose.

Assistenza domiciliare e riabilitazione. L’assistenza domiciliare integrata è adeguata alle esigenze di cura solo in alcune Regioni (44%). Il principale problema in questo ambito è l’assenza di un supporto psicologico (41%) seguito dalla mancanza di alcune figure professionali (38%) e da un numero di ore di assistenza insufficienti (29%).  Anche la riabilitazione risente fortemente delle differenze regionali. Infatti risulta adeguata, ma solo in alcune regioni per il 65% delle Associazioni. La principale criticità riguarda i tempi di attesa incompatibili e la mancanza di posti letto e strutture (77%). Particolarmente critica la durata del ciclo riabilitativo, considerata inadeguata dal 73% delle Associazioni.

Le principali proposte:
• prevedere all’interno del Patto per la salute 2013-2015 in discussione l’impegno a realizzare un Piano di azione nazionale sulle patologie croniche
• approvare il Piano nazionale sulle malattie rare 2013-2016
• istituire i Registri nazionali di patologia, per ciascuna di esse
• implementare lo sviluppo di PDTA nazionali in grado di garantire livelli uniformi di assistenza socio-sanitaria su tutto il territorio nazionale
• garantire un accesso equo, tempestivo ed uniforme alle terapie farmacologiche, nonché la partecipazione delle Organizzazioni civiche e dei pazienti ai processi decisionali nazionali e regionali inerenti l’assistenza farmaceutica

(Fonte: «Quotidiano Sanità»)

(Approfondimenti: http://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?approfondimento_id=4554)

21 -Figli naturali e legittimi. È legge la norma che cancella ogni distinzione

16 dicembre 2013

Mai più differenze tra i nati dentro e fuori dal matrimonio: la norma che mette la parola fine a ogni tipo di discriminazione dal 15 dicembre è legge a tutti gli effetti. Per concludere l’iter mancano solo la firma del Capo dello Stato e la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Ad abbattere l’ultimo diaframma è stato il Consiglio dei ministri dando il via libera al decreto legislativo di revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione (legge 219 del 2012). Con questo provvedimento, che modifica la normativa al fine di eliminare ogni residua discriminazione rimasta nell’ordinamento, si «toglie dal Codice civile qualunque aggettivazione – ha spiegato il premier Enrico Letta –: da adesso in poi saranno tutti figli e basta».

Il decreto legislativo, predisposto nell’ambito della Commissione istituita presso la presidenza del Consiglio dei ministri, presieduta da Cesare Massimo Bianca, stabilisce infatti «l’introduzione del principio dell’unicità dello stato di figlio, anche adottivo, e l’eliminazione dei riferimenti presenti nelle norme ai figli “legittimì e ai figli naturali” e la sostituzione degli stessi con quello di “figlio”».

Introdotto «il principio per cui la filiazione fuori dal matrimonio produce effetti successori nei confronti di tutti i parenti e non solo con i genitori» e sostituita la «nozione di “potestà genitoriale” con quella di “responsabilità genitoriale”». Modificate le «disposizioni di Diritto internazionale privato con previsione di norme di applicazione necessaria in attuazione del principio dell’unificazione dello stato di figlio».

Nel recepire la giurisprudenza di Consulta e Cassazione, il Consiglio ha deciso di limitare a cinque anni dalla nascita i termini per proporre l’azione di disconoscimento della paternità e di introdurre il diritto dei nonni di mantenere «rapporti significativi» con i nipoti minorenni.

Tutto bene? No, purtroppo. La legge 219 del 2012 modifica l’articolo 251 del Codice civile e permette il riconoscimento dei figli nati «da persone in linea retta all’infinito o in linea laterale nel secondo grado». In altri termini, da padri e figli, e da fratelli. Insomma, il riconoscimento dell’incesto. Un obbrobrio etico, già condannato su queste colonne, su cui sarà opportuno riaprire un dibattito.

(Fonte: «Avvenire»)

22 – Sì al ddl Lorenzin. Nuove norme su sperimentazioni, riforma ordini, sicurezza alimentare, prevenzione (e molto altro)

17 dicembre 2013

Il Cdm del 17 dicembre ha esaminato e approvato il disegno di legge del ministro della Salute Beatrice Lorenzin, già approvato in via preliminare dal Consiglio dei Ministri del 26 luglio 2013. Il ddl – si legge nella relazione al provvedimento – «nasce dall’esigenza di adottare ulteriori e più significative misure per garantire in vari settori (in particolare quelli della sperimentazione clinica dei medicinali per uso umano, degli ordini professionali e delle professioni sanitarie, della sicurezza alimentare e del benessere animale, nonché per la promozione della prevenzione), la maggiore funzionalità del Servizio sanitario nazionale e pertanto delle prestazioni erogate, al fine di corrispondere in maniera sempre più adeguata e più qualificata, tenuto conto delle innovazioni scientifiche e tecnologiche, alle necessità degli utenti e alla salvaguardia delle aspettative degli interessati in relazione ai bisogni di salute».

«Inoltre – prosegue la relazione – esso interviene per colmare lacune, criticità ed esigenze emerse nell’ambito dello svolgimento dell’attività istituzionale del Ministero della Salute. Sul provvedimento è stato acquisito il parere favorevole con osservazioni e proposte emendative, della Conferenza unificata nella seduta del 7 novembre, in massima parte accolte e inserite nel testo».

«In particolare – si legge ancora nella relazione al ddl – per quanto concerne la richiesta dell’introduzione dell’intesa in luogo del parere, è stata recepita tranne che per gli articoli 9, sul presupposto che la norma interviene per realizzare il coordinamento delle disposizioni recate dai decreti legislativi di riordino degli enti vigilati dal Ministero, in ordine ai quali per espressa previsione della legge di delega, art. 2 legge 4 novembre 2010, n. 183, la Conferenza unificata esprime parere, pertanto l’introduzione dell’intesa non sarebbe coerente con il dettato normativo e con la procedura seguita per l’adozione dei predetti decreti legislativi di riordino; 14, commi 1 e 3 e 20, comma 1, in quanto le misure ivi previste rientrano nell’ambito della profilassi internazionale ai sensi dell’art. 117, comma 2 della Costituzione».

Conseguentemente alle modifiche e integrazioni accolte, lo schema di provvedimento consta di 26 articoli, suddivisi in 7 Capi, considerato l’articolo aggiuntivo recante norma di coordinamento per le Regioni e Province autonome, nonché la clausola di salvaguardia per le Regioni a statuto speciale e le Province autonome.

(Fonte: «Quotidiano Sanità»)
(Approfondimenti –sintesi del ddl articolo per articolo–: http://www.quotidianosanita.it/governo-e-parlamento/articolo.php?approfondimento_id=4568)

23 – Insufficienza renale, Censis: trapianto più economico della dialisi

18 dicembre 2013

Il costo medio complessivo di un paziente con trapianto di rene per il Sistema sanitario nazionale è di 95.247 euro in un periodo di tre anni, contro i 123.081 euro stimati nello stesso arco di tempo per un paziente non trapiantato e sottoposto a dialisi. Il costo del trapianto è cioè inferiore del 29,2%. È quanto emerge da uno studio condotto da Censis e Società italiana di nefrologia in collaborazione con il Centro Nazionale Trapianti, e con il contributo incondizionato di Pfizer. «Il costo medio complessivo stimato per un paziente trapiantato in un periodo di osservazione di tre anni ammonta a 95.247 euro» sottolinea una nota Censis. «Di questi, 52.543 euro (pari al 55,2% del totale) sono relativi al trapianto stesso, corrispondenti all’intervento chirurgico e alla degenza presso il Centro trapianti di rene. I costi della fase post-trapianto, successivi alla dimissione, sono pari ai restanti 42.704 euro (pari al 44,8% del totale). I costi invece riferibili ai pazienti non trapiantati per l’intero periodo considerato sono pari a 123.081 euro. In questo caso, la dialisi costituisce di gran lunga la voce di costo più significativa: in media 109.923 euro, pari all’89,3% dei costi complessivi.

«L’analisi temporale», continua la nota Censis, «evidenzia che al primo semestre i costi dei pazienti trapiantati sono nettamente superiori a quelli dei pazienti non trapiantati, perché comprendono il costo dell’attività di trapianto stessa. Ma già a partire dal secondo semestre l’assistenza ai trapiantati genera un flusso di costi nettamente inferiori a quelli rilevati per i pazienti non trapiantati. Dal terzo semestre in poi i costi medi per i pazienti trapiantati continuano a scendere, mentre quelli per i non trapiantati aumentano. All’inizio del quinto semestre (cioè 2,1 anni dopo il trapianto) i costi medi complessivi dei pazienti non trapiantati raggiungono e superano quelli dei trapiantati. La differenza, già cospicua, rilevata a proposito dei costi dell’assistenza a carico del Ssn di trapiantati e non trapiantati» conclude la nota «diviene ancora più significativa se si considerano anche i costi economici e sociali a carico dei pazienti stessi nel periodo di osservazione. Si tratta complessivamente di 118.028 euro per i trapiantati (95.247 a carico del Ssn e 22.781 a carico dei pazienti e dei loro familiari) e di 165.886 euro per i non trapiantati (rispettivamente, 123.081 euro per il Ssn e 42.805 euro per i pazienti e i loro familiari).

Marco Malagutti

(Fonte: «Doctor 33»)

24 – Il rapporto choc su Stamina: «Non ci sono cellule staminali»

19 dicembre 2013

Un metodo che non dovrebbe nemmeno chiamarsi «Stamina» perché di cellule staminali nelle misteriose infusioni ce ne sarebbero sì e no tracce. Nessun accenno a come le cellule mesenchimali del midollo si trasformerebbero in cellule cerebrali e dei tessuti nervosi, in grado di riparare i danni all’origine di molte malattie neuro degenerative, come Sla o Sma1. E persino lo spettro di contaminazioni da morbo di «mucca pazza». A gettare nuove ombre intorno al contrastato «metodo Vannoni» sono le carte sin qui “top secret” dei verbali dei Nas e degli organismi scientifici istituzionali, oltre che il parere, mai reso pubblico integralmente, con il quale il Comitato di esperti, poi giudicato «non imparziale» dal Tar Lazio, ha bloccato sul nascere la sperimentazione.

Documenti che da un lato confermano quanto già trapelato, come il rischio di trasmissione di malattie infettive, Hiv in testa, per assenza di controlli delle cellule dal donatore. Ma dall’altro rivelano altri rischi per i pazienti. Come quello della Bse, meglio nota come sindrome da mucca pazza.

Verbale del 16 ottobre 2012, dopo la chiusura dei laboratori degli Spedali civili di Brescia, dove si coltivavano le cellule per Stamina. Secondo l’Aifa in assenza di sicurezza. Presenti gli stati maggiori dei Nas, della stessa Agenzia del farmaco, dell’Istituto superiore di sanità e del centro nazionale trapianti. Luca Pani, presidente dell’Aifa, afferma che l’analisi condotta «farebbe supporre l’uso di siero fetale bovino nei terreni di coltura». Dubbio fugato dagli esperti del Comitato, che nel parere svelano come sia la stessa documentazione presentata da Stamina a confermare l’uso di siero bovino per la coltura delle cellule. Cosa che in sé non sarebbe vietata anche se sconsigliata. Purché – ricorda il Comitato – «per ridurre i rischi di natura infettiva… il siero fetale bovino provenga da animali allevati e sacrificati in Paesi privi di Bse», il tutto mediante certificazione europea. «Nessuna di queste informazioni è presente nei documenti pervenuti», si legge però nel parere.

Ma i pericoli non finiscono qui. «Il terreno di coltura contiene antibiotici», rivela sempre il Comitato, che considera questa pratica «non giustificata» e a rischio di tossicità. E poi la presenza di detriti dei tessuti potrebbe provocare micro embolie polmonari e cerebrali. Del resto un altro verbale rivela che in un campione prelevato a Brescia il 30% delle cellule sarebbe stato contaminato. In un altro campione la contaminazione sarebbe invece «bassissima», ma in entrambi si rileva l’assenza di un marcatore che generalmente rileva la presenza di cellule staminali mesenchimali.

Sorge allora il dubbio su cosa venga realmente somministrato ai pazienti. Tanto che il generale Cosimo Piccinno, capo dei Nas, avanza il sospetto che il metodo Stamina sia nella realtà cosa diversa da quello descritto nella domanda di brevetto presentata a suo tempo da Vannoni e poi respinta negli Usa. Nel consenso informato fatto firmare ai pazienti, rivela un altro verbale, «sorprendentemente si dichiara che le cellule somministrate possono essere leucociti del sangue, di solito mescolati ad altre componenti minori… oppure cellule più purificate quali le cellule mesenchimali estratte dal midollo osseo». Insomma, un frullato indefinibile.

E infatti per gli scienziati del Comitato, che hanno potuto leggere per esteso le carte di Vannoni dal metodo Stamina di coltura, «la popolazione (cellulare) che si ottiene non è purificata, non è omogenea, non è una popolazione di cellule staminali». Qualunque cosa sia, però, per il comitato non c’è nulla che dimostri la trasformazione di cellule del midollo in cellule neuronali in grado di riparare i danni delle malattie neuro degenerative. Secondo le sequenze descritte nella domanda di brevetto la trasformazione avverrebbe dopo solo un’ora di coltura in acido retinoico. All’Iss, rivela un verbale, ci hanno provato per 2 ore e poi per 24. Ma del miracolo della trasformazione cellulare nessuna traccia. «Su Stamina serve chiarezza perché non ci siano più dubbi», ha ribadito la Lorenzin preannunciando a breve la nomina del nuovo Comitato. A meno che prima degli scienziati a sollevare nuovi dubbi arrivi la magistratura.

Paolo Russo

(Fonte: «La Stampa»)

25 – Decreto “Salva Roma”. Torna il divieto per le e-cig in tutti luoghi pubblici

23 dicembre 2013

Nuovo colpo di scena per le sigarette elettroniche. Il nuovo testo del “Salva Roma” sul quale il Governo ha posto la fiducia alla Camera il 23 dicembre prevede che anche le e-cig, con o senza nicotina, siano soggette ai divieti di pubblicità e uso nei luoghi pubblici previsti dalle norme anti fumo del 2003.

Con un emendamento del leghista Candiani, inserito nella parte del decreto dove si parla di imposte e accise sui tabacchi e succedanei, è stato infatti previsto che per ambedue le categorie, ovvero tabacchi e succedanei, valgano i divieti di pubblicità e uso nei luoghi pubblici, abrogando contestualmente le norme del decreto scuola (Art. 4) che vietavano le e-cig solo nelle scuole e non negli altri locali pubblici, prevedendo inoltre precise distinzioni per quanto riguarda la pubblicità tra e-cig con nicotina e senza.

Una differenziazione che era stata suggerita di mantenere dalla Commissione Affari Sociali della Camera nel suo parere al “Salva Roma”, ma che non è stata invece accolta in Aula.  Da quando il decreto apparirà in Gazzetta la possibilità di “svapare” nei luoghi pubblici sarà quindi vietata.

(Fonte: «Quotidiano Sanità»)
(Approfondimenti: http://www.quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=4130169.pdf)

26 – Istat. La crisi e la sanità. Nel 2012, l’11% degli Italiani non si è curato per motivi economici. Crollano le visite odontoiatriche (- 23%)

24 dicembre 2013

Forti disuguaglianze sociali in aumento tra gli anziani, maggiore ricorso alle visite mediche e specialistiche, crollo delle visite odontoiatriche, aumenta la quota a pagamento intero per accertamenti specialistici e analisi del sangue. Queste alcune delle stime provvisorie dell’indagine multiscopo Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari, condotta dall’Istat, e realizzata con il sostegno del Ministero della Salute e delle Regioni nel 2012-2013. Tali stime si basano su dati relativi alle informazioni raccolte nei primi due trimestri, ovvero nei mesi di settembre e dicembre 2012. Il confronto con il 2005 è realizzato rispetto agli stessi mesi di rilevazione per tener conto della stagionalità dei fenomeni. L’indagine è stata condotta dall’Istat a partire da settembre 2012 fino a giugno 2013, con cadenza trimestrale, su un campione complessivo di circa 60 mila famiglie residenti sull’intero territorio nazionale.

Tra le donne prevale la multicronicità, tra gli uomini le malattie croniche gravi. Nel secondo semestre del 2012 oltre i due terzi (66,9%) delle persone di 14 anni e più al quesito «Come va in generale la sua salute?» ha riferito di stare «bene o molto bene», il 7,7% ha risposto con una valutazione negativa delle proprie condizioni di salute e il 25,4% ha dichiarato di stare né bene né male. La quota di quanti si dichiarano in buona salute decresce sensibilmente all’aumentare dell’età, raggiungendo il 24,3% tra gli ultrasettantacinquenni. Tra le donne, le quote sono sempre più basse rispetto ai coetanei uomini e lo svantaggio nella buona salute peggiora intorno ai 50 anni. Il complementare divario di genere si osserva in relazione alla “cattiva salute percepita”: le donne che dichiarano di stare male o molto male sono complessivamente il 9,4% contro il 5,8% degli uomini, senza differenze rispetto al 2005.

Circa 9 milioni di persone hanno dichiarato di soffrire di almeno una malattia cronica grave (14,8% dell’intera popolazione) e circa 8 milioni e mezzo hanno riferito problemi di multicronicità, indicando la presenza di tre o più malattie croniche indipendentemente dalla gravità (pari al 13,9%). Tra i molto anziani (75 anni e più), quasi una persona su due dichiara di essere affetta da una patologia cronica grave o da tre o più malattie croniche. Le donne presentano per tutte le classi di età, superiori ai 14 anni, tassi di multicronicità più alti degli uomini, ma sono meno colpite da patologie gravi dopo i 50 anni.

Permangono forti diseguaglianze sociali nella salute, in aumento tra gli anziani. I primi dati provvisori delineano un quadro epidemiologico complessivamente stabile rispetto alle principali dimensioni della salute considerate e comunque coerente con il processo di invecchiamento della popolazione registrato dal 2005. Tuttavia, il dato medio complessivo nasconde disuguaglianze territoriali e sociali che penalizzano alcuni gruppi di popolazione.

Persiste un chiaro gradiente sociale nella distribuzione della salute: rispetto al titolo di studio, nel 2012 si conferma l’associazione tra livelli più bassi di scolarità e peggiori condizioni di salute. Complessivamente, tra le persone di 25 anni e più, si rilevano prevalenze intorno al 10% sia per la cronicità grave che per la multicronicità tra quanti hanno conseguito almeno un diploma di scuola superiore, a fronte di circa il 40% tra quanti invece hanno al massimo la licenza di scuola elementare. Anche tenendo sotto controllo l’effetto dell’età, il rischio di presenza di cronicità è quasi il doppio tra quanti hanno un basso titolo di studio.

Anche in relazione al giudizio sulle risorse economiche familiari, sia l’indicatore di salute percepita che gli indicatori di presenza di cronicità si differenziano in maniera significativa. Dichiarano di stare male o molto male l’11,1% delle persone con risorse economiche familiari scarse o insufficienti contro il 5,3% di coloro che giudicano le proprie risorse ottime o adeguate. Più contenuta, ma comunque significativa, è la differenza per chi dichiara almeno una malattia cronica grave (le percentuali sono rispettivamente pari a 16,7% e 13,7%) e per chi è multicronico (16,0% e 12,3%).

Nella popolazione anziana, rispetto al 2005, si accentua il divario tra i più abbienti e i meno abbienti. Gli anziani con risorse economiche ottime o adeguate che dichiarano di stare male o molto male nel 2012 sono il 14,8%, in diminuzione rispetto al 2005 (erano il 16,5%), mentre quelli economicamente svantaggiati sono il doppio (30,2%) e in aumento rispetto al 2005 (erano il 28,6%). Anche per gli anziani multicronici i divari continuano ad aumentare: la quota tra chi ha risorse scarse o insufficienti raggiunge il 49,2% nel 2012 (era il 45,7%), mentre tra chi non riferisce problemi economici è pari al 36,4%.

Lo svantaggio del Sud. Al Sud, la percentuale di popolazione che si dichiara in cattive condizioni di salute, passa dall’8,5% del 2005 al 9,8% del 2012. Gli anziani residenti nel Mezzogiorno rappresentano il gruppo di popolazione più vulnerabile, in particolare se hanno risorse economiche scarse o insufficienti. Al Sud, la popolazione anziana in situazione economica svantaggiata dichiara un cattivo stato di salute nel 35,9% dei casi (31,6% nel 2005).

Aumenta il ricorso a visite mediche, sia generiche che specialistiche. Nelle quattro settimane precedenti l’intervista, nel 2012 sono state effettuate oltre 36,5 milioni di visite mediche, di cui oltre 19 milioni di tipo generico e oltre 17 milioni di tipo specialistico. Rispetto al 2005 il numero di visite per 100 persone è aumentato, passando da 51,2 a 60,3. Controllando l’effetto dell’età i tassi sono rispettivamente 53,4 e 60,5. La crescita ha riguardato soprattutto gli ultrasettantacinquenni (+25%) ed è più accentuata nel Nord-Ovest (+19%). L’incremento complessivo delle visite (pari a 6 milioni e 800 mila tra 2005 e 2012) è assorbito per il 52,5% dalle visite generiche e per il 47,5% da quelle specialistiche.

Nel 2012 le visite specialistiche sono circa 17 milioni, ovvero 28,7 ogni 100 persone (28,9 – tasso standardizzato), in aumento rispetto al 2005 sia in valore assoluto (erano 14 milioni) sia in rapporto alla popolazione (25,0 – tasso standardizzato).

Le visite specialistiche aumentano soprattutto tra gli ultrasessantacinquenni (da 36,9 a 46,2 visite per 100 persone di 65 anni e oltre); gli incrementi maggiori si osservano per le visite ortopediche (da 4,5 a 7,0), cardiologiche (da 6,9 a 8,1), oculistiche (da 5,0 a 6,4) e per le altre visite (da 4,8 a 7,9). Sono in aumento anche tra le donne di 35-44 anni (da 25,1 a 31,4), soprattutto le visite ginecologiche (da 4,9 a 9,5).

Diminuisce il ricorso alle visite odontoiatriche. Sono 2,8 milioni le visite odontoiatriche nel 2012, pari a 4,7 ogni 100 persone (4,8 il tasso standardizzato), in sensibile riduzione rispetto al 2005 (erano 3,7 milioni, 6,4 ogni 100 persone – tasso standardizzato). Sul territorio, la propensione ad effettuare visite odontoiatriche si è ridotta, rispetto al 2005, in misura maggiore nell’Italia centrale, dove il ricorso era più elevato, passando da 8,0 a 5,2 visite per 100 persone.

L’odontoiatria è la specializzazione con la quota più elevata di visite a pagamento intero (83,4%). Tuttavia la diminuzione rispetto al 2005 del numero di visite odontoiatriche, si è accompagnata a una relativa diminuzione della percentuale di visite a pagamento intero (-9% rispetto ai tassi standardizzati). La quota di visite a pagamento intero si è ridotta in tutte le ripartizioni, ma in misura maggiore al Sud (da 90,7% a 79,2%).

Lieve riduzione dei ricoveri ospedalieri. Nel 2012 i ricoveri ospedalieri con pernottamento (nei tre mesi precedenti l’intervista) sono quasi 2 milioni (3,2 ogni 100 persone), inclusi quelli per parto o nascita. Nel 2005 i ricoveri erano 3,7 ogni 100 persone, ma controllando l’effetto dell’età la riduzione è più marcata, infatti il tasso standardizzato diventa 4,0 per 100 persone.

Pur in calo, è alta la quota di visite specialistiche a pagamento intero. Nell’analizzare gli eventuali cambiamenti nei livelli di compartecipazione alla spesa da parte del cittadino riguardo alle visite mediche specialistiche, sono state escluse le visite odontoiatriche che, come è noto, sono molto spesso a totale carico del cittadino. Pertanto, nell’analisi che segue per “visite specialistiche” si intendono le visite specialistiche escluse quelle odontoiatriche.

Con riferimento all’ultima visita specialistica effettuata nei dodici mesi precedenti la rilevazione, il 35,7% delle persone non ha pagato, il 22,5% ha pagato il ticket ed il restante 41,8% ha pagato interamente (incluso un eventuale rimborso). Il confronto con il 2005 sembrerebbe indicare uno spostamento delle visite verso il Servizio sanitario pubblico: difatti è rimasta stabile la quota di coloro che non ha pagato, è aumentata quella delle persone che hanno pagato il ticket (+27%) ed è diminuita (-11%) la quota di coloro che hanno pagato interamente. Questa tendenza risulta confermata in particolare al Centro e al Sud.

Aumenta la quota a pagamento intero per accertamenti specialistici e analisi del sangue. Per fare accertamenti specialistici il 43,1% delle persone non ha pagato alcunché, il 32,0% ha pagato il ticket ed il restante 24,9% ha pagato interamente (incluso un eventuale rimborso). Per le analisi del sangue è più elevata la quota di coloro che non ha pagato (54,8%) o ha pagato il ticket (31,1%), mentre ha pagato per intero il 14,1%.

Rispetto al 2005, aumenta del 19% la quota di persone che ha pagato interamente gli accertamenti specialistici, l’incremento è molto più consistente per le analisi del sangue (+74%). Contestualmente la quota di persone che ha pagato il ticket si è ridotta del 18% nel caso delle analisi del sangue, mentre è rimasta sostanzialmente stabile per gli accertamenti specialistici.

Più di una persona su dieci rinuncia a prestazioni odontoiatriche per motivi economici. Sono le visite e i trattamenti odontoiatrici le prestazioni a cui si rinuncia più frequentemente: il 14,3% delle persone di 14 anni e più vi ha rinunciato negli ultimi 12 mesi. La rinuncia è dovuta principalmente a motivi economici (85,3%). È quanto emerge dalle informazioni rilevate per la prima volta nell’indagine sul fenomeno della rinuncia a prestazioni sanitarie (forgone care).

Nel caso di rinuncia a visite specialistiche (escluse quelle odontoiatriche) la quota si riduce al 7,7%. Ancora più contenuta è la percentuale di chi rinuncia ad un accertamento diagnostico specialistico (4,7%) o a prestazioni di riabilitazione (2,5%); molto esigua è la rinuncia a interventi chirurgici (0,8%). Inoltre è pari al 4,1% la quota di chi rinuncia all’acquisto di farmaci pur avendone bisogno, tra questi oltre il 70% perché avrebbe dovuto pagarli di tasca propria non essendo prescrivibili e il 25% perché il ticket era troppo costoso.

Rispetto a tali rinunce, il 6,2% ha indicato motivi economici, il 4,0% problemi di offerta di tali servizi (liste di attesa troppo lunghe o orari scomodi per l’appuntamento o difficoltà a raggiungere la struttura) e l’1,1% altri motivi, quali impegni di lavoro o familiari o altro.

Sono più spesso le donne a rinunciare (13,2% contro 9,0% negli uomini); tale differenza si accentua nella classe 45-64 anni, in cui rinuncia il 17,9% delle donne contro il 12,7% degli uomini. Nel Mezzogiorno la quota di donne 45-64enni che rinuncia sale al 22,3% nel Sud e al 26,5% nelle Isole.

Soddisfazione per il Servizio sanitario pubblico. I soddisfatti aumentano al Nord, diminuiscono nel Mezzogiorno. Complessivamente il giudizio sul Servizio sanitario pubblico resta allineato al 2005 e posizionato su valori che superano la sufficienza: circa il 60% della popolazione maggiorenne attribuisce un punteggio da 6 in su. Il punteggio medio complessivo è pari a 5,8 e il valore mediano è pari a 6, entrambi sostanzialmente invariati rispetto al 2005.

(Fonte: «Quotidiano Sanità»)
(Approfondimenti: http://www.quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=9216439.pdf)

26 – Quell’esame serve davvero? Se a deciderlo sono i cittadini. Il caso del PSA per il cancro alla prostata

27 dicembre 2013

È giusto affidare a una giuria popolare la decisione di inserire nel nomenclatore tariffario del Servizio sanitario nazionale un test diagnostico? Nel dicembre 2012 è stato avviato un progetto al Mario Negri di Milano con l’obiettivo di favorire lo sviluppo di strumenti e metodi di coinvolgimento, attraverso la sperimentazione del modello della “Giuria di cittadini”. L’idea alla base del progetto è che le decisioni sugli interventi medici che hanno natura collettiva e ricadute sulla comunità, oltre che sui singoli, debbano essere condivise con i cittadini. La “Giuria di cittadini” è un gruppo di cittadini che, dopo aver ricevuto informazioni chiare, trasparenti ed esaurienti su un argomento, delibera in considerazione dell’interesse collettivo su un tema di interesse pubblico.

Il progetto è stato promosso da PartecipaSalute e coordinato dall’IRCCS-Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri, con il Centro Cochrane Italiano e l’agenzia di editoria scientifica Zadig. Il tutto nasce all’interno delle azioni di ricerca sostenute dall’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali (Agenas) per promuovere lo sviluppo di processi di empowerment di comunità nei sistemi sanitari regionali.

In questo progetto alla “Giuria dei cittadini” è stato chiesto di rispondere alla domanda: Il Servizio sanitario deve sconsigliare o consigliare il PSA come test di screening individuale per il tumore della prostata in uomini di 55-69 anni? L’uso del PSA come test di screening individuale o spontaneo è infatti un tema dibattuto in letteratura e nella pratica, con ricadute collettive.

La “Giuria di cittadini” riunita a Modena il 15 giugno 2013 ha deliberato che il Servizio sanitario deve sconsigliare il PSA come test di screening individuale per il tumore della prostata in uomini di 55-69 anni. 

Motivazioni. La giuria è consapevole della rilevanza del problema, essendo il tumore alla prostata il più diffuso fra gli uomini e coinvolgendo direttamente 36.000 persone l’anno. Inoltre si rende conto che diversi milioni di test del PSA all’anno sono la spia di un forte bisogno di rassicurazione. Tuttavia, sebbene il PSA sia l’unico test disponibile per la diagnosi precoce del tumore della prostata, la maggioranza dei giurati, sentiti gli esperti e fatte le proprie considerazioni, ha ritenuto che non ci siano, ad oggi, le condizioni per cui il SSN debba consigliarne l’uso come test di screening individuale. In particolare ci tiene a sottolineare come sconsigliare non significhi vietare, quanto piuttosto esprimere un orientamento, di cui si sente la necessità. In un ambito ancora così controverso tale scelta va a favore della libertà del medico senza ledere quella del cittadino paziente.

Essa infatti non impedisce al medico di prescrivere ad un paziente asintomatico tale esame, ma gli garantisce la necessaria tranquillità nel caso non lo ritenga necessario, senza tema di incorrere in azioni giudiziarie. Essa inoltre può diventare un’occasione per il medico per approfondire le informazioni in merito al test e agli esiti degli studi finora effettuati oltre che un terreno di franca e onesta discussione con il paziente che lo richieda. A convincere in particolare i giurati sono stati: l’incertezza degli esiti del test, l’utilità individuale e sociale del test, il rapporto costi/benefici.

Incertezza degli esiti del test.  Come ogni test diagnostico, anche il PSA ha una sua sensibilità e specificità il cui rapporto non è considerato ottimale, né dagli esperti né dai giurati. Infatti, nel caso di esito negativo, il test fornisce al soggetto una falsa sicurezza, in quanto molti uomini con tumore hanno livelli di PSA nella norma (falsi negativi) e molti uomini con alti livelli di PSA non hanno in realtà un tumore (falsi positivi). Ciò espone un numero potenzialmente molto elevato di uomini, più della metà di chi si sottopone al test, a preoccupazioni e indagini, a volte anche invasive, quali la biopsia, che comportano margini di rischio.

Utilità individuale e sociale del test.  Oltre ai falsi positivi e negativi, il test porta a sovra-diagnosi, ovvero a identificare tumori che non si sarebbero mai sviluppati o che avrebbero avuto uno sviluppo tanto lento da non incidere sostanzialmente né sulla qualità di vita, né sulla quantità di vita della persona che ne è colpita. Di contro alla scoperta di un tumore, seguono delle cure che possono avere delle conseguenze anche pesanti sulla qualità di vita di un buon numero di persone fra cui: preoccupazioni, incontinenza urinaria, disturbi di erezione, ecc..

Rapporto costi/benefici. Il numero di persone sane o con un tumore a lenta progressione che rischiano di essere inutilmente trattate e di riportare le conseguenze di cui sopra sono considerate troppe in rapporto al numero di vite che la diagnosi precoce consente, nella migliore delle ipotesi, di salvare effettivamente. Questo saldo negativo, sia in termini medici che umani, si aggrava ulteriormente se ad esso si aggiunge il calcolo dei costi monetari derivanti dai trattamenti inutili.

Questi soldi potrebbero essere più utilmente investiti in informazione e nella ricerca di test più affidabili. Tuttavia tale saldo potrebbe eventualmente essere considerato accettabile se vi fosse la certezza del risultato, che la discordanza fra i dati degli studi mette seriamente in forse.

Non è facile rinunciare all’idea di un test in grado di individuare precocemente un tumore così diffuso come quello della prostata, tuttavia, al momento attuale esso non sembra in grado di svolgere questo compito con adeguata efficienza e rischia di illudere o gettare inutilmente nello sconforto un numero troppo elevato di persone che vi si sottopongono. In una situazione di restrizione delle risorse questa scelta è a maggior ragione impraticabile. La giuria con questa decisione si raccomanda che venga comunque effettuato un monitoraggio attento degli esiti del test che vengono effettuati come screening individuale nella fascia di età specificata.

Osservazioni.  La Giuria è inoltre stata chiamata a rispondere ad alcune sottodomande fornendo le seguenti risposte:

Con quali iniziative il sistema sanitario deve sconsigliare o consigliare: raccomandazioni, linee guida, campagne di sensibilizzazione, brochure informative, disincentivi o incentivi, altro?
Fare campagne di sensibilizzazione riguardo ai risultati controversi del test attraverso i media (pubblicità progresso). Promuovere attivamente uno stile di vita sano come forma di prevenzione del tumore della prostata attraverso la prescrizione scritta di misure preventive, come l’esercizio fisico (si veda l’esempio delle pillole di Educazione Sanitaria).

I giurati sono contrari all’ipotesi che si chieda al paziente di firmare un consenso informato prima di effettuare il test del PSA poiché credono che questo strumento, se non accompagnato da una buona informazione, possa essere poco utile al paziente stesso. Ciò che i giurati vogliono evitare è che il peso della decisione venga fatto ricadere su un cittadino che non ha sufficienti strumenti per scegliere. Prevedere che il test eseguito a titolo di screening individuale del tumore della prostata sia a carico dell’utente.

A chi devono essere rivolte le iniziative del sistema sanitario: medici di famiglia, specialisti, associazioni di pazienti o cittadini, pubblico generale?
Campagne di sensibilizzazione rivolte direttamente ai cittadini attraverso i media. Diffusione di informazioni attraverso incontri con la cittadinanza promosse dalle associazioni di volontariato. Campagne informative rivolte ai medici di base, attraverso convegni e corsi di aggiornamento (ECM). L’informazione allo specialista in urologia non viene ritenuta necessaria in quanto si suppone che sia già informato.

Quale informazione il sistema sanitario deve dare sul PSA come test di screening e a chi la deve rivolgere?
Devono essere fornite informazioni relative all’incertezza della diagnosi formulata attraverso il test PSA, sulle false positività e false negatività. È necessario spiegare le conseguenze della sovra diagnosi, che può comportare un peggioramento della qualità della vita del paziente, senza che egli ne ricavi un reale vantaggio in termini di allungamento della vita.
È tuttavia importante che le informazioni siano complete e che includano il fatto che attraverso il PSA è possibile salvare delle vite, ma che per ogni vita salvata, diverse decine di persone andranno incontro a sovra-diagnosi e sovra-trattamento e potranno incorrere in incontinenza urinaria e impotenza.
È inoltre utile fornire informazioni sugli stili di vita che si sono rivelati utili per ridurre l’incidenza del tumore della prostata come: non fumare, fare esercizio fisico, seguire una dieta equilibrata ecc.

Quali garanzie di qualità e indipendenza da interessi commerciali o di categoria devono avere le iniziative e l’informazione del sistema sanitario?
L’informazione dovrebbe essere fornita solo da enti pubblici interessati unicamente alla salute. Non devono apparire marchi di case farmaceutiche o produttori di ausili o altri prodotti per la salute.

Edoardo Stucchi

(Fonte: «Quotidiano Sanità»)

27 – Contenzione fisica. Legge ed etica a volte confliggono: ecco i nuovi criteri dell’ISS

27 dicembre 2013

Uno studio etico, oggi, valuta la contenzione fisica – cioè l’applicazione o l’uso di presidi come barriera nell’ambiente per ridurre o controllare i movimenti dei pazienti – in ambito psichiatrico. La ricerca, pubblicata sugli Annali dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), è stata effettuata da Carlo Petrini, responsabile dell’Unità di Bioetica dell’ISS e membro del Comitato Nazionale per la Bioetica.

In generale, la contenzione fisica è un tema ampiamente dibattuto e non riguarda soltanto la psichiatria, ma anche la neurologia, la geriatria e altri contesti clinici e assistenziali. In psichiatria, però, il tema è molto sentito, anche dalle istituzioni (legislative, giudiziarie, sanitarie): in particolare, in relazione alla chiusura, entro il 1° aprile 2014, degli ospedali psichiatrici giudiziari e all’attivazione di programmi regionali per affidare ai dipartimenti di salute mentale la presa in carico dei soggetti, detenuti e internati, affetti da disturbi mentali.

Pur con le diversità che derivano dai differenti contesti in cui la contenzione è applicata, occorre distinguere due aspetti:
1. il problema dell’abuso (ovviamente illegittimo sotto i profili sia etico, sia giuridico)
2. i requisiti per un eventuale utilizzo legittimo (sotto i vari profili: clinico, etico, giuridico)

L’articolo non dà risposte operative ai singoli problemi, ma si propone di fornire criteri metodologici, come aiuto per gli esperti all’interno dei diversi scenari in cui vengono prese delle decisioni operative.

La tematica è affrontata attraverso due punti di vista che corrispondono a due argomentazioni. La prima prende in considerazione documenti emanati da autorevoli istituzioni nazionali e internazionali (codici deontologici, linee guida, etc.), con particolare riferimento al Consiglio d’Europa. La seconda considera il quadro teorico dei valori o principi di etica. Ovviamente le due tipologie sono ampiamente intersecate, poiché i documenti necessariamente fanno riferimento ai valori. Tuttavia, è possibile che sorgano conflitti tra la deontologia e i regolamenti: di conseguenza, coloro che devono decidere si trovano talvolta in gravi difficoltà, anche per motivi di coscienza.

Come si legge nell’articolo,  «nella ricerca di identificare criteri operativi, può essere utile combinare i due approcci menzionati sopra: i cosiddetti ‘principi di bioetica’ e i documenti istituzionali».

In particolare l’autore prende spunto dal classico modello dei principi della Bioetica nordamericana (autonomia, ‘beneficialità’/non ‘maleficenza’, giustizia) ed evidenzia i conflitti tra valori che possono determinarsi: per esempio, la libertà (che fa riferimento al principio di autonomia e che si esplicita nel consenso informato) può essere in conflitto con gli scopi terapeutici (beneficialità) e anche con il dovere di proteggere dai rischi per il paziente stesso o per l’incolumità altrui (giustizia). «Gli stessi autori che hanno definito i principi della Bioetica nordamericana hanno anche proposto una griglia di riferimento per aiutare a decidere – dove c’è un conflitto tra principi – quando una violazione di uno o più di questi principi è giustificata», si legge ancora.

L’autore propone dunque alcuni parametri per giudicare l’eventuale ammissibilità della contenzione, tenendo presente che la si tratta di un atto gravemente lesivo della dignità della persona e che vi sono opinioni convergenti nel ritenere che essa non abbia alcun valore terapeutico. Essa è dunque una pratica ammissibile soltanto in condizioni estreme, quando non siano praticabili alternative meno lesive della persona. Tra i criteri proposti vi sono: priorità alle alternative meno traumatizzanti, esame caso per caso, proporzionalità, valutazione di pericolo grave, limite temporale, informazione. Tutto ciò deve attuarsi sempre nella prospettiva del migliore interesse per il paziente, che è un imperativo deontologico.

Viola Rita

(Fonte: «Quotidiano Sanità»)
(Approfondimenti: http://www.quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=8150654.pdf)

28 – Stamina, Lorenzin nomina nuovo Comitato scientifico

28 dicembre 2013

Nominato il nuovo comitato scientifico che dovrà occuparsi della complessa vicenda Stamina. Ovvero del protocollo terapeutico messo a punto dalla Stamina Foundation con l’uso di cellule staminali. Protocollo peraltro coperto da segreto in quanto in fase di brevetto. La decisione fa seguito a un’ordinanza del Tar del Lazio e tiene conto di quanto indicato dall’Avvocatura dello Stato.

I componenti del Comitato sono stati individuati dal ministro della Salute, Beatrice Lorenzin. Dovranno valutare la terapia proposta da Stamina e decidere sulla possibilità di un’eventuale sperimentazione. Presidente è stato nominato Mauro Ferrari, definito dal ministro Lorenzin «figura di garante ad alto livello, non della materia ma riconosciuto a livello internazionale per qualità scientifica». Ferrari sarà affiancato nel suo lavoro da due esperti stranieri di staminali, due esperti italiani, due clinici in ambito metabolico e neurologico, entrambi noti nel campo della terapia cellulare.

Il ministro ha ricordato i criteri seguiti nella scelta dei nomi. Sono scienziati che non hanno mai preso posizione sul caso Stamina; sono stati individuati in base ai criteri in uso nella comunità scientifica per valutare la qualità della produzione scientifica e tenendo conto del fatto che abbiano responsabilità operative in centri o istituzioni dedicate alla ricerca; sono persone dotate di specifica professionalità clinica per potere valutare in modo corretto le cartelle cliniche dei pazienti sottoposti al protocollo in esame.

I nomi. Presidente: Mauro Ferrari, Ph.D., presidente e Ceo dello Houston Methodist Research Institute; vice presidente esecutivo dello Houston Methodist Hospital; professore presso il Weill Cornell Medical College, New York; presidente della Alliance for NanoHealth. Componenti: Sally Temple, Ph.D., direttore scientifico del Neural Stem Cell Institute, NY (esperto staminali straniero); Curt R. Freed, M.D., Capo divisione e professore presso l’University of Colorado (School of Medicine) (esperto staminali straniero); Vania Broccoli, capo unità della Divisione di neuroscienze Stem Cell Research Institute, Ospedale San Raffaele Milano (esperto staminali italiano); Francesco Frassoni: direttore centro cellule staminali e terapia cellulare Ospedale Giannina Gaslini Genova (esperto staminali italiano); Carlo Dionisi Vici, malattie metaboliche, Dipartimento di pediatria, Ospedale pediatrico Bambino Gesù Roma (clinico esperto terapia cellulare); Antonio Uccelli, Centro per la sclerosi multipla dell’Università di Genova, Neuroimmunologia del Centro di eccellenza per la ricerca biomedica (Cebr) (clinico esperto terapia cellulare).

Ma le famiglie non ci stanno. In contemporanea alla presentazione del Comitato scientifico le famiglie dei bambini trattati con il protocollo Stamina hanno organizzato una conferenza stampa per mostrare le loro prove a favore della terapia. I genitori di Celeste e Sebastian, entrambi affetti da Sma e trattati con le infusioni secondo il metodo Stamina, hanno mostrato dei video in cui si mettono in evidenza i loro miglioramenti nella capacità di eseguire e controllare movimenti. All’incontro dei genitori con la stampa era presente anche il neurologo Marcello Villanova. «Tutti si sono rifiutati di andare a vedere questi bambini – ha sostenuto il medico -. Ma non ci si può limitare all’esame delle cartelle cliniche. Inoltre oggi i video possono veramente dimostrare i miglioramenti nei pazienti nel tempo e sono diventati fondamentali nella valutazione». Vilanova ha sostenuto di non avere alcun rapporto con la Stamina Foundation. Durante l’incontro, Felice Massaro, nonno di un piccolo paziente di Pesaro, ha chiesto che il pm torinese Raffaele Guariniello apra un’inchiesta sulla fuga di notizie riguardo alle cartelle cliniche conservate agli Spedali Civili di Brescia. I documenti erano infatti stati segretati.

(Fonte: «Avvenire»)

29 – Famiglie povere, culle vuote

30 dicembre 2013

Famiglie più povere e culle sempre più vuote. Due dati che spiegano con chiarezza lo stato di crisi in cui versa il nostro Paese. Il primo dato arriva dal Rapporto sulla coesione sociale elaborato dall’Istat. Il secondo emerge da un’elaborazione realizzata da dati Istat per Adnkronos.

In quanto alla riduzione del benessere, nel 2012 sono venute a trovarsi in stato di povertà relativa il 12,7% delle famiglie residenti in Italia, con un aumento rispetto al 2011 dell’1,6%, e il 15,8% delle persone (+2,2%). Sono i valori più elevati dal 1997, primo anno in cui si iniziò a fare questo calcolo. La povertà assoluta colpisce invece il 6,8% dei nuclei familiari e l’8% degli individui. Prendendo come riferimento il 2005 gli indigenti assoluti sono raddoppiati. In particolare nelle regioni del Nord sono quasi triplicati, passando dal 2,5% al 6,4%.

Le difficoltà maggiori riguardano le famiglie numerose, soprattutto se con figli minori e se meridionali. Ma anche quelle in cui convivono più generazioni, ovvero sono presenti gli anziani. Secondo l’Istat un minore su 5 vive in un nucleo in condizione di povertà relativa, mentre uno su 10 si trova in un ambito di povertà assoluta. Questo ultimo valore appare raddoppiato rispetto al 2005. Qualche segnale positivo pare esserci per gli anziani, in cui si nota una tendenza alla riduzione di quelli in povertà relativa. Resta però molto critica la situazione nel Mezzogiorno, dove risulta relativamente povero il 27,2% degli anziani, e assolutamente indigente il 7,9%.

Le culle vuote, un altro segno della povertà che avanza e della mancanza di fiducia nel futuro e, forse, nella vita, sono l’altra faccia delle difficoltà delle famiglie. Nel 2013, secondo quanto reso noto da Adnkronos su dati Istat, sono nati 62 piccoli in meno al giorno rispetto al 2012, circa 22.700 bebé in meno. Un dato che appare il più basso dal 1980. Naturalmente dati e tendenze variano a seconda delle aree geografiche. La capitale è in espansione, Milano recupera, Firenze è stabile. Le zone terremotate dell’Emilia, addirittura, presentano in diversi comuni un incremento della natività. «Un segno beneagurante di speranza», secondo il pediatra Italo Farnetani, che ha elaborato i dati sulle nascite nel 2013. Resta però ai minimi Palermo, dove secondo il Comune, nel 2012 per il sesto anno consecutivo il numero dei nati è rimasto sotto quota 7.000.

(Fonte: «Avvenire»)

© Bioetica News Torino, Gennaio 2014 - Riproduzione Vietata