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«Fine vita»: il valore della persona Intervento. Testamento biologico, stato vegetativo, morte cerebrale: tra scienza ed etica, la dimensione della finitudine nell'analisi di Enrico Larghero

17 Maggio 2017
In breve

L'esistenza è un bene indisponibile, oppure ne siamo i padroni assoluti? Si è passati dall'etica ippocratica, diretta ad alleviare le sofferenze a beneficio del paziente, all'etica individualistica della totale autonomia e libertà incondizionata. La necessità di fare di ogni singolo caso clinico un incontro umano

Tra le varie conquiste dell’ultimo secolo, un posto di rilievo spetta alla medicina e ai suoi progressi. L’affinamento delle tecniche diagnostiche, chirurgiche, rianimatorie e di trapianto, la scoperta della batteriologia, dell’immunologia, di nuovi farmaci salvavita e l’applicazione delle biotecnologie genetiche hanno offerto possibilità prima inimmaginabili. La scienza ha prolungato le aspettative di vita, ma al contempo ha generato problematiche relative alla cronicizzazione delle malattie e alle questioni inerenti le fasi cosiddette «terminali» dell’esistenza.

Posti di fronte a queste conquiste, alcuni si illudono di poter allontanare dal loro orizzonte la dimensione della finitudine. Nascono allora gravi equivoci bioetici che interpellano profondamente le coscienze e dividono gli animi.

La legge sul biotestamento approvata dalla Camera ma non ancora dal Senato

Una seria riflessione invita a chiarire i termini della questione nell’intento di non ridurre il dibattito ad una mera contrapposizione di contrastanti convinzioni. Molte malattie un tempo incurabili sono state debellate, altre, pur non raggiungendo la guarigione, sono curate e permettono una soddisfacente qualità di vita. Tuttavia nascono nuovi problemi e, se da una parte si aprono nuovi scenari ricchi di speranza, dall’altra casi sempre nuovi suscitano perplessità e pongono in essere questioni di fondo sul senso della vita, della morte, della salute e della malattia. Supporti tecnici, farmacologici e chirurgici sproporzionati, infatti, possono sortire il solo effetto di prolungare le sofferenze psicologiche e fisiche. La vita è un bene indisponibile, oppure siamo i padroni assoluti della nostra esistenza? Le scottanti polemiche che hanno invaso il mondo dei mass media e della sanità ripropongono drammaticamente il dilemma.

Accanto alle questioni di «inizio vita», quali l’utero in affitto, la pillola abortiva, la fecondazione artificiale, e l’utilizzo delle cellule staminali embrionali, i riflettori si sono frequentemente accesi sulle problematiche di «fine vita».

Nella civiltà definita post-moderna, in cui impera la «medicina dei desideri» che promette bellezza, giovinezza, benessere fisico, psichico e sociale, vivo è ancora il «tabù» della morte; tutto ciò che crea dolore, paura, inquietudine deve essere nascosto se non addirittura rimosso.  Considerando l’uomo solo nella sua dimensione immanente, si ignora la morte, la si bandisce dalla coscienza e, quando appare all’orizzonte, carica inevitabilmente di dolore, si vuole strumentalizzarla al proprio volere ed eliminarla.

Si è passati dall’etica ippocratica, diretta ad alleviare le sofferenze a beneficio del paziente, all’etica individualistica dell’assoluta autonomia e libertà incondizionata. Il formidabile progresso che la medicina ha registrato negli ultimi decenni in campo scientifico e tecnologico, afferma Luigi Ficarra, oltre alla sua divulgazione mediatica ha, senza dubbio, pagato il prezzo più alto in termini di esagerata sopravvalutazione del potere curativo della pratica medica; il che ha portato quasi a dimenticare la finitezza della natura umana ed il suo limite temporale posto dall’inevitabile evento della morte. È emersa quindi, in modo sempre più crescente, l’esigenza di disciplinare adeguatamente le condizioni estreme della vita, per evitare i pericoli dell’accanimento terapeutico che l’incalzante sviluppo della medicina rende sempre più possibile.

Mentre il progresso tecnico-scientifico, sosteneva Norberto Bobbio, non cessa di suscitare la nostra meraviglia e il nostro entusiasmo, seppure  frammisto ad un senso di angoscia per gli effetti perversi che ne possono derivare, continuiamo sul tema del progresso morale a interrogarci esattamente come duemila anni fa.  Il malato affetto da patologie con prognosi infausta può trovarsi nella fase terminale di fronte all’accanimento o all’abbandono terapeutico. Il primo avviene quando medici, pazienti e parenti tentano di opporsi con mezzi insistenti, inutili e gravosi al processo fisiologico della morte. Il Codice di deontologia medica  invita il medico ad «astenersi dall’ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita». L’abbandono terapeutico invece è un evidente atto di eutanasia passiva perché suppone la possibilità di interrompere non solo le cure sproporzionate, ma anche quelle ordinarie e palliative.

L’eutanasia, infatti, rimane a tutti i livelli il punto cruciale del dibattito. Attualmente, con un’interpretazione molto diversa dal suo significato originario, l’eutanasia indica la decisione di porre fine alla vita di malati prossimi all’exit con lo scopo presunto di sottrarli alle sofferenze e all’agonia. Uccisione «diretta e volontaria di un paziente terminale in condizioni di grave sofferenza e su sua richiesta» è la nota definizione del Comitato nazionale per la bioetica. Le discutibili ragioni addotte a favore di tale pratica sono di vario genere. Nella maggioranza dei casi essa viene invocata per eliminare «dolori inutili», per assicurare una «morte degna» e per evitare che il paziente sprofondi nella disperazione vedendosi condannato ad una fine inesorabile e ad un degrado psico-fisico irreversibile e inaccettabile, come testimoniano i recenti casi di malati colpiti da Sclerosi laterale amiotrofica (Sla), patologia degenerativa del sistema nervoso.

Una distinzione che si rende necessaria è quella tra eutanasia attiva e passiva. Va detto che il termine «attiva» si riferisce ad un’azione volta intenzionalmente a procurare la morte all’individuo ed è quindi l’eutanasia propriamente detta, mentre con la definizione di «passiva» vengono indicate due diverse attribuzioni contrastanti: una è l’astensione da interventi non giustificati che possono configurarsi come accanimento terapeutico; l’altra una omissione intenzionale  di cure indispensabili per il paziente e quindi una pratica eutanasica vera e propria.

L’opinione pubblica si è molto appassionata a queste vicende (Welby, Englaro, Dj Fabo e Davide Trentini), ma, occorre dirlo, è difficile farsi sulle medesime un’idea chiara e distinta. La moda del sensazionalismo ha spesso contaminato anche i mezzi di informazione, non permettendo di assolvere pienamente al loro  compito e fornendo notizie-scoop che soddisfano l’emotività dei lettori ma non la loro autentica sete di sapere. In tale contesto e da tali presupposti si è animato il dibattito che da tempo occupa le pagine dei giornali sul testamento biologico, o Living Will, o Direttive anticipate di trattamento (Dat). L’espressione indica le manifestazioni di volontà con le quali gli individui possono decidere a quali trattamenti sanitari essere sottoposti, qualora dovessero trovarsi privi della capacità di esprimere direttamente la propria volontà.

Di questi giorni la notizia che la legge sul biotestamento è stata approvata in Parlamento dalla Camera ma non ancora dal Senato. L’iter legislativo italiano è stato alquanto complesso e ancora oggi, questione non risolta, rimane quella legata alla sospensione di idratazione e nutrizione artificiale, se cioè siano atti medici dovuti, oppure possano configurarsi come una forma di accanimento terapeutico.

Da un lato, il principio di autodeterminazione, di affermazione della libertà intesa come valore assoluto e incondizionabile, in base al quale ciascuno è padrone della sua vita e può disporne pienamente. Quando la salute si allontana, l’efficienza viene meno, le performance psico-fisiche si depauperano e, secondo quest’ottica, l’individuo ha il diritto di porre fine alla sua vita.
Dall’altro, in contrapposizione, il principio di inviolabilità e indisponibilità della vita, intesa come un dono e quindi nessuno è padrone della propria esistenza. I testamenti vigenti nel mondo, è bene sottolinearlo, sono alquanto disomogenei tra i Paesi, variano notevolmente sia nello spirito che nello stile e risentono dei diversi orientamenti antropologici, culturali e religiosi di fondo.

Un testamento biologico, spesso invocato in questi anni come la panacea in grado di risolvere tutti i drammatici casi della medicina, potrebbe forse coprire quel vuoto legislativo oggi riempito da infinite e gratuite polemiche. Il principio che non deve mai venire meno in ogni circostanza è comunque la difesa della vita, in particolare di quella debole.

Il pensiero umano deve procedere libero e scevro da pregiudizi. Ogni riflessione può aprire il campo a nuove scoperte, essere lo stimolo per nuovi confronti, purché il tutto avvenga con toni sereni, pacati, con appropriatezza di argomentazioni e con onestà intellettuale.  Ridiscutere sul «fine vita», sugli stati vegetativi, sulla morte cerebrale è possibile, ma si deve evitare il rischio di giungere a conclusioni affrettate che alimentano un clima di sfiducia, che allontanano invece di avvicinare e che impediscono un dialogo fecondo tra scienza ed etica, e quindi un vero ed autentico progresso.

Curare non è solamente somministrare farmaci, ma è un rapporto tra esseri umani non codificabile da regole e codici

Curare adeguatamente non è solo somministrare dei farmaci, ma qualcosa di più, è un rapporto tra esseri umani e come tale non codificabile da regole, norme e codici. Soltanto chi possiede un bagaglio esistenziale, culturale e valoriale adeguato può affrontare le situazioni e districarsi nel complesso mondo della salute. Questa è la vera umanizzazione della medicina, fatta di scienza e coscienza, ove l’interazione medico-paziente deve definire sia gli obiettivi della terapia, la soglia di tolleranza e di sopportazione, i disagi e le sofferenze imposti dalla malattia. Il medico ha l’obbligo di prendersi cura del paziente, ma al contempo ha il dovere di rispettarne l’autonomia. Su questo difficile equilibrio si fonda il principio di proporzionalità della cura. L’adempimento degli obblighi giuridici, scrive infatti il bioeticista Eugenio Lecaldano, non esaurisce la responsabilità del medico.

Il medico non solo adempia ai suoi doveri, ma dimostri virtù in grado di riempire i vuoti lasciati dalle norme giuridiche

Ciò che sembra raccomandabile quindi è che il medico non solo adempia ai suoi doveri formali, ma che nell’esercizio della professione dimostri quelle virtù in grado di riempire i vuoti lasciati dagli adempimenti giuridici a cui è soggetto. La malattia, è scritto nella nuova Carta degli operatori sanitari, è più di un fatto clinico medicalmente circoscrivibile. È sempre la condizione di un uomo, il malato. Con questa visione integralmente umana gli operatori sanitari devono rapportarsi con il paziente. Si tratta di possedere, insieme alla dovuta competenza, una coscienza di valori e di significati con cui dare senso alla malattia e al proprio lavoro e fare di ogni singolo caso clinico un incontro umano.  Il diritto prioritario del malato va pertanto coniugato con il dovere di tutelare la propria vita, poiché questa non si possiede, ma si identifica con la persona stessa. Le necessità, le esigenze sempre nuove trovano la loro naturale risoluzione in un luogo di cura consono ed accogliente, nel quale gli operatori sanitari si fanno carico del malato e stabiliscono un autentico e consolidato patto di fiducia che sappia andar oltre la norma.

I sanitari, come tutori della vita, hanno il dovere umano di opporsi a qualsiasi pressione morale da parte del paziente, dei familiari, oppure della società. Il paziente, da parte su, deve avvertire la vicinanza fisica ed affettiva del suo ambiente, in particolare dei suoi cari; l’esperienza dimostra che il desiderio esternato di porre termine alla vita sovente è un grido di disperazione in seguito alla già avvenuta morte sociale. È opportuno quindi che vi sia intorno  a lui una cooperazione sensibile e attenta che gli garantisca un’assistenza integrale fisica, psicologica e spirituale e una morte umanamente dignitosa.

L’eutanasia, prima ancora che una diserzione etica, è una diserzione scientifica. È una scelta senza speranza

L’eutanasia, prima ancora che una diserzione etica, è una diserzione scientifica. Essa rappresenta una falsa soluzione, una scelta senza speranza. Un paziente che chiede di morire, chiede in realtà di non essere lasciato solo nell’oscurità della prova. Il vero compito di medici, infermieri e familiari  è quello di «accompagnare» il malato nell’avvicinarsi della fine. In particolare, gli operatori sanitari hanno il dovere di essere «garanti e custodi» della vita, particolarmente quando essa è gravemente minacciata. Le cure palliative destinate al malato inguaribile, magari incurabile, rappresentano la giusta via di mezzo tra l’eutanasia e l’accanimento terapeutico.

Tutto ciò è anche e soprattutto dovere e proporzionalità di cura, cioè appropriatezza, ove competenze tecnico-scientifiche e doti umane devono fondersi sinergicamente ed armoniosamente nell’alleanza terapeutica. Questo è un paradigma antico, un unione, un vincolo, una sintonia di sentimenti, un accordo senza tempo. È un cammino di fiducia reciproca che indica come il rapporto tra medico e paziente non possa essere fondato soltanto su valori normativi e sulle competenze scientifiche, ma anche e sopratutto sul valore inalienabile della persona. Accompagnare la sofferenza e trarne da essa un senso resta comunque un dovere di tutti, a prescindere dalla fede religiosa o dell’ideologia, anche in un mondo che tende a rimuovere questa realtà ricorrendo, ad esempio, alle direttive anticipate, vissute come antidoto alla sofferenza, ma che diventano, invece, se strumentalizzate, anticamere dell’eutanasia.

L’offuscarsi del paternalismo e parallelamente l’affermarsi del principio di autonomia e della conseguente autodeterminazione del soggetto rappresentano la chiave di volta su cui poggiano, ancora oggi, i fondamenti della relazione sanitaria. Il consenso informato e le Dat costituiscono senza ombra di dubbio un punto di arrivo, un passaggio obbligato all’interno di una relazione profondamente mutata nel tempo. Sarebbe anacronistico in un contesto nel quale l’orizzonte giuridico costituisce la trama su cui si regolano i fatti, le azioni e le relazioni nella  nostra società, che il rapporto medico-paziente fosse ancora basato sui presupposti ippocratici, ma è altrettanto utopistico pensare che la complessità e la molteplicità della realtà possa essere tout-court ricondotta ad un documento. Ciò vale per il consenso informato e, a maggior ragione, per le Dat.
Una legge non può avere altro scopo che la difesa della vita in ogni sua forma e condizione, in perenne tensione verso il bene comune, nella tutela sempre e in ogni caso di tutti gli individui sani e malati, al fine di riscoprire il significato autentico della libertà.

 

Fonte:  Enrico Larghero, «Fine vita»: il valore della persona, «La Voce e il Tempo», domenica 14 maggio 2017, pp.12-13

Enrico LargheroDirettore scientifico del Master Universitario in Bioetica della Facoltà Teologica di Torino