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Embrioni «scartati», un gelido destino La nuova sentenza della Consulta sulla legge 40

12 Novembre 2015

La sentenza n. 229 della Corte costituzionale, depositata ieri, ha di nuovo per oggetto la legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita. Questa volta a finire sotto la lente della Consulta è stato l’art. 13, laddove esso vieta, al comma 3.b, «ogni forma di selezione a scopo eugenetico degli embrioni», e, dunque, anche quella per evitare il trasferimento in utero di embrioni affetti da anomalie genetiche e lo sviluppo di figli affetti da patologie a esse correlate. Il tribunale di Napoli, nel sollevare il quesito di legittimità della sanzionabilità penale della «condotta dell’operatore medico volta a consentire il trasferimento nell’utero della donna dei soli embrioni sani o portatori sani di malattie genetiche» aveva fatto riferimento non solo all’art. 13.3.b (divieto di selezione), ma anche al primo comma dell’art. 14 che vieta «la crioconservazione e la soppressione di embrioni». La ragione (correttissima) di questo accostamento è legata alla realtà del laboratorio clinico di fecondazione in vitro: contrariamente a quanto spesso fatto intendere nei dibattiti pubblici e attraverso i mass media, l’identificazione e la selezione degli embrioni “sani” e di quelli “malati” implica – allo stato attuale delle possibilità di intervento terapeutico sull’embrione prima dell’impianto (praticamente inesistenti) – che quelli “malati”, non trasferiti in utero, siano immediatamente distrutti o consegnati alla ricerca sperimentale (con conseguente successiva distruzione), oppure conservati in azoto liquido senza ragionevoli aspettative di ulteriore sviluppo (e, dunque, destinati a perdere progressivamente la loro vitalità con il passare degli anni). Attualmente, di fatto – ancor prima che di principio e di norma – la questione della selezione degli embrioni destinati all’impianto endometriale non è separabile da quella del loro destino (di sviluppo o di morte) e, dunque, da quella della loro soggettività e dignità umana e della conseguente tutela giuridica.

Qualunque strada si intenda imboccare per sciogliere l’intricato nodo del rapporto clinico, etico e giuridico tra Pma, salute del nascituro concepito in vitro, e determinazione della madre in ordine alla gravidanza attesa, essa deve confrontarsi con il nesso obiettivo tra selezione embrionale e diritti del concepito, riconosciuti e assicurati dal primo articolo della legge 40 al pari di quelli di «tutti i soggetti coinvolti» nella Pma. Un articolo mai messo in discussione a Palazzo della Consulta.

Nella risposta ai giudici partenopei – da leggersi in continuità con la recente sentenza n. 96/2015 della stessa Corte costituzionale ed entro i limiti da essa posti, che estende il ricorso alla Pma anche (e solo) «alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità» della patologia previsti dalla legge 194 sull’aborto volontario (art. 6.1.b) – la Consulta ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 13 laddove esso proibisce e sanziona la selezione eugenetica degli embrioni in relazione a malattie ereditarie che possono essere trasmesse dai genitori ai figli, ma ha contemporaneamente respinto l’ipotesi di incostituzionalità per quanto concerne i commi 1 e 6 dell’art. 14.

In prima considerazione, questa decisione sembra prospettare una situazione non realistica, impraticabile: l’art. 14, infatti, vieta sia la soppressione che la crioconservazione degli embrioni. Quale, dunque, il destino di quelli non selezionati per il trasferimento in utero in quanto presentano anomalie genetiche? La sentenza, in riferimento a un’altra della Consulta sulla medesima legge 40, la n. 151/2009, che ha di fatto aperto la strada alla crioconservazione non solo temporanea (cause transitorie di forza maggiore) degli embrioni residuali rispetto al trasferimento in utero, prospetta anche per quelli “malati” la medesima sorte. Non possiamo però non chiederci come il pur apprezzabile riconoscimento all’embrione umano di un «grado di soggettività correlato alla genesi della vita» che non lo rende «certamente riducibile a mero materiale biologico», presente nel testo della sentenza, sia coerente con l’autorizzazione di una procedura – la crioconservazione senza ragionevole prospettiva di ripresa dello sviluppo – che interrompe proprio la «genesi della vita» di un individuo umano. Uno di noi, anche se “scartato”. 

Roberto Colombo
Fonte: «Avvenire»

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 Le reazioni: «Così si apre all’eugenetica»

Le reazioni alla decisione della Corte, numerose e declinate negli opposti segni della condanna e del plauso, non si sono fatte attendere.
Per Paola Ricci Sindoni, presidente dell’Associazione Scienza & Vita, «una volta stabilito per sentenza che è possibile selezionare gli esseri umani» saranno inevitabili «storture» che porteranno alla «massima discriminazione verso i disabili». Duro anche Gian Luigi Gigli, presidente del Movimento per la Vita Italiano e parlamentare (PI-CD): «Con la sentenza la “cultura dello scarto” compie un altro passo in avanti, inserendo definitivamente i principi dell’eugenetica nell’ordinamento italiano».
Paola Binetti (Ap) ricorda che «decidere per sentenza che una persona probabilmente malata può essere scartata, contraddice l’articolo 2 della Costituzione: si fa tanto per parlare di non discriminazione e poi qui si discrimina chi è considerato meno adatto». Anche Eugenia Roccella (Ap) parla di «sconcerto per una sentenza che apre all’eugenetica», in un contesto per cui «il disabile ha un diritto affievolito a nascere», ma evidenza il permanere del divieto di soppressione degli embrioni.

Sottolinea invece la «necessità di una legge che individui gli appositi istituti pubblici competenti a certificare le patologie trasmissibili» il presidente della Commissione lavoro del Senato, Maurizio Sacconi. E Olimpia Tarzia presidente del Movimento Per, denuncia la «palese violazione dei diritti umani» nello stabilire una «distinzione tra esseri umani di serie A e di serie B».

Sul fronte opposto si registra l’esultanza di Filomena Gallo, segretario dell’Associazione Luca Coscioni: «Ora il ministro Lorenzin garantisca l’applicazione della sentenza nelle strutture pubbliche».
Una posizione simile è espressa da Cittadinanzattiva che chiede un «accesso effettivo» alle tecniche di Procreazione medicalmente assistita nell’ambito del Servizio sanitario nazionale.
Emilia Grazia De Biasi (Pd), presidente della Commissione Sanità del Senato, parla di «un altro colpo alla crudeltà della Legge 40» augurandosi la pronta ripartenza del «percorso di revisione della Legge». Un’opinione condivisa anche da Laura Puppato sempre del Pd. Anche la senatrice a vita Elena Cattaneo parla di «opera meritoria e costituzionalmente necessaria, della Corte costituzionale nella demolizione della legge 40». Infine Fabrizio Cicchito (Ndc) valuta «positivamente» la decisione della Consulta.

Emanuela Vinai
Fonte: «Avvenire»

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Approfondimenti:

– La sentenza n. 229/2015 in Legge 40. Sentenza della Corte Costituzionale. Illegittimo l’articolo che vieta la selezione di embrioni affetti da malattie genetiche, «Quotidianosanità.it», 11.12.2015 <http://www.quotidianosanita.it/governo-e-parlamento/articolo.php?articolo_id=33298> (sentenza scaricabile da: http://www.quotidianosanita.it/allegati/allegato7906065.pdf

–  Pietro Vernizzi, Intervista ad Alberto Gambino. Sentenza fecondazione. Si avvera il sogno di chi vuole il figlio “perfetto”?, «Sussidiario.net», 12.11.2015:

La Corte ha stabilito che non è reato selezionare gli embrioni nei casi in cui la pratica sia finalizzata ad evitare l’impianto di quelli affetti da gravi malattie trasmissibili. La sentenza 229/2015, depositata mercoledì, è stata redatta dal giudice Rosario Morelli. La questione di costituzionalità era stata sollevata dal tribunale di Napoli, dopo che un gruppo di medici erano stati rinviati a giudizio con l’accusa di effettuare selezione genetica e sopprimere gli embrioni affetti da patologie. Ne abbiamo parlato con Alberto Gambino, professore di Diritto privato e direttore del Dipartimento di Scienze Umane dell’Università Europea di Roma.

Professore, la stupisce questa sentenza della Corte costituzionale?
Francamente no. È una sentenza che si colloca nel percorso di orientamenti su cui, ormai da alcuni anni, la Corte costituzionale si è attestata. Non è una sentenza sorprendente, perché già le precedenti decisioni della Corte costituzionale andavano in questa direzione. Mi riferisco a quella che eliminava il limite dei tre embrioni e a quella più recente che ha detto sì alla fecondazione eterologa.

Qual era la logica di queste sentenze?
In entrambi i casi c’era sullo sfondo un ridimensionamento dell’interesse giuridico dell’embrione e del nascituro, tanto che si metteva in conto che alcuni embrioni sarebbero stati distrutti o comunque crioconservati. Il diritto alla salute psicofisica della madre prevale sul diritto alla vita del feto, proprio come nella legge 194. Di fronte ad alcuni embrioni che possono avere delle patologie, li si eliminano in quanto possono provocare un danno psichico alla donna. Anche ne caso dell’eterologa, il diritto del bambino ad una doppia figura genitoriale naturale, retrocede davanti al benessere di una coppia che per avere figli ha bisogno di un terzo soggetto, dando così al bambino tre riferimenti genitoriali, di cui uno sicuramente non biologico.

In fondo, perché proibire con la legge 40 quello che si consente con la legge 194?
In linea di principio, quella tra l’embrione prodotto in provetta e l’interruzione di gravidanza con la legge 194 non è un’assimilazione corretta. Con la legge 194 ci troviamo di fronte a una gravidanza già in essere nel corpo di una donna, e che a un certo punto diventa indesiderata perché può comportare alcuni pericoli anche psichici. E la compenetrazione di una vita all’interno del corpo di un’altra vita rende le cose estremamente complesse. Nel caso dell’embrione prodotto in provetta, siamo invece di fronte a un atto di volontà che attraverso uno strumento artificiale porta alla creazione di vita umana, che tuttavia nella fase della diagnosi rimane autonoma, al di fuori dell’utero della madre, in provetta appunto.La coppia in un primo momento vuole il figlio, tanto da produrlo in provetta, ma poi non lo vuole più se non presenta tutte le caratteristiche fisicamente ineccepibili. La genesi e soprattutto la dinamica di queste due situazioni sono dunque del tutto diverse. Quando la vita umana discende da una dichiarazione di volontà che attiva una tecnica artificiale, l’embrione, creato in provetta, ha una vita propria, autonoma e distinta da quella dei suoi genitori.

Secondo lei si può dire con certezza se un embrione nato in provetta porterà alla nascita di un bambino malformato?

Ragionevolmente direi di no, in quanto quando l’embrione è molto piccolo ed è difficilissimo distinguere quale sarà lo sviluppo reale di una pur minima imperfezione. Se si apre all’idea che qualsiasi imperfezione può consentire di eliminare un embrione a favore dell’altro embrione sano che è stato prodotto, temo che – oltre a sancire la morte di un essere umano senza neanche la giustificazione di una sua “dipendenza” dal corpo di un altro essere – ci troviamo all’inizio della possibilità di selezionare embrioni sempre più perfetti. A questo punto la distinzione tra sano e non sano è davvero molto sfumata.

Questa è l’ennesima sentenza della Consulta che smantella la legge 40. Vuol dire che quest’ultima è stata scritta male?
La legge 40 è nata per cercare di porre un rimedio ad un mercato della riproduzione in provetta senza regole. Il limite delle norme poi introdotte rimane quello di consentire che la vita umana possa essere creata fuori dall’utero della donna, cioè in una provetta. Una volta che si consente questo, l’essere umano nato in provetta assomiglia sempre di più a una cosa e sempre di meno a una persona. La Corte costituzionale ha preso atto di questo affievolimento dei diritti dell’embrione sempre più funzionale a un interesse della coppia, quello di avere un figlio e ora di avere un figlio sano.

Può spiegare meglio qual è il limite della legge 40?
La legge 40, nel momento in cui creava la possibilità di produrre tre embrioni in provetta, metteva in conto che qualcuno di questi potesse non proseguire il suo sviluppo e, dunque, la sua esistenza. La legge era imperfetta, anche se in quel momento storico non si poteva fare diversamente. Davanti a una situazione di totale assenza di regole, la legge ha cercato di porre rimedio. Ha posto dei rimedi che oggi sono ritenuti incoerenti dalla Consulta in quanto contrastanti con il dato – per la Corte già presente nella stessa legge 40 – che l’embrione non ha una tutela assoluta come se fosse una persona. E quindi nel bilanciamento tra la salute psichica della coppia e la vita dell’embrione, si fa prevalere la prima, come del resto accade nella legge 194. Potremmo dire in definitiva che queste decisioni della Corte costituzionale hanno all’apparenza una loro coerenza intrinseca, eppure  discendono tutte da un assioma normativo che occorrerebbe rimettere in discussione e cioè che l’embrione abbia davvero meno diritti di un essere già nato. E se nel caso della legge sull’interruzione della gravidanza, i diritti affievoliti del feto sono in qualche modo collegati ad un dato di fatto e cioè che la vita del feto dipende concretamente da chi lo porta in grembo, nel caso dell’embrione così non è, perché – come detto – una volta in provetta l’embrione non dipende fisiologicamente dal corpo di una donna e, dunque, potrebbe proseguire la sua esistenza nel grembo di qualcun altro che lo volesse accogliere. Anche per questo l’eliminazione degli embrioni imperfetti non è coerente e finisce per ridurli ad oggetti, la cui decisione esistenziale dipende arbitrariamente e senza una reale giustificazione da chi li ha procreati, se non appunto quella di considerare tali embrioni “di proprietà” dei titolari dei gameti che vi hanno dato vita.

 

 

Redazione Bioetica News Torino