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17 Febbraio 2014
Bioetica News Torino Febbraio 2014

Una prossimità che apre alla speranza

UNA PROSSIMITÀ CHE APRE ALLA SPERANZA1

 Una società fragile

La società rappresenta il nostro “essere in relazione” in un sistema ormai globalizzato.

I problemi, la crisi, le fragilità delle singole persone, oppure come realtà agglomerate, incidono e condizionano tutti. Noi siamo parte di un tutto, ma un tutto che ci comprende e ci circonda e ci condiziona.
Ogni giorno, connessi alle multiformi possibilità di comunicazione che utilizziamo come finestre sul mondo, ci accorgiamo di molte situazioni di difficoltà che ci interpellano e chiedono delle risposte.

La crisi economica e quella etica conseguente, hanno messo in luce le grandi questioni sociali.
Prima fra tutte quella del lavoro: la moltitudine di giovani precari o di adulti rimasti in cassa integrazione a zero ore o disoccupati, ha impoverito e reso fragile un tessuto sociale che sembrava avesse raggiunto una solidità intramontabile.
La tanto sospirata certezza del lavoro è diventata un’utopia per le nuove generazioni.
Questa situazione, a cascata, ha procurato una serie di conseguenze sociali che rischiano di portare alla deriva moltissime persone.

L’impossibilità di progettare un futuro ha reso la famiglia una realtà fragile e non più stabile e sicura come un tempo, gli anziani, sovente, sono l’ancora di salvezza di molti giovani che non riescono più a reggere autonomamente…

Mi ha impressionato durante un incontro fra il Sindaco di Torino e i Parroci della città, l’affermazione del Vescovo, secondo il quale per più di un secolo ogni nuova generazione ha migliorato il suo status sociale rispetto a quella precedente, i figli stavano meglio dei genitori, mentre ora si apre una stagione in cui si rischia che i nostri figli peggiorino il loro standard di vita rispetto ai loro famigliari.

Questo stato esistenziale porta a delle derive pericolose quali la noia, la disperazione, il rifugiarsi nel gioco o l’affidarsi agli strozzini, realizzando degli stili di vita disordinati che intaccano il proprio ben-essere fisico, psicologico, spirituale e sociale.
L’aumento delle dipendenze, non solo da sostanze, ma anche da alcol e gioco, procura forme di depressione che alterano ogni tipo di relazione e, in alcuni casi, arrivano a forme di violenza verso le persone più vicine, o lesive verso sé stessi fino a giungere al suicidio.

L’OMS ha dichiarato recentemente che le malattie più diffuse a breve termine, saranno proprio quelle legate alla salute mentale (ansia, depressione ecc…) superando quelle cardiovascolari o tumorali.

Tutto ciò ci dà uno spaccato della nostra società di grande fragilità umana.

 

Il prete uomo fra gli uomini

Il prete, per sua natura, è chiamato a stare fra la gente e con la gente che gli è stata affidata.

Non possiamo non ricordare alcuni richiami di Papa Francesco riguardante lo stile dei Pastori; ricordo quando ha detto che i Pastori devono avere “l’odore delle proprie pecore”, oppure quando ha richiamato tutti ad andare verso le periferie delle nostre città.
Un prete sensibile e continuamente a contatto con situazioni “disperate”, si trova necessariamente in questo crocevia di umanità.

La stessa Parrocchia, che è la presenza capillare sul territorio delle nostre città, deve diventare un centro nevralgico di accoglienza e di ascolto.
Le nostre chiese e strutture devono essere aperte e capaci di accogliere senza pregiudizi di sorta quanti approdano carichi dei loro pesi presso le nostre comunità, sicuri di trovare un porto sicuro che li ascolta e li aiuta.
La gente ama il prete che sente prossimo, vicino, che condivide e si fa carico delle situazioni più disperate.

A questo proposito credo che dobbiamo anche intendere il Ministero Presbiterale in un’ottica più ampia rispetto a quella a cui siamo abituati.
Intendo dire che non è sufficiente quella classica del parroco, anche se rimane centrale, in quanto la Parrocchia rimane la “fontana del villaggio” come afferma il Beato Giovanni XXIII.
Penso quindi ai tanti sacerdoti che operano negli ambienti di vita come la scuola e l’Università, la fabbrica, l’ospedale o la strada, accanto alla gente.

In questo senso il prete veramente condivide la fragilità degli uomini, facendosi uomo tra gli uomini e realizzando quella dimensione teologico-spirituale che è l’incarnazione, così come ha fatto Cristo che «pur essendo di natura divina… spogliò se stesso assumendo la condizione di servo».

 Copertina e sommario di  «Presbyteri», Accanto agli sconfitti della vita,  9/2013

Prospettive pastorali e spirituali

Il Prete deve affrontare queste situazioni con grande umiltà, senza cadere nella tentazione dell’efficientismo e dell’organizzazione, che porta in sé il virus della burocratizzazione e del formalismo. Non servono tanti organigrammi o commissioni di studio!

È necessario affrontare i problemi con molta serietà, individuando un impegno pastorale e spirituale con tutta la comunità cristiana, evitando ogni forma di clericalizzazione.

Individuerei alcune parole chiave:

a) COMUNIONE

È importante che tutti si sentano coinvolti nell’affrontare i gravi problemi della gente che ogni giorno si presentano.

La cosa più bella è vedere una comunità che sia in comunione con sé stessa e con la Chiesa locale e universale. Un sentire comune che va nella stessa direzione.

Scelte condivise e partecipate sono il segreto di un’autentica azione pastorale. Volersi bene, innanzitutto, fra presbiteri e popolo. È l’amore di Gesù Cristo che salva e che si esprime nell’amore fra di noi e verso il prossimo.

b) ASCOLTO

L’ascolto deve essere l’atteggiamento fondamentale.

Nella stessa Bibbia, pensiamo al libro dell’Esodo, si attribuisce a Jahwé stesso questo atteggiamento: “ Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. » (Esodo 3,7)
I Presbiteri devono riacquistare questo atteggiamento di ascolto in quanto la gente vuole essere ascoltata.
Questo comporta anche un cambiamento di atteggiamento e comportamento di molti preti, i quali sono diventati molto frenetici e non hanno più tempo da dedicare all’ascolto.

Troppa gente lamenta il fatto che i loro sacerdoti li ricevono con l’orologio alla mano e di corsa perché hanno altre incombenze a cui far fronte.
Questo è un problema serio che noi preti dobbiamo porci insieme ai nostri Vescovi.
Se la gente non ci trova disponibili all’ascolto andrà in cerca di altre persone più disponibili.

La mia non vuole essere un critica “tout court” ai preti, perché so quanto lavoro ci sia specialmente in una Parrocchia, ma mi chiedo in via provocatoria, se tutto ciò che è quotidianamente richiesto, per esempio ai Parroci, sia proprio di loro competenza e così prioritario.

L’ascolto è la via che conduce alla direzione spirituale, di cui non si sente quasi più parlare e alla richiesta di perdono attraverso il sacramento della riconciliazione.
L’ascolto è un mondo concreto di prossimità che apre alla speranza.

c) TERRITORIO

 

Ogni realtà va contestualizzata nel proprio territorio.

È importante che il prete non si senta l’unico “salvatore”, ma sappia fare rete con tutte le risorse sociali presenti sul territorio.

Vorrei proporre una sorta di “rete” che colleghi tutte le risposte possibili ai bisogni delle persone.

Mi piace anche usare un’altra immagine, quella del Mosaico, che può diventare “terapeutico” nel senso proprio del temine, cioè del prendersi cura, farsi carico insieme e non individualmente degli uomini e delle donne afferenti a quel particolare territorio con tutta la sua storia e le sue ricchezze sociali, relazionali e spirituali.

Un territorio non è mai qualcosa di astratto ma è sempre un insieme di persone singole o organizzate da scoprire e integrare per il bene comune.

Un ruolo fondamentale può essere svolto dalle donne; il genio femminile, così come l’aveva definito Giovanni Paolo II, può essere un elemento che porta dolcezza e delicatezza, tratti tipici che, uniti alla tenerezza e alla cura, rendono il servizio di prossimità e carità più autentico e accettabile da parte di tutti.

Parrocchie aperte

 

La vita delle nostre Comunità Parrocchiali rischia di standardizzarsi in una prassi ordinaria che non tiene conto della pastorale d’ambiente.

Alcune realtà presenti sul territorio parrocchiale, come per esempio l’ospedale, le RSA, il carcere, l’università ecc… sono stimoli e provocazioni per una pastorale integrata, che tenga conto di quanti vivono nei suddetti ambienti o vi lavorano.

Mi è capitato di incontrare dei Parroci che, rispetto ai luoghi di cura presenti sul loro territorio, non intendevano assumere alcuna responsabilità pastorale, quasi che le persone residenti in quelle strutture sanitarie non fossero parrocchiani.

Si tratta di superare la tentazione della delega ad altri, in molti casi, per esempio al cappellano di turno, in quanto molte persone vengono intercettate proprio attraverso una presenza pastorale in questi ambienti particolari, che talvolta sono dei veri e propri crocevia di umanità.

Pastorale ordinaria e d’ambiente debbono quindi integrarsi per incontrare l’uomo là dove vive, trasformandosi quindi in una pastorale missionaria che vuole raggiungere, con il suo messaggio di speranza, ogni singola persona.

 

La sofferenza come luogo teologico e pastorale

È facile imbattersi in molte tipologie di sofferenza, da quella più evidente, che è la fisica, a quella più sottile che è la psicologica e spirituale.

Prestare attenzione ad ogni sofferenza, in qualsiasi modo si manifesti, significa far si che quel tempo diventi un luogo teologico, cioè un luogo in cui Dio si rivela e parla.

Il libro di Giobbe al cap. 42,5 si esprime in questo modo: «Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono…».

Vivere correttamente i momenti di sofferenza e fragilità significa comprendere che il Signore è colui che è presente nel momento del dolore, è colui che attraversa il guado con te, è colui che condivide il dolore. Il silenzio di Dio è superato dalla sua presenza amorosa.

Il tempo della sofferenza è una opportunità pastorale, che ci permette di illuminare con la luce della Parola di Dio e con la grazia dei sacramenti i grandi perché della vita e le grandi domande di senso che certe situazioni difficili pongono a Dio, al mondo e a sé stessi.

Ecco perché prestare attenzione alle situazioni di sofferenza può diventare occasione di crescita, umana e cristiana.

Dio misericordioso

Una difficoltà che emerge oggi nelle nostre comunità, è comprendere fino in fondo quanto Dio sia veramente il Padre misericordioso, così come Gesù ce lo ha presentato nella Parabola del Padre misericordioso presente nel Vangelo di Luca.

Il peccare è fonte della nostra fragilità umana; il Cristiano battezzato sa che Dio perdona ogni peccato, perché grande è la sua Misericordia, se noi siamo pentiti.
Il problema è che oggi a causa di un certo relativismo che ha portato ad una deriva etica, le persone non sono più capaci di riconoscere il peccato, pertanto non si sentono colpevoli e bisognosi del perdono di Dio.
In altri casi il senso del peccato è tale che alcuni pensano di non poter essere perdonati da Dio e dagli uomini. Non c’è nulla di più falso; Dio perdona sempre il peccatore pentito.

Dobbiamo tornare a formare delle coscienze rette, capaci di giudicare le proprie azioni, alla luce del Comandamento dell’Amore, solo così peccando, potremo gustare le gioie del perdono.

L’annuncio del Vangelo

L’annuncio del Vangelo diventa la cifra di ogni comunità cristiana; noi troviamo proprio in quell’annuncio la forza che cambierà il mondo.

Sono molte le situazioni che vanno evangelizzate, cioè che trovano nella Parola del Vangelo il senso più vero e profondo.
Anche la vita personale di ciascuno trova senso nell’accoglienza della Parola del Signore.
Il confronto di ogni persona con il Vangelo fa crescere spiritualmente e indica un senso alla vita che è grazia e pienezza.

Il Vangelo dunque non rappresenta qualcosa di astratto, bensì di concreto che condiziona le scelte quotidiane di chi sa accoglierlo, per poi, a sua volta testimoniarlo, con gioia agli altri.

Di fronte alla disperazione

Ci sono cose che non vorresti mai fare, e fra queste, per un sacerdote celebrare i funerali di suicidi o di morti violente.
Purtroppo la disperazione umana può raggiungere certi abissi che portano a gesti che feriscono violentemente la vita e ciò che rappresenta, sia quando viene tolta volontariamente, sia quando è vittima di atti violenti.
Saper accompagnare la comunità in questi momenti diventa un dovere del Pastore.

Là dove sembra che la disperazione abbia preso il sopravvento, bisogna avere il coraggio e la forza di annunciare la speranza, quella speranza autentica che è Cristo stesso, così come ci insegna San Paolo.
In queste circostanze più che le parole, sono gesti di condivisione e consolazione, intesi in senso etimologico, “non lasciar soli”, che aiutano a rialzare la testa e ad asciugare le lacrime di quanti rimangono e non sanno quali spiegazioni darsi.
La morte è sempre qualcosa che ci turba, ma quando è violenta diventa insopportabile da accettare.

La speranza, nonostante tutto ci aiuta a guardare al futuro, a nuovi orizzonti che trovano il loro fondamento nella Resurrezione di Gesù. “Se Cristo non fosse risorto, vana sarebbe la nostra fede ” ci dice San Paolo.

 

 Il guaritore ferito

Tutti conosciamo questa espressione e credo bene si addica ai tanti sacerdoti che, a causa dell’anzianità, della malattia, della stanchezza o della sfiducia, vivono anche loro un tempo della sofferenza.
Non possiamo considerarci esonerati dai momenti bui della sofferenza.
Quando il dolore bussa alla vita di un prete, non possiamo pensare che lui possa affrontarlo da solo.

La fraternità sacerdotale, così ben decantata dai documenti della Chiesa, si realizza e si esprime nello stare accanto a chi è ferito, pur sapendo che questa persona ha curato le ferite di molta gente.
Il Vescovo e il Presbitero devono far sentire quel calore umano, tipico di una famiglia, a colui che per vocazione non ha una sua famiglia di sangue.

Aiutare, soccorrere e sostenere i sacerdoti sofferenti e in difficoltà è un grande gesto di amore e di fratellanza, ma diventa anche una risorsa vocazionale, in quanto i giovani vedono che il donarsi a Dio e alla Chiesa, vuol dire entrare a far parte di una grande famiglia, che sa sostenerti e starti vicino anche nella sofferenza di qualsiasi genere.

Sono certo che il sostegno e la cura dei sacerdoti sofferenti sia la prima testimonianza che una Chiesa deve dare, come riconoscenza per una vita spesa e donata tutta per gli altri. La preghiera e la vita spirituale profonda faranno tutto il resto.

 Conclusioni

In questo mio contributo ho voluto esprimere che, in quanto presbiteri, abbiamo il compito di scrivere la Parabola del Buon Samaritano, in quanto così facendo, cioè diventando prossimi agli altri e degli altri, possiamo vivere quella Speranza che riempie il cuore di ogni sconfitto della vita che incontriamo sul nostro cammino.


1 Don Marco BRUNETTI, Una prossimità che apra alla speranza, in  «Presbyteri». Rivista di spiritualità  pastorale della Congregazione di Gesù Sacerdote (via dei Giardini 36, 38122 Trento), anno  XLVII, 9 (2013),  Editrice Quaderni di Spiritualità,  Trento, pp. 665-673; email: presbyteri@padriventurini.it; web: http://www.padriventurini.it 

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