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70 Luglio Agosto 2020
Speciale Società e sanità: Tra la solitudine degli operatori sanitari e la solitudine dei malati

La solitudine del medico: luci e ombre

I nomi per invocare o maledire la solitudine

Come l’oasi sospirata nel cammino logorante del deserto, così la solitudine prende la qualità desiderabile di ritiro, di “un tempo per sé”. Neppure la solitudine invocata è priva di ambiguità: può essere una evasione, un ripiegamento su di sé, una condizione per un ego che si gonfia fino a bastare a se stesso. Si deve però insistere nel riconoscere che il tempo per sé è una risorsa necessaria per persone che hanno responsabilità professionali sulle persone e sulle istituzioni: hanno bisogno di tempo per l’aggiornamento, per la riflessione in vista delle scelte da compiere, per recuperare lucidità e calma per essere nelle condizioni di esercitare la pazienza nelle relazioni, l’ascolto attento negli incontri, la proporzione nelle reazioni.

Come lo smarrimento nel percorso selvaggio e minaccioso, così la solitudine assume i tratti della condizione mortificante, frustrante, inquietante. È la solitudine dell’abbandono, della incomunicabilità, della emarginazione. In questa esperienza si rivela la sapienza della parola biblica che rivela la volontà di Dio creatore: «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda (Gen 2,18).

Terapie per la solitudine malata dei medici

La solitudine del medico di fronte al malato

Quando il malato assume l’atteggiamento del cliente, invece che del paziente, il medico è messo all’angolo, assediato da pretese e presunzioni, persino minacciato da una aggressività violenta o da un risentimento vendicativo che cerca le vie legali del risarcimento. 

La via per trasformare il malato − cliente nel malato − paziente può essere quella di farne un alleato. Non è una via facile né rapida: si richiede la pazienza tenace, la competenza comprovata, una retorica che sa argomentare e interpretare gli stati d’animo, attrarre l’attenzione e arginare lo sfogo.

La solitudine del medico nella lotta contro la malattia

Il nemico da vincere si presenta con tratti talora imprevedibili, sconcertanti: infatti non esiste la malattia da manuale, ma la persona malata irripetibile nella sua singolarità. Abitualmente il singolo caso rientra in tipologie conosciute, sempre da personalizzare, ma ben accompagnate da protocolli sperimentati. Non di rado però la malattia si presenta come il nemico invincibile o un pericolo estremo. Il medico curante, in particolare lo specialista che si fa carico della persona, avverte di essere l’appiglio al quale il malato e la sua famiglia si aggrappa come l’unica, l’ultima speranza.

La solitudine del medico può trovare un sollievo palliativo nella parcellizzazione degli interventi, nella delega alla tecnologia più sofisticata. Forse la via più saggia per uscire da questa solitudine nella lotta è quella di condividere la interpretazione della fragilità strutturale con il realismo di chi assicura che non verrà meno il prendersi cura neppure quando verrà meno la cura.
Medico e malato non stanno tra loro come il salvatore e chi chiede salvezza, ma sono dalla stessa parte, hanno lo stesso nemico e combattono insieme la battaglia.

La solitudine del medico di fronte alla decisione “sulla vita”, sulla dignità, la proporzionalità delle cure, la ricerca e le sue metodiche

Il dibattito è troppo animoso e quindi la parola e la riflessione possono sembrare un mettere sale sulle ferite piuttosto che un contributo alla serenità. Il medico non può, talora, sottrarsi a decidere della vita dei malati, che si tratti di malattie inguaribili, di situazioni irreversibili, di effetti disastrosi di traumi violenti. La disapprovazione dell’accanimento terapeutico e della eutanasia definisce confini che possono essere rassicuranti in teoria ma che non sottraggono il medico alla responsabilità della decisione.
Più in generale si potrebbe parlare di una “solitudine etica” quando si avverte il dovere di testimoniare una visione dell’uomo e dei valori che ne presidiano la dignità, la vocazione alla solidarietà e la vita.

In questi momenti si avverte spesso una forma di isolamento sia nell’ambiente professionale, sia nell’ambiente ecclesiale dal quale ci si aspetterebbe un sostegno. Sembra diffuso un certo imbarazzo nel qualificarsi e rivelarsi come “medico cattolico”.
Il dovere di giungere a una certezza morale diventa più lieve non tanto per il riferimento a protocolli, quanto per cammini condivisi entro équipe di collaboratori, per una abitudine alla riflessione, per un incremento di sapienza e competenza che il tempo può propiziare.

La solitudine del medico nella vita familiare e sociale

I ritmi di lavoro, l’impegno per l’aggiornamento e la specializzazione, l’intensità dell’impegno che la professione richiede espongono il medico al rischio di essere prosciugato e perciò di sentirsi inaridito di fronte alle attese della famiglia e del contesto sociale. Per vincere questa solitudine è consigliabile l’antica saggezza che distingue tra qualità e quantità del tempo, che suggerisce una disciplina e una vigilanza per evitare l’idolatria, che chiede aiuto, consiglio, collaborazione alla famiglia e alla comunità per mettere ordine tra le priorità e adeguare la gerarchia dei valori alle diverse età della vita.

L’espressione “fare il medico è una vocazione” chiede di essere criticamente valutata per conservare alla professione quella carica “spirituale” che è benedetta e però per distinguere le situazioni personali tra chi ha impegni nella scelta di formare una famiglia, di consacrarsi in un istituto, di essere single.

La solitudine del medico di fronte all’istituzione

Il rapporto con le istituzioni può essere complicato in una società complessa, fino ad essere conflittuale.
Il singolo medico può avvertire la solitudine di non essere riconosciuto nei suoi diritti, di non essere incoraggiato a mettere a frutto le sue capacità, di non essere difeso da ingiuste accuse, di non essere protetto da aggressioni ingiustificate.
L’ovvio sostegno della solidarietà tra colleghi e collaboratori e della associazione nelle organizzazioni sindacali può sempre correre il rischio di essere un principio retorico se non è frutto di una coltivazione di rapporti che crea rapporti costruttivi e li custodisce e nei confronti dell’istituzione preferisce tavoli di concertazione e dialogo piuttosto che l’aspra conflittualità.

Testo trascritto con il consenso alla pubblicazione ma non rivisto dall’Autore

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