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6 Febbraio 2013
Bioetica News Torino Febbraio 2013

Uno sguardo sul mondo: “Questione ambientale, questione umana”

Lo scorso anno a Roma abbiamo avuto una nevicata sorprendente, non se ne vedevano da decenni. Ne abbiamo approfittato, scendendo sotto casa con i bambini per fare un bel pupazzo di neve, con tanto di sciarpa al collo e rametti al posto di naso e braccia. La meraviglia però è durata poco: la neve nel giro di poco tempo si è sciolta e con essa il nostro pupazzo. Niente di strano, strano sarebbe se, a distanza di un anno, il pupazzo fosse ancora lì a salutare tutti il condominio.

È conseguenza di una legge della fisica, che chiamiamo entropia: tutto tende al disordine, al livellamento e anche il nostro antropomorfo ghiacciolo non sfugge a questa regola, non ha in sé la possibilità di sfuggirle.

All’opposto della materia inanimata, però, «un organismo vivente ha delle proprietà speciali che gli permettono di resistere alla distruzione, di guarire le sue ferite, di rimettersi da certe malattie» (Salvatore Arcidiacono).

È proprio questa, come ci ricorda P. Grassé, «una delle differenze radicali che oppongono il fenomeno fisico al fenomeno biologico», la coercizione assoluta del primo alle leggi della materia, mentre «l’essere vivente non subisce la legge fisica senza reagire. Esso può sfuggirle».

Gli organismi viventi, infatti, … vivono: si nutrono, crescono, si riproducono. Viventi e non viventi dunque non sono uguali. Ovvio, ma non tanto, se pensiamo a svariati autori di matrice ecologista “ecocentrista”, per i quali la bontà di un’azione umana si misura esclusivamente sul salvaguardare l’armonia della biosfera, mettendo sullo stesso piano organismi viventi e fattori abiotici.

Una critica analoga meritano però anche le teorie ecologiche “biocentriche”, per le quali, fatta salva la differenza vivente-non vivente, vige l’estensione del principio di uguaglianza a tutti gli organismi: apparentemente un nobile gesto, che però dimentica la realtà, quella sotto gli occhi di tutti, e cioè che nella meravigliosa varietà dei viventi ce n’è uno che si differenzia essenzialmente, radicalmente da tutti gli altri. Il vivente uomo.

La poesia di Karol Wojtyla espresse questo magnificamente:

Una volta proprio questo stupore ebbe nome “Adamo”. Ed era solo, col suo stupore, tra le creature che non si stupivano – per le quali esistere e scorrere era sufficiente  […] Meravigliandosi sempre emergeva dall’onda che lo trasportava, come per dire a tutto il mondo “fermati!” – in me hai il luogo d’incontro con l’eterno Verbo – fermati  […] questo scorrere ha un senso!

Leggere un senso nelle cose, cercare il senso della vita, orientare la propria esistenza sulla base di valori e fini, il grave peso della libertà di poter essere umani, ma anche di scegliere di non esserlo, comportandoci disumanamente … tutto questo (e molto altro) è esclusivamente umano.

Già nel 1997 Giovanni Paolo II metteva in guardia da quelle visioni ecologiste che si propongono  «di eliminare la differenza ontologica ed assiologica tra l’uomo e gli altri esseri viventi, considerando la biosfera come un’unità biotica di valore indifferenziato».

la superiorità umana non significa dominio arbitrario e dispotico […] si declina in libertà, responsabilità, servizio

Piuttosto che fare gli interessi della natura in tal modo, continuava il pontefice «si viene così ad eliminare la superiore responsabilità dell’uomo in favore di una concezione egualitaristica della dignità di tutti i viventi». Già, perché la superiorità umana non significa dominio arbitrario e dispotico. È una superiorità, un’eccellenza che merita il nome di dignità umana e che dunque si declina in libertà, responsabilità, servizio.

Purtroppo è vero che, proprio per il dramma inscritto nella stessa libertà, l’uomo ha devastato «quell’aiuola che è la terra nostra dimora», scriveva ancora l’amato papa polacco. Ma in questo l’uomo ha «deluso l’attesa divina», ha tradito se stesso, la sua vocazione. Pertanto la «conversione ecologica» passa per la riscoperta e non per l’eliminazione e l’umiliazione dell’umano che è in noi.

Un atteggiamento «deleterio» quest’ultimo, scriveva Joseph Ratzinger, «che vede l’uomo come un guastafeste che rompe tutto e che è il vero parassita e la vera malattia della natura». In tale pessimistica prospettiva

L’uomo non ha più simpatia per se stesso e preferirebbe ritirarsi affinché la natura ritorni sana. In questo modo non guariamo la natura, bensì distruggiamo noi e il creato. Lo priviamo della speranza e della grandezza a cui è chiamato.

Ecco dunque che la questione ecologica è primariamente una questione morale e antropologica. Il rispetto per gli habitat naturali e per tutti i viventi, in quanto dono di Dio posto sotto la nostra custodia responsabile, passa prima di tutto per il rispetto per il primo dono che da Dio abbiamo ricevuto, cioè noi stessi: anche la nostra “umanità” è una nostra responsabilità. Questa è quella che il magistero recente ha indicato come “Ecologia Umana”.

In tal senso, è anche da rispettare, in quanto insito nella nostra stessa “struttura” spirituale, la chiamata ad andare sempre verso l’oltre, verso l’altro e verso l’Alto. Frutto di questa ineludibile spinta è lo sviluppo, anche quello tecnoscientifico, che può dirsi veramente umano e integrale quando è indirizzato a migliorare noi stessi e il mondo che ci circonda.

Non dimentichiamo, infatti, che dal punto di vista meramente biologico, non siamo superiori agli animali. Scriveva Lucrezio:

crescono i vari animali domestici, gli armenti e le fiere, né c’è bisogno di sonaglini, […] né essi richiedono vesti diverse secondo le stagioni; infine, non hanno bisogno di armi, né di alte mura, per proteggere i propri averi, giacché, per tutti, tutto largamente producono la terra stessa e la natura artefice.

L’uomo invece ha risposto alle sue “carenze” (A. Gehlen) mediante le cure parentali, le istituzioni e mediante la tecnologia; essa è il “fuoco” concesso da Prometeo per rimediare alla svista di Epimeteo: siamo gli unici ad accenderlo, ad accendere luci, a produrre energia. «L’umanità è tecnologica per natura», scrive J. M. Galvan.

Questo non significa cadere in una sacralizzazione della tecnica, o in una deriva scientista dove si deve realizzare sempre tutto ciò che è tecnicamente possibile. Significa riscoprire la dimensione etica e la positività antropologica della tecnologia, quella che lo stesso Galvan definisce “tecnoetica”.

Del resto sia la tecnocrazia sia l’opposto ecologismo alla fine erodono l’idea decisiva di uomo, il quale non sarebbe più, come scriveva Paolo VI, «la prima e la più grande ricchezza che possiede la terra», ma del mero materiale da manipolare. Come il nostro pupazzo di neve.

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