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Chiusura degli Opg? È solo l’inizio delle dismissioni

16 Marzo 2015

Dopo due rinvii nel 2013 e nel 2014, si avvicina il 31 marzo 2015, data fissata dalla legge 81/2014 per la chiusura dei sei ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) italiani: Castiglione delle Stiviere, Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino, Secondigliano e Aversa in Campania, Barcellona e Pozzo di Gotto in Sicilia. Dei circa 700 pazienti ricoverati, la metà sono ritenuti “dimissibili”, qualche decina “da valutare”, i restanti, “non dimissibili”. Questi ultimi verranno accolti nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), con l’obbligo per le Asl di loro presa in carico all’interno di progetti terapeutico-riabilitativi individuali che assicurino il diritto alle cure e al reinserimento sociale. Sono 173 i milioni di euro stanziati per l’operazione, ma ancora poche le nuove strutture pronte. In alcune Regioni saranno operative delle Rems provvisorie in attesa di quelle definitive.

Tavolo nazionale. Un fenomeno, quello delle patologie psichiatriche, in continuo aumento – l’Oms parla di un miliardo di persone in condizione più o meno grave – e al quale la Chiesa italiana dedica da tempo attenzione. “Negli attuali Opg – spiega al Sir don Carmine Arice, direttore Ufficio pastorale della salute della Cei – non è riscontrabile una presa in carico adeguata dei pazienti, ma la soluzione a questo problema non può essere superficiale”. “Qualche struttura è già pronta, tuttavia il 31 marzo non segnerà probabilmente la chiusura di tutti gli Opg, bensì l’inizio del processo di dismissione”. Il sacerdote si chiede se “siamo disponibili, sia come comunità civile che ecclesiale, ad accogliere e accompagnare queste persone”, e annuncia che è in corso la costituzione di “un tavolo nazionale di esperti nel mondo della psichiatria e operatori sanitari e pastorali che lavorano sul campo”. Una sorta di “osservatorio con funzioni di monitoraggio e, qualora necessario, di denuncia”.

In Emilia due strutture provvisorie. “Se l’ospedale giudiziario fosse riabilitativo dal punto di vista psichiatrico non ci sarebbe motivo di chiuderlo”, ci spiega don Daniele Simonazzi, da 24 anni cappellano dell’Opg di Reggio Emilia che oggi accoglie 137 persone e “non chiuderà, perché tiene in osservazione psichiatrica anche soggetti provenienti da altre carceri, minorati o persone per le quali viene dichiarata la malattia mentale sviluppata durante la detenzione”. Per gli internati per i quali permane la pericolosità sociale, l’Emilia Romagna ha approntato due strutture provvisorie a Parma e a Bologna, in ognuna delle quali confluirà una decina di “cittadini” della regione, una ventina in tutto, provenienti dall’Opg di Reggio. Intanto nel capoluogo “è stato approvato il bilancio e sono da assegnare i lavori per la costruzione della struttura d’accoglienza definitiva. Gli ‘ospiti’ veneti rimarranno invece tutti qui, in attesa che si rendano disponibili strutture d’accoglienza nella loro regione”.

Chiesa di Francesco. Don Simonazzi mette in guardia da due eccessi ideologici opposti ma ugualmente pericolosi: “chiudiamo i cancelli e buttiamo le chiavi” o “integriamoli a tutti i costi”. “La questione è seria e occorre conoscere situazioni e persone, cosa di fatto finora mai avvenuta. Oggi – incalza – gli Opg sono carceri, il trattamento delle persone è inumano”. “Se io fossi al loro posto vorrei essere trattato così? Se avessi un familiare lì, sarei tranquillo? Potrei vantarmi con i familiari di come teniamo i loro congiunti? Sarei disposto a usare i loro servizi igienici? Non ho ancora trovato nessuno – dice senza giri di parole – che risponda affermativamente”. E ancora: “Siamo noi la vera chiesa di Francesco. Una chiesa che può vantare l’unico carisma necessario, quello della croce, che soffre, prega e crede nella Parola, una chiesa di poveri che vive l’accoglienza stringendosi all’inverosimile nello spazio angusto della cella, una chiesa che si fa carico delle sofferenze che ha procurato ad altri, ricca di carisma profetico”.

Quale riconciliazione?  Pur invitando alla cautela nei giudizi perché “occorre dare tempo anche alle Rems per organizzarsi e fare fronte a questa novità”, don Simonazzi sottolinea una grave carenza: “Nella maggioranza di queste strutture non è prevista la figura del cappellano e purtroppo i parroci e i preti in generale hanno sempre tanti impegni”. Il sacerdote si propone di avvertire i responsabili delle parrocchie dove hanno sede le due strutture per avvertirli dell’imminente arrivo di “questi nuovi fratelli, molti dei quali proclamano la parola e hanno ricevuto i sacramenti dell’iniziazione”. “In questa vicenda – aggiunge – sono state dimenticate le vittime, coloro che hanno subito violenza”. Di qui l’interrogativo: per chi ritorna nel proprio territorio d’origine, “la comunità cristiana è pronta, pur senza minimizzare la gravità degli atti compiuti, a mettere in campo un cammino di riconciliazione?”.

Giovanna Pasqualin Traversa

fonte: Sir

 

Lara RealeGiornalista ScientificaRedazione Web Arcidiocesi di Torino