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Cosa davvero dice la Chiesa sul fine vita

05 Febbraio 2018
Papa Pio XII: «…moralmente permessa in fase terminale la soppressione della coscienza per evitare al malato dolori insopportabili»

I media presentano spesso il fine vita con una notevole imprecisione terminologica. Altrettanto sovente il pensiero della Chiesa su queste delicate questioni è ampiamente travisato. Ne è prova quanto il giornalista Gian Piero Amandola ha sostenuto a conclusione di un servizio mandato in onda dal TG Piemonte delle 19.30 lo scorso 20 gennaio 2018. Egli ha dichiarato che  «sulla sedazione palliativa profonda, prevista dalla legge, c’è l’opposizione cattolica che la ritiene troppo simile all’eutanasia che non viene accettata». Questa affermazione non risponde al vero. Già Papa Pio XII, in un discorso tenuto ai medici rianimatori il 24 febbraio 1597, affermò che è moralmente permessa in fase terminale la soppressione della coscienza per evitare al malato dolori insopportabili.

Con lo scopo di far chiarezza su questo argomento così delicato, riprendo alcune parole chiave riguardanti il fine vita e indico il vero significato ad esse attribuito dai documenti ecclesiali.

NCOS: Tutelare la dignità del morire significa rispettare il malato nella fase finale della vita, escludendo sia di anticipare la morte (eutanasia), sia di dilazionarla “accanimento terapeutico”

La Nuova carta degli operatori sanitari (NCOS), pubblicata dal Pontificio Consiglio per gli operatori sanitari nel 2016 con lo scopo di «offrire linee-guida il più possibile chiare per i problemi etici che si devono affrontare nel mondo della salute in armonia con gli insegnamenti di Cristo e con il Magistero della Chiesa» (dalla Prefazione), ribadisce che «in fase terminale la dignità della persona si precisa come diritto a morire nella maggiore  serenità possibile ⌈…⌉. Tutelare la dignità del morire significa rispettare il malato nella fase finale della vita, escludendo sia di anticipare la morte (eutanasia), sia di dilazionarla “accanimento terapeutico”» (NCOS, 149).

Eutanasia e accanimento terapeutico

Riprendendo l’enciclica Evangelium vitae al paragrafo 65, si precisa che l’eutanasia è «un’azione o un’omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore». Essa è «un atto omicida, che nessun fine può legittimare». Nota anche che l’«ammalato che si sente circondato da presenza amorevole umana e cristiana, non cade nella depressione e nell’angoscia di chi, invece, si sente abbandonato al suo destino di sofferenza e di morte, e chiede di porvi fine. È per questo che l’eutanasia è una sconfitta di chi la teorizza, la decide e la pratica» (NCOS, 170).
L’accadimento terapeutico è invece caratterizzato da «interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato, perché ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e per la sua famiglia (Evangelium vitae, 65).

Il principio di proporzionalità delle cure

Per evitare sia l’eutanasia, sia l’accanimento, la Chiesa ritiene necessario applicare il principio di proporzionalità delle cure che rende lecita nell’imminenza della morte «la decisione di rinunciare a trattamenti che procurano soltanto un prolungamento precario e penoso della vita». Infatti, «si dà certamente l’obbligo morale di curarsi e di farsi curare, ma tale obbligo deve misurarsi con le situazioni concrete; occorre cioè valutare se i mezzi terapeutici a disposizione siano oggettivamente proporzionati rispetto alle prospettive di miglioramento. La rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all’eutanasia; esprime piuttosto l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte» (Evangelium vitae, 65).

Papa Francesco, nel messaggio rivolto ai partecipanti al meeting regionale europeo World Medical Association sulle questioni di fine vita, tenutosi a Roma il 16-17 novembre 2017, ha osservato che «per stabilire se un intervento medico clinicamente appropriato sia effettivamente proporzionato non è sufficiente applicare in modo meccanico una regola generale. Occorre un attento discernimento, che consideri l’oggetto morale, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti. La dimensione personale e relazionale della vita – e del morire stesso, che è pur sempre un momento estremo del vivere – deve avere, nella cura e nell’accompagnamento del malato, uno spazio adeguato alla dignità dell’essere umano». Come ricorda ancora la Nuova carta degli operatori sanitari, tale accompagnamento suppone la somministrazione di «tutte le cure che gli consentono di alleviare la penosità del processo del morire. Queste corrispondono alle cosiddette cure palliative, che con una risposta assistenziali ai bisogni fisici, psicologici, spirituali tendono a realizzare una presenza amorevole intorno al morente e ai suoi familiari» (NCOS, 147). Il medesimo documento appoggia anche la possibilità di stendere dichiarazioni anticipate di trattamento con le quali, «escludendo ogni atto di natura eutanasica, il paziente può esprimere in anticipo la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidererebbe o no essere sottoposto nel caso in cui, nel decorso della sua malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse più in grado di esprimere il proprio consenso o dissenso» (NCOS, 150).

Fatte queste brevi precisazioni, mi auguro che il dibattito serrato che si sta conducendo sul fine vita non sia portato avanti attraverso slogan gridati da chi si serve di luoghi comuni per contrastare la parte avversa, ma sia condotto con un dialogo sereno e onesto, impegnato a conoscere e comprendere le autentiche motivazioni di chi sta di fronte.

Tratto da: Giuseppe Zeppegno, Cosa davvero dice la Chiesa sul fine vita, «La Voce e il Tempo»,  28 gennaio 2018, pp.1; 31

Giuseppe ZeppegnoDottore di Ricerca in Morale e Bioetica; docente di Bioetica presso la Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale - sezione parallela di Torino