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Fine vita. Il parere del Comitato nazionale di Bioetica su suicidio medicalmente assistito

06 Agosto 2019

Il Comitato Nazionale di Bioetica ha voluto portare un contributo alla riflessione sul tema dell’aiuto al suicidio assistito per facilitare la discussione pubblica e politica che riguarda un aspetto così rilevante del fine vita che sarà oggetto di pronunciamento da parte della Corte Costituzionale il 24 settembre prossimo se dal Parlamento non giungerà alcun chiarimento legislativo.

La  questione della legittimità costituzionale del reato penale di aiuto al suicidio citato nell’art. 580 è stata sollevata dalla Corte di Assise di Milano per il ruolo che Marco Cappato ha avuto nella vicenda di Fabiano Antoniani, detto dj Fabo, quando era in  irreversibile e gravissima disabilità,  nell’accompagnarlo in auto dall’Italia alla Svizzera dove in una clinica  si sarebbe  procurato la morte con un farmaco letale, assecondando la sua volontà. La Corte Costituzionale ha risposto nell’ordinanza  207/2018 rinviando la  discussione a settembre per dare al Parlamento il tempo di poter legiferare in materia. Pur ritenendo la  legittimità costituzionale dell’articolo per la sua funzione di tutela della vita, soprattutto per proteggere le persone più deboli e vulnerabili, richiamando il dovere dello Stato di proteggere ogni individuo sancito nell’art. 2 della Costituzione e il riconoscimento etico del diritto alla vita nell’art. 2 della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la Corte ha voluto far presente che  l’evolversi della medicina e della tecnoscienza ha portato a situazioni nuove nel salvare la vita dalla morte «pazienti in condizioni gravemente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali» e  sottolineare l’assenza di una normativa sul fine vita che  tuteli in modo adeguato determinate situazioni meritevoli di protezione e rispetto, in cui il valore della tutela della vita umana sia  bilanciato con altri beni costituzionalmente rilevanti, considerando alcune condizioni in cui il suicidio medicalmente assistito possa avere una giustificazione.

La Corte riporta situazioni di assistenza di aiuto al suicidio da parte di terzi quando una persona sia (a)  affetta da una patologia irreversibile e (b)  fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli.

Il documento redatto dal Comitato Nazionale di Bioetica, intitolato Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito, è stato approvato il 18 luglio scorso con la maggioranza dei consensi e con  tre postille, una del prof. Francesco D’Agostino, contrario, e le altre due dei proff.ri Assunta Morresi e  Maurizio Mori che pur nell’accogliere il testo hanno ritenuto  esprimere dissensi su alcuni temi trattati. Pubblicato il 30 luglio, con tale testo il Comitato, a fronte dell’ordinanza della Corte Costituzionale citata,  si propone di presentare un inquadramento generale della problematica dal punto di vista etico e giuridico, con le diverse e divergenti opinioni emergenti dal Comitato stesso, al fine di offrire sull’argomento un contributo il più possibile utile per un dibattito pubblico e per le decisioni politiche nel rispetto della pluralità delle opinioni e in considerazione delle implicazioni morali, deontologiche e giuridiche costituzionali che le scelte suscitano.

Ciò che rende controverso e complesso il dibattito è la  difficoltà nel poter conciliare i due principi, rilevanti bioeticamente, la salvaguardia della vita da un lato e  l’autodeterminazione dall’altro, o poter assegnare la priorità all’uno piuttosto che all’altro.

Nel documento sono presi  in esame quattro temi etici riguardo al suicidio medicalmente assistito: la differenza tra assistenza medica al suicidio ed eutanasia, l’espressione di volontà della persona, i valori professionali del medico e degli operatori sanitari, l’argomento del pendio scivoloso, le cure palliative.

La Costituzione italiana non prevede una disciplina specifica delle pratiche eutanasia (dare la morte anticipandola su richiesta del richiedente) e suicidio assistito (darsi la morte con la collaborazione di un terzo)  inquadrabili  come omicidi contro la vita rispettivamente del consenziente (art. 579) e volontario comune (art. 580) del c.p.  Il Comitato Nazionale di Bioetica (CNB) fa notare che la Corte giustifica, in determinate condizioni,  il suicidio medicalmente assistito, associandolo al diniego ai trattamenti sanitari consentiti dalla legge 209/2017 sulle disposizioni anticipate di trattamento.  L’articolo 580 potrebbe essere integrato da una norma apposita che regolamenti circostanze precise. Il fatto però che la Corte ipotizzi la possibilità di disciplinare la materia all’interno della legge 209/2017  non è condiviso dal CNB: la sospensione o il rifiuto dei trattamenti terapeutici perché la malattia faccia il proprio corso è una situazione sul piano etico e giuridico differente dal chiedere ad un terzo, un medico, un intervento mirato all’aiuto nel suicidio, in quanto «l’una ammessa in forza dell’art. 32 della Costituzione e della legge 219/2017; l’altra vietata sulla scorta del principio “non uccidere”, posto a fondamente del vivere sociale le cui eventuali eccezioni non possono essere invocate per analogia ma in merito alla loro possibile liceità, essere semmai oggetto di una decisione specifica da parte della Corte Costituzionale o del legislatore».

Elemento imprescindibile è la volontà del paziente che deve essere consapevole, libera e informata. Vi sono diverse  correnti di pensiero.  Per alcune l’autodeterminazione è condizione necessaria e sufficiente per legittimare ogni atto medico e il consenso informato ne è un’espressione dell’autonomia: il paziente ha il controllo sulla propria vita e morte.  Per altre incide il rispetto della libertà personale sulla base di principi etici e costituzionali. O ancora il consenso informato non può legittimare che si disponga della propria vita eccetto che si considerino i valori più alti, come quello del sacrificio di sé per salvare vite altrui, e infine coloro che considerano la illiceità del suicidio assistito perché le condizioni esistenziali di grave malattia e sofferenza rendono i soggetti particolarmente vulnerabili con il rischio che prossimi alla fine  prendano decisioni mosse più da confusione o depressione (per paura della sofferenza, angosciate da problemi economici o familiari ad esempio) aprendo così spazi di abbandono dei soggetti detti “marginali”.

Per quanto concerne i principi professionali del medico e del personale sanitario vi sono diverse posizioni che possono in generale essere ricondotte in due prospettive contrastanti. Una, storicamente più diffusa, esclude l’assistenza al suicidio assistito in base all’etica e alla  deontologia della professione che pone al centro la tutela della vita, la cura e il prendersi cura del paziente e che consente il mantenimento della relazione di fiducia più saldo e solido. L’aiuto al morire che consiste nel dare  direttamente la morte stravolgerebbe il senso della professione stessa,  che in situazioni di fine vita è rivolto invece all’aiuto nel morire, ovvero accompagnamento nel morire attraverso le cure palliative e la terapia del dolore. Tale prospettiva è sostenuta dalla World Medical Association  sul suicidio assistito (2017), riaffermata negli artt. 3 e 17 del Codice di deontologia medica (2014), nel recente testo della Consulta Deontologica Nazionale della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri  (marzo 2019) che considera anche che i valori professionali «vanno vissuti in un’epoca di evoluzione travolgente della scienza e della tecnologia medica e influiscono nel processo del morire, modificandolo». Trova fondamento nell’art. 8 del Codice deontologico dei Farmacisti, e nel loro giuramento, nonché nel neo Codice degli Infermieri (2019) che prestano assistenza infermieristica fino al termine della vita della persona assistita, riconoscendo l’importanza del gesto assistenziale, della pianificazione condivisa delle cure, della palliazione, del conforto ambientale, fisico, psicologico, relazionale e spirituale.

Si contrappone l’altra prospettiva, più recente e meno diffusa, a sostegno dell’aiuto al morire, alla luce non solo delle condizioni di morte che sono cambiate rispetto al passato ma anche del principio di autodeterminazione, che viene privilegiato come nella proposta  alternativa nei  codici deontologici dell’Olanda, del Belgio e del Canada. In alcuni casi la scelta sarebbe motivata dal processo del morire che si è prolungato con gli  interventi medici acuendo sofferenze ed angosce, dinanzi al quale alle richieste di cure palliative vi sono anche quelle del morire che fanno appello al dovere del medico di primum non nocere, non causare nocumento e di diminuire il dolore. In altre situazioni la richiesta nasce dalla decisione del paziente di conservare la propria dignità intravedendo nell’evolversi della malattia la sua compromissione.
Se l’aiuto al suicidio medicalizzato venisse legittimato da una normativa il CNB ritiene chiarire che sia data la possibilità di obiezione di coscienza per il medico.

Un ultimo punto è la considerazione del rischio che si possa sconfinare oltre le situazioni particolari determinate dalle legge e dare poi l’avvio a pratiche non contemplate. Il cosiddetto “pendio scivoloso” consisterebbe per alcuni l’allargamento di anticipazione della morte a situazioni di demenza o di minorità, a disagi psicologici come la depressione o la sofferenza “esistenziale” quando le persone, anziane e meno abbienti possano venire considerate o considerarsi  un peso per la società.Anche coloro che sono moralmente a favore del suicidio assistito in casi specifici temono che con la legalizzazione sul piano giuridico si corra il rischio di abusi gravi e sia difficile distinguere tra sofferenza fisica e psicologica, tra stanchezza e rifiuto della vita. Per altri ancora il “pendio scivoloso”  ha  valore se assume il significato di cautela nelle indicazioni delle condizioni di ammissibilità di assistenza al suicidio medicalizzato, rimanendo in disaccordo con la visione di un percorso inevitabile che andrebbe successivamente ad inglobare anche  i casi moralmente inammissibili e ritenendo invece  che  una risposta dovrebbe comunque essere attenta alle nuove esigenze sociali e culturali in senso sia restrittivo sia espansivo.

In una relazione di cura è previsto l’utilizzo delle cure palliative, regolamentate dalla legge 38/2010,  finalizzate né ad ostacolare né anticipare la morte ma a prendersi cura del dolore fisico e psichico del paziente, non limitatamente nel fine vita. Il CNB da un lato  lamenta della disomogeneità sul territorio del servizio di cure palliative e della terapia del  dolore e dall’altro specifica che la sedazione palliativa profonda continua non coincide con l’atto eutanasico  e il suo uso non va sempre associato in un percorso di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale.Secondo alcuni orientamenti le cure palliative dovrebbero divenire un percorso di presa in carico alternativo al suicidio medicalmente assistito. Secondo altri non possono essere ritenute alternative ma preliminari al suicidio assistito quando la preferenza va ad un percorso che accolga l’aiuto a morire, le sofferenze sono incontrollabili e la stessa sedazione profonda continua non rispecchia la dignità della persona, se si  valorizza l’autonomia, la libertà di decisione verso la fine della propria vita.

Le opinioni del CNB sul suicidio medicalmente assistito  rispecchiano i differenti orientamenti nel dibattito pubblico presentati, distinguendo in linea di massima  tre prospettive.  Alcuni ne sono contrari sia sul piano etico che giuridico, ritenendo valore principe la difesa della vita umana. Una possibile legittimazione comporterebbe  «un vulnus irrimediabile» al principio morale della indisponibilità della vita perché ogni persona ha una sua dignità anche malgrado la grave disabilità o la salute compromessa; non può essere giustificata dalla pretesa di volontà suicidaria del paziente, informata, consapevole e non sottoposta a condizionamenti psicologici, familiari e sociali; si corre il rischio che si estenda la pratica, come già accade dove è legalizzata, a minori psicologicamente /o psichiatricamente fragili, ad anziani non autosufficienti, con il rischio di scivolare verso pratiche eutanasiche. Non vi è alcuna necessità di una legge specifica, sono sufficienti i percorsi esistenti:  di non giustificazione di ostinazione irragionevole delle cure e di giustificazione del “lasciare morire” con accompagnamento palliativo nelle condizione di rifiuto, rinuncia alle cure in una relazione di cura basata sulla fiducia tra paziente e  medico. Inoltre l'”agevolare la morte”, atto  che legittima la richiesta del malato al medico di aiuto nel suicidio, dà un senso differente e inaccettabile del “curare e prendersi cura”, stravolgendo il fondamento della professione medica, e non considera la vulnerabilità dei malati.  Cure palliative, terapie del dolore e assistenza medico-psicologica al termine della vita possono prevenire in modo efficace le richieste suicidarie, garantendo il diritto del malato ad essere curato e preso in cura anche nelle situazioni gravissime.

Altri sono favorevoli sul piano etico, bioetico e giuridico, in ragione dei principi etici di autodeterminazione e del dovere del medico di beneficenza. Si ritiene che il valore della tutela della vita va bilanciato con altri beni costituzionalmente rilevanti, quali l’autodeterminazione del paziente.Si tratta di un bilanciamento che deve tenere conto di alcune determinate condizioni che soddisfano e fanno da garanzia sia per il paziente che per il medico. Come la dignità di una persona, in alcune circostanze, può essere garantita con il rifiuto di terapie salvavita o della sedazione palliativa profonda, lo può anche per la richiesta di aiuto al suicidio assistito. Pur riconoscendo l’importanza della palliazione, sollecitando infatti ad avere un accesso garantito per tutti alle cure palliative in un sistema di cure integrato, precisano che vi sia data la possibilità di accogliere anche la richiesta di aiuto al suicidio medicalizzato, da praticarsi presso strutture del servizio sanitario nazionale o a carico del medesimo. Ritengono inoltre che sia prevista per legge l’obiezione di coscienza in riferimento al suicidio medicalmente assistito.

Per altri membri tale atto è sotto l’aspetto bioetico e giuridico improprio. Il suicidio è «un attacco letale alla vita di sé e in queste drammatiche  vicende concrete non si vuole in realtà “uccidere se stessi”, ma liberarsi da un corpo che è diventato prigione». Una tale scelta, sia essa di depenalizzazione o di legalizzazione del suicidio medicalmente assistito, implicherebbe il rischio concreto di un “pendio scivoloso”. Sottolineano che una libertà di autodeterminazione trova espressione in un sistema in cui vi sia garantita un’effettiva e adeguata assistenza sanitaria. Preoccupa le forti disomogeneità territoriali del servizio di cure palliative comunicate nella Relazione ministeriale del 2019 dovute a note e gravi carenze e in tal senso non può la richiesta di assistenza a morire divenire obbligata per una mancanza di supporto e assistenza adeguati. Certamente un’omogeneità comporterebbe una riduzione significativa di tali richieste. Poi affermano che se la legge 219/2017 sulle disposizioni anticipate di trattamento fosse pienamente attuata la sedazione palliativa profonda continua prevista, che consente di morire senza dolore anche rinunciando ai trattamenti di sostegno vitale, avrebbe un «potente effetto preventivo e dissuasivo nei confronti, in generale, delle condotte suicidarie dei pazienti e di molte richieste di suicidio medicalmente assistito.

Da tali differenti posizioni il Comitato Nazionale di Bioetica  è poi giunto a dare alcune raccomandazioni condivise: nel dibattito, anche parlamentare, siano tenute in considerazione le questioni morali, deontologiche  e giuridiche costituzionali che tale tematica solleva; l’impegno di fornire cure adeguate ai malati inguaribili in condizioni di sofferenza ed essere solidali nei confronti delle persone vulnerabili; nel rapporto di cura il paziente riceva un’accertata e documentata informazione per fruire di cure di alto standard e trattamenti sperimentali per ridurre la sofferenza; la necessità di una formazione professionale sulle normative in materia di  cure palliative (38/2010; 219/2017); la discussione sul fine vita si estenda fra i cittadini affinché per fare crescere una sensibilità consapevole e responsabile; infine siano promosse la ricerca scientifica biomedica e psicosociale nonché la formazione bioetica degli operatori sanitari.

Redazione Bioetica News Torino