La sindrome Mayer Rokitansky e il trapianto d’utero Dopo il trapianto di utero nasce neonato. Il primo in Francia alcuni giorni fa
23 Febbraio 2021La sindrome di Mayer-Rokitansky Kuster Hauser (MRKH) è rara, riguarda solo le femmine, e generalmente una bambina su 4.500 nate. La caratterizza la presenza di una aplasia congenita dell’utero e di 2/3 della vagina superiore in donne con uno sviluppo normale dei caratteri sessuali secondari e genitali esterni normali, con ovaie funzionanti e cariotipo 46, XX normale (livello ormonale), si manifesta attorno al 5° mese di vita fetale quando inizia la formazione dell’apparato riproduttivo. La causa certa non è stata finora individuata ma si suppone, dal crescente numero di casi associati a familiarità, una ipotesi genetica di cui vi sono allo studio diversi geni. Si arriva purtroppo tardi a sospettarla, in tarda pubertà quando al normale sviluppo di caratteri sessuali secondari, come seno, peluria pubica e ascellare, non segue la comparsa della prima mestruazione. Infatti si scopre spesso nell’adolescenza con il primo sintomo di amenorrea primaria. Può essere isolata, detta tipo 1, oppure se ad essa si associano anomalie di altri organi, vi sono pochi casi, a carico dei reni (40%), dell’apparato scheletrico (20-25%), malformazioni dell’udito (10%), e del cuore, è chiamata tipo II.
Lo sviluppo parziale o assente dell’utero e vagina compromette la possibilità di mestruare ogni mese e di portare a termine una gravidanza. L’unico intervento possibile al momento è la ricostituzione del canale vaginale per consentire una vita sessuale normale e a seconda delle condizioni di partenza attraverso la chirurgia o meno (si veda Ospedale Bambino Gesù di Roma, sindrome di Rotikanski). In presenza di un abbozzo di vagina la scelta cade per un approccio conservativo molto delicato basato per alcuni anni sull’utilizzo di espansori per l’allungamento, preferibilmente in età adolescenziale per la riuscita dell’esito; approccio terapeutico, che non può essere comunque forzato contro la riluttanza della bambina «nei confronti delle dovute manovre o per un’immaturità psicologica ad affrontare le procedure previste».
La ricostruzione della vagina ex-novo, quando questa manca, può essere fatta con diverse tecniche chirurgiche, ma come evidenzia la nota a cura di Maria Chiara Lucchetti dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma (2018), la criticità riguarda «il rivestimento del canale neoformato, visto che la mucosa vaginale naturale ha alcune caratteristiche molto specifiche, come una certa elasticità e un certo grado di lubrificazione, difficili da riprodurre. L’intervento chirurgico, oltre ai rischi legati all’impianto e all’attecchimento del tessuto (prelevato da altri organi oppure fatto crescere in provetta a partire da cellule della paziente) certamente comporta la formazione di cicatrici che possono avere ripercussioni funzionali per l’elasticità e la sensibilità che deve mantenere la cavità vaginale.» Invece se non si è sviluppato l’utero o in presenza di malformazioni, troppo piccolo o malformato, la ricostituzione vaginale non risolve il problema successivo, l’infertilità.
In via sperimentale è il trapianto d’utero che «si sta affermando come una concreta possibilità di trattamento, in futuro, per queste pazienti. Certamente, la scelta di ricorrere al trapianto andrà sottoposta caso per caso ad attenta e competente valutazione di etica clinica», afferma, sempre nella nota la dottoressa Lucchetti.
Una ricerca su cui vi sono pochi casi di studio al mondo, in via ancora sperimentale, che pone interrogativi etici. Da un lato i rischi e i benefici legati all’intervento clinico ‒ immunosoppressione, rigetto dell’organo, rimozione dell’utero dopo la gravidanza per evitare il prosieguo della terapia immunosoppressiva ad esempio ‒ alla salute della madre e del bambino e della donatrice vivente ‒ non in Italia dove non è ammesso tale procedura ma da cadavere ‒, il consenso informato, l’uso e le complicanze di tecniche di riproduzione medicalmente assistita, il criterio di preferenza nella lista di attesa per i trapianti e per le donazioni, dall’altro la possibilità di una maternità da cogliere nel gesto solidale dell’adozione o dell’affidamento di bambini.
Una gestione (della gravidanza) per altri, ovvero la maternità surrogata, in chiave “solidale”, viene ipotizzata per dare «una reale possibilità per il legittimo desiderio di maternità alle ragazze italiane affette da Sindrome di Rokitansky e più in generale ad un importante platea di donne fertili ma impossibilitate ad avere una gravidanza, al pari di quanto già avviene in molti Paesi civili nel mondo» dall’Associazione Luca Coscioni (firmataria dell’appello per la proposta di legge sulla GPA solidale in Italia), attraverso la voce del suo referente scientifico dr Marcello Pili, nell’articolo Trapianto d’utero anziché gestazione per altri solidale. Ma a che prezzo?, pubblicato il 3 novembre 2020 su «QuotidianoSanità.it», in risposta ad un confronto con la dr.ssa Clementina Peris, già responsabile di Ginecologia Endocrinologica e di Terapia Medica della Sterilità Ospedale S. Anna di Torino.
In Italia la GPA è vietata dalla legge 40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita. Non è accolta dal magistero della Chiesa cattolica insieme ai pareri sfavorevoli espressi sulle altre tecniche di procreazione assistita che non siano volte alla cura ormonale e agli interventi chirurgici mirati “a rimuovere gli ostacoli che si oppongono alla fertilità naturale” (Dignitas persona), nonché oggetto di accesa discussione per lo sfruttamento della dignità della donna, commerciale e in senso “sociale”.
Clementina Peris, che afferma di essersi occupata durante la sua attività ospedaliera di alcune ragazze con la sindrome di Rokitansky sostiene nell’articolo Gestione per altri “solidale” o trapianto d’utero? («QuotidianoSanità.it», 28 ottobre 2020) che «la gestazione per altri, anche definita surrogata, invece comporta un completo allotrapianto al posto del fisiologico emi-allotrapianto, quale evolutivamente è una gravidanza: come conseguenza una GPA presenta maggiormente i rischi di un trapianto. Nel caso dell’emi-allotrapianto i rischi sono evolutivamente molto meglio controllati dalla protezione esercitata dalla madre, al fine della propagazione dei propri geni, e dall’embrione, poi dal feto, al fine della propria sopravvivenza. I rischi significativamente aumentati, noti in letteratura medica in caso di completo allotrapianto per le maggiori complicanze in frequenza e gravità durante la gravidanza e al parto, coinvolgono sia le gestanti per altri sia i nati. Inoltre, gli effetti del microchimerismo materno e fetale di tali gravidanze sulle gestanti per altri e sui nati non sono mai stati adeguatamente indagati, per quanto presenti.» Specifica ancora che «nel trapianto di utero, la gestazione sarebbe della donna stessa, che così sarebbe madre genetica, gestazionale e legale; inoltre l’utero potrebbe essere anche conservato in situ a disposizione per una seconda gravidanza o rimosso dopo il parto per evitare di proseguire con la terapia immunosoppressiva. Ovviamente non si tratta di una soluzione priva del tutto di rischi e di costi, anche emotivi, ma sarebbe un modo di andare incontro al desiderio di genitorialità con più completa informazione dei propri rischi, quelli che si intende correre, senza coinvolgere nei rischi una terza parte, un’altra donna».
Nella letteratura scientifica sono una settantina i trapianti di utero eseguiti nel mondo, di cui però l’80% da donatrice vivente. Al 2020 risultano 3 bambini dopo il trapianto da donatrice deceduta, uno in Brasile (2017), due negli Stati Uniti (2017 e 2018). Vi sono circa 15 neonati nel mondo, di cui 9 in Svezia da donatrice vivente mediante il progetto di ricerca di Sahlgrenska Academy, in Serbia (2018), in India (2018), in Cina a cui si aggiunge la recente nascita in Francia.
Di alcuni giorni fa è la notizia dalla Francia, che presto fa il giro mediatico oltre confine, per la nascita di una bambina, dal peso di 1kg e 845grammi, da una mamma trentaseienne, affetta dalla sindrome di Mayer-Rokitansky dopo essersi sottoposta al trapianto d’utero, donatole in vita dalla madre. È stato realizzato dall’equipe del prof. Jean-Marc Ayoubi JM, direttore del dipartimento di medicina della riproduzione e ginecologia e ostetricia presso l’Ospedale Foch di Suresnes. Viene annunciata con soddisfazione facendo trapelare anche un certo orgoglio nazionale, il successo dell’intervento, ad una settimana dalla nascita, dallo stesso Hôpital Foch; «Naissance du 1er bebé francais venu au monde – de 2 ans après la premièere greffe d’utérus», attraverso le sue pagine facebook di mercoledì 17 febbraio». Il medico Ayobi rassicura che entrambe, mamma e figlia, presentano buone condizioni di salute, senza complicanze evidenti. Con più di una ventina di ricercatori, si tratta di, spiega: «un risultato di più di 12 anni di ricerca in Francia e di collaborazioni internazionali, tra cui l’équipe del professore Mats Brännström di ginecologia-ostetricia all’Università di Göteborg in Svezia, e alla guida dei servizi presso l’ospedale universitario di Sahlgrenska».
In Italia invece, lo scorso anno ad agosto, a Catania, è stato effettuato, in corso di pandemia, il primo trapianto di utero ad una donna affetta dalla stessa malattia rara, senza lo sviluppo dell’utero, donato da cadavere (non è ammessa da vivente in Italia), presso il Centro Trapianti del Policlinico e dell’Ospedale Cannizzaro dove il protocollo sperimentale è stato approvato dal Centro nazionale trapianti dal 2018 previo parere del Consiglio superiore della Sanità. Il Ministero della Salute ne diede annuncio il 10 settembre 2020 confermando che in assenza di rigetto si sarebbe proseguito con la PMA «con gli ovociti prelevati alla paziente poco prima dell’intervento. Il tutto per raggiungere l’obiettivo del trapianto: ovvero che la signora porti a termine una gravidanza», affermava allora il prof. Paolo Scollo della struttura ospedaliera Cannizzaro mentre il direttore del Centro Trapianti nazionale Massimo Cardillo informava della lista di attesa già in corso per nuove pazienti di cui valutare l’accesso all’iter.
La trapiantologia d’utero è iniziata con il progetto pionieristico di ricerca all’Università di Goteborg, per consentire la gravidanza a chi fosse nato senza utero o lo avesse perduto a causa di una patologia oncologica, sviluppatosi dal 1999 alla Sahlgrenska Academy, che ha portato al 2012 il primo intervento eseguito dal prof. Mats Brännström. Se ne sono susseguiti altri e l’esito riuscito con la nascita del primo bambino al mondo si è avuto nel 2014: nato con tecnica di crioconservazione dell’embrione, con taglio cesareo alla 32 settimana di gestazione perché la madre aveva sviluppato la preeclampsia, perfettamente sano, di 1,775 grammi alla nascita, da un utero donato da una donna sessantenne senza legami parentali (in World’s first child born after uterus transplantation, Uni. Gothenburg, 3 october 2014).
Nel 2017 la tecnica si affina con l’ingresso della robotica chirurgica assistiva mininvasiva, di precisione, che diminuisce le complicanze per la donatrice vivente come la perdita di sangue, riduce la giacenza in ospedale per la donatrice vivente. Viene sperimentata nel 2018 su donatrice vivente ‒ che per lo più è madre della ricevente ma può anche essere legata da rapporti di parentela o di amicizia stretta ‒ mentre rimane tradizionale la chirurgia per la ricevente e nel 2019 nasce con tecnica di tecnica FIV ‒ fertilizzazione in vitro dell’embrione ‒ il nono tra i nati con il trapianto d’utero in Svezia. Per il chirurgo del trapianto Niclas Kvarnström che esegue l’intricato compito della connessione dei vasi nell’utero della ricevente comincia ad essere di interesse l’applicazione della chirurgia robotica assistiva anche sulla donazione da cadavere. A dicembre 2019 viene effettuato il primo intervento di trapianto da donatrice deceduta, «un nuovo metodo per aumentare la gamma di opzioni per avanzare la possibile istituzione di trapianto uterino come trattamento»: l’annuncio viene dato a febbraio del 2020 dall’Università di Göteborg prefissando l’esecuzione di altri 5 trapianti tra il 2020 e il 2021, in First Swedish transplant of uterus from deceased donor.