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Aborto volontario: i “No” dall’obiezione di coscienza ai tre giorni di riflessione nella proposta del ministero spagnolo

16 Luglio 2021

In Spagna il medico ha la facoltà di poter esercitare l’obiezione di coscienza per l’interruzione volontaria di gravidanza, un diritto che sarà messo in discussione nella nuova riforma legislativa sull’aborto che la ministra per pari diritti Irene Montero sta preparando ed ha annunciato all’Instituto de la Mujer, in Madrid, l’8 luglio, durante la presentazione delle linee principali del progetto su salute sessuale e riproduttiva.

Una notizia che desta forte preoccupazione da parte dell’Ordine nazionale dei medici tanto che ha deciso di rispondere con tempestività all’intenzione espressa dalla ministra secondo la quale «il diritto delle donne di decidere del proprio corpo non può sottoporsi a quello dell’obiezione di coscienza dei medici. Le donne devono poter realizzare l’interruzione volontaria di gravidanza in un ospedale pubblico vicino, scegliendo il metodo e con le garanzie per i loro diritti», riportata da Lavanguardia l’8 luglio 2021.

Due giorni dopo appare la dichiarazione del Consiglio generale dei Collegi ufficiali dei Medici (Cgcom) che con tono incalzante controbatteva: «ostacolare l’obiezione di coscienza del personale sanitario è una cattiva soluzione che risulta inaccettabile, illegale e ingiusta e che spetta ai servizi sanitari e sociali realizzare bene il loro lavoro e la loro gestione al fine di garantire alle donne, che vanno a sottoporsi ad un’interruzione volontaria di gravidanza, di contare su un appoggio appropriato». E aggiungeva che «la garanzia di una prestazione del sistema sanitario nazionale disponibile e accessibile trascende l’ambito individuale, articolandosi attraverso le reti sanitarie e avendo come protagonisti i gestori più che i medici».

Una questione che è stata dibattuta a lungo in Italia in diverse occasioni dall’aborto volontario al fine vita. Seppure regolamentata nella procreazione medicalmente assistita, nella sperimentazione animale e nell’aborto volontario, l’obiezione di coscienza è prevista con una clausola nell’art. 9 del codice di deontologia medica per qualsiasi atto sanitario: «Il medico può rifiutare la propria opera professionale quando vengano richieste prestazioni in contrasto con la propria coscienza o con i propri convincimenti tecnico-scientifici, a meno che il rifiuto non sia di grave e immediato nocumento per la salute della persona, fornendo comunque ogni utile informazione e chiarimento per consentire la fruizione della prestazione» (art. 22, 2014).

E nello specifico per i casi di interruzione volontaria di gravidanza nell’art. 43: «L’obiezione di coscienza si esprime nell’ambito e nei limiti dell’ordinamento e non esime il medico dagli obblighi e dai doveri inerenti alla relazione di cura nei confronti della donna». Se si eliminasse la possibilità di obiettare in coscienza in sanità si andrebbe a snaturare la stessa professione medica che «garantisce autonomia e libertà decisionale al medico il quale in coscienza deve operare secondo i propri convincimenti etico-scientifici a tutela del bene del paziente attraverso il rispetto della vita e della dignità della persona umana così come garantito dall’art. 32 della nostra costituzione e dall’art. 22 del codice deontologico» (Stefano Ojetti, Medici: il diritto e il dovere di dire no, fiamc.org).

Il punto di appoggio si ritrova tuttavia sul piano giuridico: «il rispetto della vita costituisce il presidio del mutuo riconoscimento tra gli individui umani come uguali ( e quindi come ugualmente titolari degli altri diritti inviolabili), in quanto principio cardine dell’impianto costituzionale nonchè fondamento della democrazia» (Luciano Eusebi cit. in E- Larghero, Obiezione e clausola di coscienza in sanità, 2015).

Oltre all’obiezione di coscienza altri punti legati alla riforma sull’interruzione volontaria di gravidanza che sono stati proposti e annunciati dalla ministra spagnola che traghettano il Paese verso una “depenalizzazione” dell’aborto volontario, un traguardo per la stessa ministra. Oggi sembra che si vada radicalizzando un forte desiderio, che trova giustificazione nel principio di autodeterminazione, di fuggire dal riflettere sulla consapevolezza dell’atto di violenza che viene perpetrato nei confronti di una piccola vita indifesa al di là delle possibilità legalmente consentite. La nuova riforma non vorrebbe più lo spazio di riflessione dei tre giorni consentiti per poter ripensare e decidere sulla base del colloquio avuto, delle informazioni ricevute perché le donne «non necessitano di alcuna tutela da nessuno».

E potrebbe anche contemplare la proposta presentata al Congresso dei deputati a maggio sul divieto di presenza delle persone delle associazioni pro vita dinanzi alle strutture cliniche abortive che si mettono a disposizione per un ascolto prevendo sanzioni penali anche detentive, situazione a cui le associazioni hanno ricorso facendo una petizione. Le motivazioni sono diverse da donna a donna e ciascuna può invece avere il diritto di non essere sola dinanzi ad un evento così traumatico, a conoscere ogni possibile soluzione personale alternativa e ad essere aiutata, se lo desidera.

Un altro punto è che si vuole estendere il consenso all’aborto per le ragazze tra i 16 e il 17 anni senza più l’obbligo di permesso genitoriale o del tutore legale che è in vigore dal 2015, ritornando alla normativa del 2010 che invece lo comprendeva.

Rimarrebbe fermo invece il periodo legale della 14° settimana di gestazione in cui abortire ed entro la 22ma settimana nei casi gravi di rischio per la salute della madre o del feto e per malformazioni fetali e anomalie fetali incompatibili con la vita.

Per la Chiesa l’aborto procurato è considerato fra i delitti contro la vita. Nell’Evangelium Vitae (1995) Giovanni Paolo II afferma: «È vero che molte volte la scelta abortiva riveste per la madre carattere drammatico e doloroso, in quanto la decisione di disfarsi del frutto del concepimento non viene presa per ragioni puramente egoistiche e di comodo, ma perché si vorrebbero salvaguardare alcuni importanti beni, quali la propria salute o un livello dignitoso di vita per gli altri membri della famiglia. Talvolta si temono per il nascituro condizioni di esistenza tali da far pensare che per lui sarebbe meglio non nascere. Tuttavia, queste e altre simili ragioni, per quanto gravi e drammatiche, non possono mai giustificare la soppressione deliberata di un essere umano innocente (58)».

E alle donne che hanno ricorso all’aborto il Santo Padre Giovanni Paolo II si rivolge con parole di vicinanza, dicendo: «La Chiesa sa quanti condizionamenti possono aver influito sulla vostra decisione, e non dubita che in molti casi s’è trattato d’una decisione sofferta, forse drammatica. Probabilmente la ferita nel vostro animo non s’è ancor rimarginata. In realtà, quanto è avvenuto è stato e rimane profondamente ingiusto. Non lasciatevi prendere, però, dallo scoraggiamento e non abbandonate la speranza. Sappiate comprendere, piuttosto, ciò che si è verificato e interpretatelo nella sua verità. Se ancora non l’avete fatto, apritevi con umiltà e fiducia al pentimento: il Padre di ogni misericordia vi aspetta per offrirvi il suo perdono e la sua pace nel sacramento della Riconciliazione. Allo stesso Padre e alla sua misericordia potete affidare con speranza il vostro bambino. Aiutate dal consiglio e dalla vicinanza di persone amiche e competenti, potrete essere con la vostra sofferta testimonianza tra i più eloquenti difensori del diritto di tutti alla vita. Attraverso il vostro impegno per la vita, coronato eventualmente dalla nascita di nuove creature ed esercitato con l’accoglienza e l’attenzione verso chi è più bisognoso di vicinanza, sarete artefici di un nuovo modo di guardare alla vita dell’uomo (99, EV)».

In ambito ecclesiale si stanno realizzando specifici percorsi pastorali di perdono e riconciliazione che aiutano ad aprirsi alla speranza di un cammino di vita nuovo e alla consolazione e danno conforto aiutando a liberarsi dal bagaglio delle diverse sofferenze, consce e meno, che l’aborto porta con se. Negli Stati Uniti, ma anche diffuso in Italia oltre in diverse nazioni nel mondo, vi è un’esperienza “riabilitativa” il progetto Rachele in cui un gruppo di specialisti in discipline diverse, psicoterapeuti, sacerdoti, consulenti pastorali, psicologi, si prendono a carico della situazione post-abortiva delle persone che volontariamente desiderano partecipare, in coppia o da soli, per trovare una guarigione interiore e riconciliarsi con Dio da cui sono amate nonostante e anche a causa la loro debolezza, e ricostruire legami spezzati nella famiglia e nella comunità».

(Aggiornamento 16 luglio 2021, ore 14.27)
CCBYSA

redazione Bioetica News Torino