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19 Maggio 2014
Bioetica News Torino Maggio 2014

Notizie dal Mondo

L’aumento del Pil non migliora la malnutrizione infantile

1 aprile 2014

La crescita economica riduce la malnutrizione infantile in termini di arresto della crescita, basso peso corporeo e deperimento? La risposta sembra negativa, a giudicare dai risultati di uno studio su «The Lancet Global Health» svolto su bambini di 36 Paesi in via di sviluppo e coordinato da Swamy Subramanian, ricercatore della Harvard School of Public Health. In tutto il mondo, i piccoli morti per malnutrizione sono 2,6 milioni ogni anno, e le stime del 2011 dicono che 165 milioni di bambini nei Paesi in via di sviluppo vengono colpiti da arresto della crescita, mentre 101 milioni sono sottopeso.

La ricerca, svolta in collaborazione tra la Harvard School of Public Health, l’Università di Göttingen, l’ETH di Zurigo e l’Indian Institute of Technology Gandhinagar, ha esaminato i dati relativi ai bambini sotto i 3 anni di età riportati in 121 analisi demografiche e sanitarie effettuate in 36 Paesi a basso e medio reddito tra il 1990 e il 2011. «E’ stato misurato l’effetto delle variazioni del prodotto interno lordo pro-capite (PIL), corretto per l’inflazione e il potere d’acquisto nei diversi Paesi, sull’arresto della crescita, il sottopeso e il deperimento organico su diverse coorti, ognuna formata da quasi cinquecentomila bambini» dice il ricercatore di Harvard.

I risultati? Nessun legame evidente tra crescita economica e tassi di malnutrizione a livello nazionale. «A livello individuale un aumento del 5 per cento del PIL pro capite si associa a una piccola riduzione del rischio di malnutrizione, ma non nei bambini più poveri a maggior rischio. «Ci sono tre possibili ragioni per la persistenza della malnutrizione nei Paesi in via di sviluppo: le famiglie non possono spendere i maggiori guadagni per migliorare lo stato nutrizionale di figli; l’ineguale distribuzione della crescita non coinvolge le famiglie più povere; l’aumento del reddito non garantisce i finanziamenti pubblici necessari a ridurre la malnutrizione infantile, come i servizi igienico-sanitari o la vaccinazione contro le malattie legate alla denutrizione.

Conclude Subramanian: «Questi dati non significano che lo sviluppo economico non sia importante in senso generale, ma suggeriscono ai politici di non considerare il PIL un indicatore dello stato nutrizionale infantile. E in un editoriale di commento Abhijeet Singh dell’Università di Oxford, Regno Unito, scrive: «I risultati dello studio indicano la necessità di interventi mirati non solo al benessere economico generale, quanto direttamente a migliorare lo stato di salute e nutrizione».

(Fonte: «Doctor 33»)
(Approfondimenti: http://www.thelancet.com/journals/langlo/article/PIIS2214-109X(14)70025-7/abstract)

Clima: impatti, rischi e adattamento nel V rapporto IPCC

1 aprile 2014

Le conseguenze dei cambiamenti climatici mettono a rischio i sistemi naturali ed umani, sono già in corso e, se non si rallentano le emissioni di gas serra, le capacità di adattarsi si riducono con il passare del tempo. Queste alcune delle conclusioni dell’atteso documento dell’Intergovernmental Panel on Climate Change che analizza impatti, rischi e misure di adattamento.
Le bozze circolavano già da mesi, il 1° aprile sul sito dell’IPCC sono state pubblicate la versione finale e la sintesi, al termine dell’incontro tenuto in Giappone, a Yokohama, a cui hanno partecipato scienziati e delegati dei governi di tutto il mondo.
Si tratta del secondo capitolo del quinto Rapporto di Valutazione (il quarto risale al 2007), ed è frutto dell’opera di raccolta, revisione e sintesi degli studi scientifici sul tema pubblicati a partire dal 2007.

Vi hanno partecipato più di 800 autori e circa 1700 revisori tra scienziati ed esperti governativi. Il risultato è un colossale rapporto che supera le 2500 pagine, condensato in un riassunto di 25.

La prima parte del quinto Rapporto, relativa alla scienza del clima è stata pubblicata a settembre, mentre la terza verrà approvata e pubblicata nella prima metà aprile [vedi sotto notizia del 13 aprile, ndr], e tratterà delle misure di mitigazione, ovvero degli interventi politici e tecnologici necessari a ridurre le emissioni di gas serra in atmosfera.

PAROLA CHIAVE:  RISCHIO – I rischi per gli ecosistemi e per l’uomo non dipendono esclusivamente dai cambiamenti climatici, si legge nel documento approvato a Yokohama, ma la combinazione di questi con altri fattori di stress possono provocare conseguenze gravi, in alcuni casi già evidenti, a seconda delle regioni del mondo e dei settori esaminati.

Finora sono state più gravi ed evidenti per gli ecosistemi naturali: i cambiamenti climatici hanno modificato la varietà, l’attività stagionale, le abitudini migratorie, e la numerosità di specie animali e vegetali, con un rischio di estinzione più alto per quelle specie che vivono in habitat unici e particolarmente vulnerabili, come le barriere coralline e le zone artiche. I ghiacciai continuano a sciogliersi e una maggiore variabilità nelle precipitazioni sta alterando le risorse idriche e la loro qualità.

Il riscaldamento globale colpisce anche le comunità umane, influenzando l’accesso all’acqua e la produzione agricola, le condizioni di salute, il reddito medio.

La parola “rischio” ricorre quasi 200 volte nella sintesi del documento. I rischi legati ai cambiamenti climatici non dipendono solo dalla minore o maggiore frequenza delle precipitazioni o di eventi estremi come uragani e siccità, ma anche da quanto si è esposti e vulnerabili a quelli stessi eventi. I rischi, insomma, non sono gli stessi per tutti.

Per quanto riguarda gli effetti sulla popolazione umana, questa è una delle conclusioni più significative del rapporto IPCC, in quanto afferma che i rischi del clima dipendono anche da diseguaglianze sociali ed economiche, e hanno la capacità di allargare sempre di più la forbice tra chi ha le risorse per adattarsi e far fronte alle conseguenze peggiori, e chi no.

Secondo gli scienziati, gli eventi climatici estremi degli ultimi anni (come l’uragano Sandy negli Stati Uniti e il tifone Hayan nelle Filippine, solo per citarne i più recenti e conosciuti) hanno dimostrato quanto i sistemi umani siano sensibili alle variazioni climatiche e quanto siamo ancora lontani dall’avere misure di adattamento adeguate (al di là del fatto che sia scientificamente molto difficile stabilire se un singolo evento meteorologico sia direttamente causato dai cambiamenti climatici). Le minacce climatiche però sono un “fardello addizionale” per coloro che vivono in condizioni di povertà, dato che impattano direttamente sulla resa dei raccolti e sulle abitazioni, e indirettamente sul prezzo degli alimenti e sulla sicurezza alimentare di intere regioni.

OTTO KILLER – Tra i principali rischi futuri dovuti a “pericolose interferenze delle attività umane con il sistema climatico”, l’IPCC ne rileva otto che possono avere “ampie o irreversibili conseguenze, alta probabilità di conseguenze, e/o limitata capacità di adattamento”.

• Il rischio di mortalità e distruzione dei mezzi di sostentamento dovuto all’innalzamento del livello del mare, alluvioni, tempeste in zone costiere e nei piccoli stati isolani.
• Il rischio per la sicurezza alimentare, dovuto a riscaldamento, siccità, variazioni nelle precipitazioni, in particolare per le popolazioni più povere.
• Il rischio di gravi danni causati da alluvioni nelle zone urbane.
• Il rischio di perdita dei mezzi di sostentamento e rendite in aree rurali, causato da insufficiente accesso ad acqua potabile e per l’irrigazione, anche questo maggiore per popolazioni povere che si basano su agricoltura e pastorizia in aree semi aride.
• Il rischio di eventi estremi distruttivi per reti infrastrutturali e servizi essenziali.
• Gravi danni agli ecosistemi marini e terrestri, e conseguente perdita dei benefici per le comunità che vi fanno affidamento.
• Il rischio di mortalità e maggiore incidenza di malattie a causa di ondate di calore, in particolare per le fasce di popolazione più vulnerabili che vivono nelle aree urbane.
• Altri rischi esaminati per settore riguardano gli oceani, l’agricoltura, la produzione e il consumo di energia, la crescita economica e il legame tra cambiamenti climatici, conflitti e povertà.

LA SCALA DEI RISCHI – Quello che preoccupa maggiormente gli scienziati è l’aumento dei rischi al crescere della temperatura media globale (che segna già un +0.6°C rispetto al periodo preindustriale, per i sistemi unici e fragili, gli eventi meteorologici estremi, l’irregolarità nella distribuzione degli impatti, le conseguenze aggregate su scala globale e la possibilità di eventi singoli su larga scala (i cosiddetti “tipping points”, categoria che considera per esempio lo scioglimento rapido e irreversibile dei ghiacciai in Groenlandia)

Il confronto tra uno scenario in cui le emissioni continuano ad aumentare al ritmo attuale  ed un altro in cui in le emissioni di gas serra vengono ridotte in modo significativo dinostra che il primo porta ad un aumento della temperatura oltre i 4°C, mentre nel secondo si stabilizza intorno ad un +1.5°C. Secondo l’IPCC, ridurre le emissioni nei prossimi decenni riduce sostanzialmente i rischi, anche se tutte le proiezioni indicano che una parte degli impatti è comunque inevitabile.

Naturalmente quando si parla di rischi e conseguenze si tratta di probabilità, più o meno alte, che un determinato evento si realizzi. Il contesto di incertezza in cui vengono prese le decisioni non deve frenare, sostiene l’IPCC. Se si agisce tempestivamente mettendo in pratica misure adeguate (che devono essere specifiche per settore, territorio, condizioni socio-economiche, e garantire il coinvolgimento delle istituzioni e degli individui interessati) si possono trarre anche dei co-benefici. Gli interventi di adattamento già pianificati o implementati nel mondo si basano soprattutto su misure ingegneristiche e tecnologiche, osservano gli scienziati, mentre viene sempre più riconosciuto il valore dell’approccio che si basa su capacità istituzionale, azione collettiva e in accordo con gli ecosistemi.

LE PRIME REAZIONI AL RAPPORTO – Il report ha ricevuto diverse critiche, sia per “eccessivo allarmismo” che per aver sottostimato i potenziali impatti sull’economia (fenomeno singolare ma non sorprendente nelle polemiche sul clima). Altri hanno invece osservato come i toni usati in questo ultimo rapporto siano più misurati rispetto alle valutazioni precedenti, grazie anche alla maggiore robustezza dei risultati scientifici e ad esperienze passate in cui stime probabilistiche (errate, nel famigerato caso dei ghiacciai Himalaiani) erano circolate come certezze.

Il dato piuttosto notevole, fa notare il britannico «Guardian», è che l’allarme lanciato dall’IPCC sul cambiamento del clima e le sue conseguenze sia rimasto quasi inalterato da quando è stato pubblicato il primo Rapporto di Valutazione, nel 1990. Anche allora gli studi dicevano che gli ecosistemi naturali avrebbero subito “conseguenze significative” dovute al cambiamento climatico, e indicavano possibili “gravi impatti sulla salute” a causa di variazioni nella disponibilità di risorse idriche e alimentari, ondate di calore e diffusione di malattie.
Anche allora, le popolazioni e i Paesi poveri erano riconosciuti come più vulnerabili. Da allora poco sembra essere cambiato, se non che gli impatti sono più numerosi e più evidenti.

(Fonte: «Scienza in Rete»)
(Approfondimenti:  http://ipcc-wg2.gov/AR5/)

Riforma sanità Usa. Raggiunta quota di 7,1 milioni di assicurati. Per Obama è un successo

3 aprile 2014

Il pomeriggio del 1° aprile scorso in una cerimonia al Rose Garden della Casa Bianca a Washington il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha annunciato che le iscrizioni assicurative previste dalla sua riforma sanitaria hanno toccato quota 7,1 milioni di cittadini. Poco più dell’obiettivo originale che si era dato l’amministrazione. Il risultato è da considerarsi notevole, dato l’incubo burocratico e tecnico che ha circondato il debutto del sito web dove si raccolgono le adesioni lo scorso ottobre.

“Armageddon non è arrivato”, ha detto il presidente a una platea di membri dello staff della Casa Bianca e sostenitori  di Obama Care che hanno salutato l’annuncio con una standing ovation prolungata. “Invece, questa legge sta aiutando milioni di americani, e nei prossimi anni aiuterà molti milioni in più”. E Il traguardo avrebbe potuto essere più significativo se l’impatto sulla percezione pubblica della legge non avesse dovuto fare i conti con i continui attacchi dei Repubblicani e se gli inconvenienti di funzionamento dei siti informatici per l’iscrizione non avessero richiesto più di un mese per essere corretti.

Dopo mesi di feroci critiche per il lancio pasticciato della legge sanitaria, comunque lo scorso 1° aprile si è annunciata la pietra miliare su Twitter con # 7MillionAndCounting.
Con la fine della prima fase di adesione aperta, l’amministrazione deve ora rivolgere la sua attenzione ad una manciata di questioni pratiche che possono avere ulteriore impatto sul successo della legge rispetto al numero di persone che si sono iscritte. Queste includono la garanzia ai consumatori che continuano a pagare la loro quota di premi mensili, di accesso ai medici e ospedali tutte le volte che ne hanno bisogno e che le compagnie di assicurazione non saranno costrette ad aumentare i premi.
L’amministrazione deve anche guardare in avanti alla prossima stagione di iscrizione in termini di costi sostenibili in quanto il Congressional Budget Office stima che l’iscrizione negli scambi crescerà fino a 13 milioni nel 2015 e 22 milioni nel 2016.

Molti dei critici più accesi della legge di sanità hanno espresso dubbi sul conteggio ufficiale di sign-up, notando che la Casa Bianca non aveva rilasciato informazioni su quante persone, che hanno firmato, avevano pagato i loro premi iniziali.

I critici hanno inoltre osservato che un numero imprecisato di persone che hanno firmato HealthCare.gov erano stati precedentemente assicurati nell’ambito dei piani che sono stati cancellati. I funzionari della Casa Bianca hanno detto che non avevano ancora un riscontro di tale categoria.

“Coloro che corrono contro la riforma, che gestiscono l’iter di abrogazione e non offrono nulla in cambio, ma il vecchio status quo, devono qualche spiegazione a quei milioni di americani che ora hanno la sicurezza di assicurazione sanitaria a prezzi accessibili “, ha detto Jay Carney, il portavoce della Casa Bianca.

I Democratici del Congresso sono stati rincuorati dall’annuncio delle iscrizioni per la nuova legge, in particolare dopo essere stati imbarazzati e delusi dal fallimento del sito lo scorso autunno. La pietra miliare di assistenza sanitaria deve ora scontrarsi con il progetto fiscale conservatore, pubblicato sempre martedì 1° aprile dal Rappresentante Paul D. Ryan, il repubblicano del Wisconsin che guida la commissione Bilancio della Camera e che propone nuovi tagli alla spesa sociale.

Ciò influenzerà il dibattito sulla sanità e l’espansione del medicaid. Ma Nancy Pelosi, la leader democratica, ha detto che la legge sanitaria sarà la questione decisiva nelle elezioni di medio termine di quest’anno, a prescindere dalla intensità degli attacchi mossi dai repubblicani.

Nel suo intervento di martedì pomeriggio, Obama ha detto che i dati relativi alle iscrizioni dovrebbero finalmente porre fine ai ripetuti tentativi da parte repubblicani di abrogarla. Ma in ogni caso gli avversari repubblicani di Obama hanno respinto le notizie delle iscrizioni come irrilevanti e hanno promesso di continuare la loro campagna contro la legge sulla salute.

Lo Speaker repubblicano John Boehner ha detto in un comunicato che i suoi membri continueranno a cercare di abrogare una legge che sta scatenando il “caos sulle famiglie americane, le piccole imprese e la nostra economia”. Il senatore Mitch McConnell del Kentucky, leader della minoranza al Senato, ha definito l’Obama Care “una catastrofe per il Paese” e ha detto di dubitare della validità dei numeri di iscrizione.

È pur vero che i 7,1 milioni di persone, indicati da Obama, non contengono tutte quelle persone che hanno provato, ma non hanno potuto per ragioni tecniche completare le applicazioni. A queste persone dovrebbe essere data la possibilità di completare l’iscrizione perché, se risulteranno senza assicurazione sanitaria, nei prossimi mesi possono essere soggetti a sanzioni fiscali.
E in proposito, Famiglie USA, un gruppo di pressione liberal, ha chiesto una proroga delle iscrizioni fino al 15 aprile 2015 per tutti coloro che per motivi tecnici non sono riusciti a completare l’iter. In quella data, infatti, scatteranno le sanzioni dovute  con le imposte sul reddito. Il prossimo periodo di adesione aperta inizia il 15 novembre e dovrebbe concludersi il 15 febbraio 2015.

Insomma è certamente un successo l’avvio di Obama Care, ma il cammino è costellato ancora da salite impervie di tipo politico e tecnico, che mi auguro l’amministrazione Obama riesca a superare perché ne va dell’intero progetto riformatore. Le elezioni di mezzo termine saranno senza esclusione di colpi e i democratici sanno bene di giocarsi due terzi della loro reputazione e dei loro consensi.

Grazia Labate
Ricercatore in economia sanitaria, già sottosegretario alla Sanità
(Fonte: «Quotidiano Sanità»)

Giornata Mondiale della Salute 2014. Si celebra il 7 aprile. Al centro le malattie trasmesse da vettori

4 aprile 2014

Torna il 7 aprile, anniversario della fondazione dell’OMS, la Giornata Mondiale della Salute. Il tema scelto per il 2014 riguarda le malattie trasmesse da vettori, cioè quelle patologie trasmesse all’uomo da piccoli organismi (i vettori) come le zanzare, le zecche, le cimici e le pulci. Tra gli esempi più noti, vi sono la malaria, la leishmaniosi, la febbre gialla, la tripanosomiasi, la peste, la febbre dengue. “Piccoli morsi, grandi minacce (per la salute, ndr)” è lo slogan che accompagna la Giornata.

Secondo le stime dell’OMS, le malattie trasmesse da vettori costituiscono più del 17% di tutte le malattie infettive e ogni anno, nel mondo, colpiscono oltre un miliardo di persone, causando più di un milione di decessi, soprattutto nelle zone tropicali. Ma “nel tempo – avverte una nota del ministero della Salute, che annuncia le celebrazioni della Giornata Mondiale della Salute -, la potenziale minaccia si è estesa a fasce sempre più ampie della popolazione mondiale, a causa dell’aumento dei viaggi, delle migrazioni e degli scambi commerciali a livello internazionale”, oltre che dai “cambiamenti climatici” che hanno reso più ospitali per questi organismi molti ambienti una volta protetti.

Riprendendo i dati di un documento diffuso dall’Oms per l’occasione, il ministero della Salute ricorda che per la sola febbre dengue le persone a rischio di infezione sono più di 2,5 miliardi in oltre 100 Paesi e che ogni anno, nel mondo, la malaria causa più di 600.000 decessi, la maggior parte dei quali riguarda bambini al di sotto dei 5 anni di età.

Eppure molte di queste malattie sono prevenibili attraverso misure di protezione consapevole. Ma elementi fondamentali della lotta alle malattie trasmesse da vettori sono anche l’accesso all’acqua pulita e ai servizi igienici, così come la modificazione dei comportamenti. Per questo l’Oms invita a mettere in atto anche quei piccoli gesti che permettono di proteggersi da zanzare, zecche, cimici, pulci e altri vettori. “Nessuno nel XXI secolo dovrebbe più morire per il morso di una zanzara o di una mosca”, ha affermato Margharet Chan, direttore generale dell’Oms, lanciando la giornata e ricordando che “ci sono molti semplici interventi dal rapporto costo-efficacia fortemente vantaggioso, come le zanzariere da letto o gli insetticidi. Piccole soluzioni che hanno già salvato milioni di vite”.

Ma fondamentale è anche “l’aumento dei fondi e l’impegno politico a sostegno dei mezzi esistenti per il controllo delle malattie da vettori, come i farmaci o la strumentazione diagnostica”, ha affermato Lorenzo Savioli, direttore del Dipartimento per il Controllo delle Malattie tropicali dimenticate dell’Oms. “Il controllo vettoriale – sottolinea infatti Savioli – rimane lo strumento più importante per prevenir focolai di malattie trasmesse da vettori”.

La lotta contro i vettori dell’Oms andrà poi avanti attraverso le seguenti azioni:
– rendendo disponibili le migliori evidenze scientifiche per il controllo dei vettori e la protezione delle persone dalle infezioni;
– assicurando sostegno e pareri tecnici ai Paesi in modo che siano in grado di gestire efficacemente i casi e le epidemie;
– aiutando i Paesi a migliorare i propri sistemi di notifica e ad avere un quadro reale del carico di malattia;
– organizzando formazione in materia di gestione clinica, diagnosi e controllo dei vettori presso alcuni dei propri centri collaboratori in tutto il mondo;
– sviluppando nuovi strumenti per la lotta ai vettori e la gestione delle malattie, ad esempio prodotti insetticidi e tecnologie di nebulizzazione.

(Fonte:«Quotidiano Sanità»)
(Approfondimenti: http://www.quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=6827236.pdf)

Dna, «identificati gli interruttori dei geni umani». Ora c’è una “carta topografica”

5 aprile 2014

Una mappa come quella che è appena stata pubblicata su «Nature» e altre 16 riviste scientifiche non si era mai vista. Una “carta topografica” delle sequenze di Dna e delle interconnessioni tra geni che permettono a cellule e tessuti del corpo umano di funzionare come dovrebbero. Uno strumento che “permette di definire con precisione quali regioni del genoma si attivano durante la normale attività dell’organismo e quali invece si accendono nei processi patologici, sia che questi riguardino cellule cerebrali sia che interessino pelle, staminali del sangue, follicoli dei capelli e così via”, ha spiegato Winston Hide, docente alla Harvard School of Public Health e co-autore dello studio.

La ricerca è costata 3 anni di fatica a 250 scienziati provenienti da 20 nazioni diverse,> che insieme hanno dato vita al progetto Fantom 5 (acronimo di Functional Annotation of the Mammalian Genome). I ricercatori, usando una tecnologia chiamata Cap Analysis of Gene Expression (Cage), sviluppata nell’Istituto giapponese Riken, a capo del progetto di ricerca, sono riusciti a identificare gli “interruttori on/off” dei geni umani. Si tratta di particolari regioni del Dna, dette promoter (letteralmente promotori) e enhancer (amplificatori), capaci di organizzare l’attività del genoma.

Sebbene tutte le cellule umane contengano lo stesso patrimonio genetico, infatti, i geni si accendono e spengono in momenti diversi in tessuti diversi. Questo processo è controllato per l’appunto dai promoter e dagli enhancer che si trovano lungo tutto il genoma: quando questi interruttori scattano permettono a ogni tessuto di diventare quello che deve e fanno dunque la differenza – ad esempio – tra una cellula della pelle e una del fegato.
Nello specifico lo studio ha mappato il funzionamento di 180 mila promoter e 44 mila enhancer in un ampio spettro di cellule e tessuti nel corpo umano. “Ora abbiamo la capacità di ridimensionare moltissimo la quantità di geni da analizzare ogni volta che ci troviamo di fronte a una specifica patologia”, ha spiegato Hide, concludendo: “Si tratta di una sorta di indirizzario che indica l’esatto punto in cui andare a cercare le varianti genetiche coinvolte nello sviluppo di patologie specifiche, direttamente nei tessuti o negli organi in cui queste agiscono”.

Laura Berardi
(Fonte: «Il Fatto Quotidiano»)
(Approfondimenti: http://www.nature.com/nature/journal/v507/n7493/full/nature13182.html)

Ebola. Timore per il diffondersi del virus in Europa. Negli aeroporti scatta il codice rosso

8 aprile 2014

Un’epidemia in corso in Guinea genera qualche timore per il diffondersi anche in Europa del virus di Ebola. In circa 40 anni dalla sua scoperta, epidemie circoscritte a piccoli focolai in Africa centrale hanno colpito, complessivamente, un migliaio di persone. Ora il virus ha iniziato a diffondersi anche in grandi e popolose metropoli, come la capitale della Guinea e altre città di Sierra Leone, Liberia, Senegal, mettendo a rischio milioni di persone. L’Oms e tante organizzazioni sanitarie stanno confluendo nella zona interessata e si stanno predisponendo ospedali di isolamento dei pazienti infetti. Il codice rosso è scattato negli aeroporti europei di Parigi, Bruxelles, Madrid, Francoforte e Lisbona, principali scali dei voli provenienti dall’Africa. L’Italia non ha scali diretti con il centro Africa, ma passeggeri infetti potrebbero arrivare da altri Paesi europei che non abbiano effettuato dovuti controlli sanitari all’ingresso nel loro Paese.

“Il pericolo maggiore, rispetto al passato – spiega Pierangelo Clerici, presidente Amcli (Associazione microbiologi clinici italiani) – è che purtroppo questa volta il virus non si è fermato ai villaggi rurali, ma ha iniziato a diffondersi in un grande centro urbano dove vivono due milioni di persone e si tratta del ceppo più aggressivo (ceppo Zaire). L’isolamento dei casi non basta ed è fondamentale tracciare la catena di trasmissione. Tutti i contatti dei pazienti che potrebbero essere stati contagiati dovrebbero essere monitorati e isolati al primo segno dell’infezione. L’Italia non ha voli diretti con le capitali dei Paesi attualmente coinvolti dall’epidemia; se da una parte è positivo, dall’altra è un fattore di difficoltà poiché passeggeri infetti potrebbero arrivare dagli scali europei. Sarebbe bene, quindi, che anche l’Italia iniziasse ad attivare misure di attenzione negli aeroporti e nei centri di prima accoglienza. La rete dei laboratori di microbiologia clinica in Italia comprende alcuni centri di riferimento con strutture di alto isolamento e capacità tecniche di diagnosticare queste patologie”

Il virus Ebola si contrae attraverso il contatto diretto con persone e animali infetti e tramite sangue, urine, latte materno. Non si conosce ancora con certezza il serbatoio animale, ma sembra che il pipistrello sia il più probabile. Dopo un periodo d’incubazione che va dai 2 ai 21 giorni, il virus causa una febbre violenta, mal di testa, dolori muscolari, congiuntivite e fiacchezza generale, sintomi che molto spesso fanno pensare alla malaria e fanno iniziare il trattamento col chinino. In un secondo momento, il paziente ha vomito, diarrea e talvolta rash cutaneo. Il virus si diffonde nel sangue causando problemi di coagulazione ed emorragie gravissime. Familiari e operatori sanitari che curano i pazienti sono a elevato rischio di contrarre l’infezione.

Per arginare il fenomeno della trasmissione, alcune compagnie aeree chiedono un certificato sanitario redatto da un medico del posto prima di consentire ai passeggeri africani di salire a bordo di qualsiasi velivolo in partenza per l’Europa.

Edoardo Stucchi
(Fonte: «Quotidiano Sanità»)
(Approfondimenti: http://www.salute.gov.it/portale/news/p3_2_1_1_1.jsp?lingua=italiano&menu=notizie&p=dalministero&id=1547)

Ue. Con lo sviluppo della mobile health nel 2017 si potrebbero risparmiare 99 mld di euro

10 aprile 2014

Dalle app che misurano parametri vitali come la pressione del sangue a quelle che aiutano a somministrare la giusta dose di insulina a un diabetico attraverso la trasmissione di segnali di controllo alla pompa a partire da una piattaforma mobile. Ma pure quelle che ricordano ai pazienti di assumere un farmaco o che danno consigli dietetici e per restare in forma e in buona salute. Questi alcuni esempi, già reali, di cosa vuol dire il mobile health e di come può aiutare a prendersi cura di sé. Ed è proprio per puntare su queste nuove tecnologie che la Commissione europea ha avviato una consultazione sulla sanità mobile, con cui sollecita proposte su come migliorare la salute e il benessere degli europei grazie all’uso di applicazioni installate su telefoni cellulari, tablet, dispositivi per il monitoraggio dei pazienti e altri apparecchi wireless.

Un mercato in piena espansione se è vero che ad oggi sono disponibili quasi 100.000 app di mHealth sulle diverse piattaforme quali iTunes, Google Play, Windows Marketplace e BlackBerry World. Le 20 app gratuite più diffuse per lo sport, la forma e la salute sono già installate su 231 milioni di dispositivi in tutto il mondo. Entro il 2017 saranno 3,4 miliardi le persone in possesso di uno smartphone e la metà di loro utilizzerà app di sanità mobile. Nello stesso anno, sfruttando tutte le potenzialità offerte da questa tecnologia, si potrebbero risparmiare ben 99 miliardi di euro di spese del sistema sanitario.

“La sanità mobile – ha dichiarato Neelie Kroes, Vicepresidente e Commissaria responsabile per l’Agenda digitale – permetterà di ridurre il numero di visite costose in ospedale, di coinvolgere i cittadini nella gestione della propria salute e del proprio benessere e di promuovere la prevenzione. Inoltre, presenta opportunità da sogno per il fiorente comparto economico delle app e per gli imprenditori in questo campo. Personalmente porto già un braccialetto al polso che misura quanto movimento faccio ogni giorno: come vedete, sono già una fan della sanità mobile. Vi invito a rispondere alla consultazione mandandoci idee e proposte che aiutino l’UE a diventare un leader mondiale in questo settore affascinante.”

“La mHealth – ha affermato Tonio Borg, Commissario europeo per la Salute – presenta forti potenzialità, perché permette ai cittadini di occuparsi in prima persona della propria salute e di restare in forma più a lungo e ai pazienti di beneficiare di cure di qualità in condizioni più confortevoli; inoltre, snellisce il lavoro degli operatori sanitari. Per questo esplorare le soluzioni offerte dalla sanità mobile può essere la strada da percorrere per arrivare a sistemi sanitari più moderni, più efficienti e più sostenibili.”

QUALI VANTAGGI OFFRE LA MHEALTH? La mHealth offre tre ordini di vantaggi:
-monitoraggio da parte del paziente e quindi maggiore autonomia e migliore prevenzione dei problemi di salute;
-maggiore efficienza del sistema sanitario con risparmi potenzialmente considerevoli;
-enormi opportunità per i servizi innovativi, le start-up e il promettente comparto delle app.

ALCUNI ESEMPI DI MHEALTH
-app che misurano parametri vitali come la pressione del sangue;
-app che aiutano a somministrare la giusta dose di insulina a un diabetico attraverso la trasmissione di segnali di controllo alla pompa a partire da una piattaforma mobile;
-app che ricordano ai pazienti di assumere un farmaco;
-app che danno consigli dietetici e per restare in forma e in buona salute.

LE QUESTIONI DA AFFRONTARE
Restano da affrontare questioni quali la sicurezza delle app, l’uso dei loro dati, l’assenza di interoperabilità tra le soluzioni disponibili, la scarsa conoscenza della normativa applicabile in questo campo nuovo delle app per il benessere e lo stile di vita, ad esempio le norme in materia di protezione dei dati, e infine il fatto che i soggetti interessati non sanno se le app siano dispositivi medici e debbano ottenere il marchio CE. Per questo è importante creare un clima di fiducia tra i professionisti della salute e il cittadino e aiutare le persone a fare un uso efficace dei servizi della sanità mobile.

DOMANDE POSTE DALLA CONSULTAZIONE
Sono invitati a rispondere alla consultazione, entro il 3 luglio 2014, le associazioni di consumatori e di pazienti, gli operatori sanitari, gli ospedali e altre strutture sanitarie, le autorità pubbliche, gli sviluppatori di app, i fornitori di servizi di telecomunicazione, i produttori di dispositivi mobili, singoli individui e tutte le parti interessate.

Ecco alcune delle domande poste:
-A quali requisiti di sicurezza e prestazione devono conformarsi le app per il benessere e lo stile di vita?
-Quali garanzie di sicurezza possono proteggere i dati sanitari scambiati nel contesto della sanità mobile?
-Qual è il modo migliore per promuovere lo spirito imprenditoriale in Europa nel settore della sanità mobile?

Le risposte devono pervenire entro il 3 luglio 2014, via e-mail o per posta al seguente indirizzo:
Commissione europea, DG Reti di comunicazione, contenuti e tecnologie Unità H1, Salute e benessere Avenue de Beaulieu/Beaulieulaan 31, Bruxelles/Brussel 1049 – Belgio.

La Commissione pubblicherà una sintesi delle risposte nel quarto trimestre del 2014 e prevede di intraprendere eventuali azioni politiche nel 2015.

(Fonte: «Quotidiano Sanità»)
(Approfondimenti: http://www.quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=3838073.pdf)

Anche i maschi soffrono di anoressia

10 aprile 2014

Saranno le modelle filiformi da cui prendono spunto le campagne contro l’anoressia, ma la percezione diffusa che solo le donne hanno disturbi alimentari scoraggia gli uomini che ne soffrono dal chiedere aiuto, secondo uno studio pubblicato sul «British Medical Journal Open». «Circa una donna su 250 e un uomo su 2.000 nel Regno Unito soffrono l’anoressia nervosa, e l’incidenza di disturbi alimentari è in aumento nel sesso maschile» dice Ulla Räisänen, ricercatrice al Nuffield Department of Primary Care Health Sciences dell’Università di Oxford, che assieme ai colleghi ha intervistato 39 giovani di età compresa tra i 16 e i 25 anni, di cui 10 uomini, per valutare l’impatto di genere su diagnosi e trattamento dei disturbi alimentari.

E i dati raccolti dimostrano che gli uomini hanno maggiori difficoltà delle donne addirittura nel comprendere che alcuni dei loro comportamenti possono essere segni o sintomi di un disturbo alimentare. Qualche esempio? Stare giorni senza mangiare, provocarsi il vomito, contare ossessivamente le calorie, pesarsi più volte al giorno. «I media ci hanno abituato a pensare che l’anoressia è un problema femminile, specie delle adolescenti» ha osservato un giovane uomo che ha preso parte allo studio. «Per questo non credevo che alcuni miei comportamenti potessero essere espressione di un disturbo analogo» ha aggiunto.

«Nessuno dei partecipanti conosceva i sintomi dei disturbi alimentari, e gli amici, la famiglia e gli insegnanti pensavano che le modifiche dello stile di vita fossero frutto di scelte personali, e non espressione di una malattia. La comprensione veniva solo dopo un episodio acuto, magari un ricovero in pronto soccorso» dice Räisänen, puntualizzando che gli uomini con disturbi alimentari non cercano aiuto perché temono di non essere presi sul serio dagli operatori sanitari o, più semplicemente, perché non sanno a chi rivolgersi. «Le patologie dell’alimentazione nel sesso maschile sono poco sentite, sottodiagnosticate e sottotrattate» commenta la ricercatrice. E conclude: «Per migliorare le cose la diagnosi precoce è fondamentale anche negli uomini: non solo i disturbi alimentari costano al servizio sanitario britannico tra 50 e 70 milioni di sterline l’anno, ma tra le condizioni psichiatriche adolescenziali, l’anoressia nervosa ha la mortalità più alta».

(Fonte: «Doctor 33»)
(Approfondimenti: http://bmjopen.bmj.com/content/4/4/e004342.abstract)

Aviaria e Tamiflu. Il Cochrane: «Soldi spesi inutilmente. Quel farmaco non è efficace». Ma Roche replica: «Analisi parziale, esaminati solo 20 studi su 77 disponibili»

11 aprile 2014

C’è stato un momento, sul finire della prima decade del 2000, in cui nessuno più in Italia mangiava pollo, che languiva a pacchi sugli scaffali dei supermercati, nonostante sconti incredibili. Inevitabile, con quelle immagini che ti propinava il Tg alle ore dei pasti: stragi di interi allevamenti di polli, anatre e volatili di vario tipo infettati dall’influenza aviaria, in Cina e nel sud-est asiatico per lo più, ma poi anche da noi. Stessa scena da Armageddon negli aeroporti: ad accoglierti c’erano operatori con mascherine da guerra biologica pronti a ‘spararti’ il laser del termometro in fronte, per scoprire se fossi un ‘contagiato’; e tutti a trattenere colpi di tosse o starnuti per timore di essere additati come untori.

E intanto gli esperti disegnavano scenari da incubo, roba da far impallidire la pandemia di ‘spagnola’, che nel 1918 aveva decimato 50-100 milioni di persone, pari al 3-5% della popolazione mondiale. Qualcuno, tra i più arditi, in quei giorni di ‘terrorismo psicologico’ al rialzo, si spinse a prevedere una pandemia da un miliardo di persone.

In questo clima da fine del mondo o da guerra biologica (si, c’era anche chi aveva messo in giro questa voce), tutti si preoccupavano di fare incetta dell’antidoto, del farmaco in grado di salvarli dalla temibile quanto mortale influenza aviaria, che così, a differenza di quanto accadeva nei supermercati con i petti di pollo, sparì dagli scaffali di tutte le farmacie in men che non si dica. E d’altronde, la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità, pur sottolineando che questi anti-virali non fossero mai stati testati su casi di influenza aviaria, né come trattamento, né come profilassi dei contatti, li indicava come strategia terapeutica da adottare in caso di pandemia.

Su questo sfondo di psicosi collettiva, le autorità sanitarie dei Paesi di tutto il mondo, sono state chiamate a fare la loro parte contro la peste del Terzo millennio, disegnando piani d’emergenza degni di una vera guerra biologica e naturalmente facendo incetta degli anti-virali, che la ricerca aveva indicato come in grado di abbattere l’infezione e di limitare il contagio. Il tutto a tempo di record, tra la preoccupazione che la minaccia della pandemia fosse più che reale e il timore, mai espresso ma certamente ben presente, della gogna mediatica, qualora si fossero fatti trovare impreparati di fronte ad un’evenienza del genere.

Col senno di poi, si può dire che quell’epidemia non c’è mai stata (dal 2003 ad oggi i casi di H5N1 nell’uomo, riportati dall’OMS sono 650, di cui 386 mortali) e che probabilmente questo virus impiegherà qualcosa più che qualche mese o anno a scalare la scala biologica, passando dai polli, ai mammiferi da cortile per arrivare all’uomo in numeri da pandemia (ma naturalmente è sempre bene non abbassare la guardia). Ma intanto, le autorità sanitarie di 100 Paesi, in quel momento di allarme rosso, hanno fatto il loro dovere e quello che la gente si aspettava da loro: mettere in atto tutte le misure per proteggere la salute dei cittadini, secondo quella che all’epoca veniva indicata dagli esperti come la strategia più efficace.

Una strategia affidata al nome di un farmaco anti-virale, l’oseltamivir, comprato in stock da milioni di pezzi e immagazzinato, non senza qualche difficoltà, nei depositi di tutto il mondo. Fino a quando, alla sua scadenza, è stato eliminato, come qualunque farmaco scaduto. Le polemiche sulla quantità ingente di soldi spesi per il suo acquisto (1,3 miliardi di dollari in Usa e 242 milioni di sterline in Inghilterra) e per i presunti o reali conflitti di interesse dietro il commercio di Tamiflu evidenziati in certi Paesi (negli Usa, ad esempio) si sono scatenate da subito e sono da allora periodicamente riaffiorate.
Ma adesso c’è anche chi sostiene, studi alla mano, che quel farmaco, considerato un salvavita nel momento del panico da epidemia, in realtà non sarebbe neppure efficace.

Una revisione fatta dalla Cochrane e pubblicata da «Cochrane Collaboration» e da BMJ il 10 aprile sostiene che il Tamiflu sarebbe in grado di abbreviare il decorso dell’influenza al massimo di un giorno e mezzo e che non ci sarebbero prove di una sua utilità nel ridurre le complicanze correlate all’influenza, né i ricoveri. In più il farmaco sarebbe gravato da effetti collaterali quali nausea e vomito (nel 4-5% dei trattati), ma anche cefalea, disturbi psichiatrici e complicanze renali. La stessa revisione osserva anche che questo farmaco, usato in prevenzione riduce i sintomi dell’influenza, ma che non è chiaro se sia in grado di ridurre i portatori del virus e dunque il suo contagio.

La review «Neuraminidase inhibitors for preventing and treating influenza in healthy adults and children» ha preso in considerazione 20 trial sul Tamiflu (oseltamivir) e 26 sul Relenza (zanamivir), per un totale di 24 mila persone. Per scrivere il loro rapporto, gli esperti di Cochrane si sono avvalsi dei file completi dei vari studi pubblicati, messi a disposizione dalle aziende produttrici, Roche per il Tamiflu e GlaxoSmithKline per Ralenza. I risultati, come visto, mettono in discussione il fatto che gli inibitori delle neuroaminidasi siano efficaci nel combattere l’influenza e nel prevenire il contagio interpersonale.

Cochrane si definisce “un’organizzazione internazionale, che ha lo scopo di aiutare la gente a prendere decisioni ben informate relative a questioni di salute, preparando, mantenendo e assicurando l’accesso a revisioni sistematiche sugli effetti di vari interventi sanitari”. Insomma quel che si dice una voce autorevole e indipendente.
E dunque Cochrane e il BMJ hanno rilasciato un comunicato congiunto nel quale chiedono ai governi e alle autorità sanitarie se, alla luce di questi risultati, oggi prenderebbero ancora la decisione di fare scorte di Tamiflu, di fronte al pericolo di una pandemia influenzale.

Tom Jefferson, Carl Heneghan e Peter Doshi, gli autori della review, sottolineano che non sarebbero mai potuti arrivare a queste conclusioni, basandosi sui soli risultati pubblicati; “avere a disposizione i dati completi di un trial, anche quelli non pubblicati – sostengono gli autori – dovrebbe diventare obbligatorio dunque perché l’autorizzazione di un farmaco e il suo impiego non si possono più basare su informazioni incomplete. Ma non si fermano qui. “Invitiamo dunque la gente a non fidarsi solo degli studi pubblicati o dei commenti rilasciati da decisori sanitari in conflitto di interesse, ma a prendere visione diretta delle informazioni”.

“Questa revisione – aggiunge Fiona Godlee, direttore di BMJ – è il risultato di molti anni di lotte per poter accedere e utilizzare i dati dei trial che rimangono non pubblicati e dunque nascosti. È evidente che qualunque decisione futura sull’acquisto e l’impiego dei farmaci, in particolare se di massa, dovrà basarsi sul quadro completo delle evidenze, sia quelle pubblicate che non. E naturalmente abbiamo bisogno della collaborazione di tutte le aziende farmaceutiche”.

E la risposta di Roche non si è fatta attendere.“Roche non concorda con le conclusioni del Gruppo Cochrane Acute Respiratory Infections Group’s (ARI) relativamente al report su Oseltamivir (Tamiflu). Roche ribadisce fermamente la qualità e l’integrità dei dati sul farmaco, che riflettono non solo le decisioni di 100 autorità regolatorie in tutto il mondo, ma la stessa real-world evidence, la quale dimostra come Oseltamivir (Tamiflu) sia un farmaco efficace nella prevenzione e nel trattamento dell’influenza.

Il rapporto Cochrane non ha preso in considerazione la totalità dei dati disponibili per Oseltamivir, includendo nella sua revisione solo 20 dei 77 trial a loro disposizione ed escludendo dalla loro analisi i dati real world degli studi osservazionali. Questo provoca una errata rappresentazione dell’efficacia e della sicurezza di un farmaco approvato contro l’influenza e mina il consenso di salute di pubblica globale. Ci auguriamo che vengano fatte ricerche da parte i terzi e ci impegniamo a condividere i dati clinici relativi ai nostri farmaci nell’interesse dell’avanzamento della scienza. Tuttavia non consideriamo un’autorità nel campo del valore degli inibitori delle neuroaminidasi il gruppo Cochrane ARI, che si è auto-definito come ‘inesperto nel gestire un’ampia quantità di informazioni all’interno di uno studio clinico’. Roche si augura dunque che le autorità sanitarie e gli esperti nel campo dell’influenza forniscano la loro opinione in merito, accanto alla totalità dei dati disponibili per Oseltamivir, prima di trarre alcuna conclusione”.

È infine delle scorse settimane la pubblicazione, su «Lancet Respiratory Medicine», di una meta analisi supportata da Roche, riguardante 78 studi per un totale di 30.000 pazienti ricoverati per influenza AH1N1pdm09 da marzo 2009 ad agosto 2010, in ospedali di tutto il mondo, che è arrivato a conclusioni molto diverse; in questo studio infatti l’impiego precoce di Oseltamivir ha prodotto un abbattimento del 19% dei decessi tra gli adulti, rispetto ai non trattati.

Insomma, sulla saga oseltamivir, non è ancora calato il sipario.

Maria Rita Montebelli
(Fonte: «Quotidiano Sanità»)
(Approfondimenti:
http://www.quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=6247920.pdf
http://www.thelancet.com/journals/lanres/article/PIIS2213-2600%2814%2970041-4/abstract)

Quando il trauma dentale può essere conseguenza di violenza. Da JAMA le linee guida per il trattamento odontoiatrico

11 aprile 2014

Qualche settimana fa l’AIO aveva lanciato la proposta di un registro nazionale dei traumi infantili evidenziando che i dentisti possono individuare e denunciare situazioni di maltrattamento. Ma come fare a riconoscerli?

Sul numero di marzo di «JAMA» (Journal of the American Dental Association) Sheela Raja, psicologa, ha pubblicato un articolo con le linee guida (trauma-informed care pyramid) per il trattamento di questi pazienti. Raja, professore Associato alla University of Illinois, ha condotto una ricerca con un gruppo di Medici ed Odontoiatri presso il Dipartimento di Odontoiatria Pediatrica del suo ateneo a cui afferiscono pazienti da tutta l’area metropolitana di Chicago.
Le vittime di violenza domestica possono rivolgersi al dentista per essere curate, ricorda Raja. Nel 50% dei casi di violenza sono presenti lesioni oro-facciali o al capo in genere. La cavità orale è anche un sito bersaglio dalla violenza sessuale sui minori.
Ogni volta che ci troviamo di fronte a una lesione oro-facciale, e la spiegazione dell’accaduto non sembra convincente, occorre sospettare la violenza.
A questo punto l’approccio è fondamentale, suggerisce la prof.ssa Raja. La vittima di abusi solitamente ha dei meccanismi di difesa, sviluppa ansia e tende a non fidarsi del normale approccio terapeutico; il fatto di essere “toccati”, di utilizzare un aspirasaliva o altri strumenti può evocare ossessivi ricordi traumatici.

Per orientare il dentista generico Raja e il suo team hanno messo a punto una guida al trattamento “il trauma-informed care pyramid” che si articola su tre livelli:

1° step: il primo approccio si basa su uno stretto controllo della situazione utilizzando la tecnica classica del “tell, show, do” (parla, mostra ciò che farai e agisci), mostrando la carrellata delle possibilità terapeutiche. Tutto questo aiuta a tranquillizzare e a creare un clima  di fiducia.

2° step: comprendere gli effetti che il trauma ha avuto sulla salute del paziente eventualmente con la collaborazione di altri specialisti; creare una rete di professionisti interni o esterni allo studio a cui richiedere se necessario la consulenza. Il paziente ha un vissuto di eventi stressanti nella vita, l’approccio “non giudicante” e l’ascolto attivo sono la base per instaurare l’alleanza terapeutica.
Il dentista dovrebbe avere una formazione specifica per comunicare in modo assertivo e non lasciarsi coinvolgere emotivamente dalla storia e dai vissuti del paziente.

3° step: la valutazione delle conseguenze del trauma sulla salute orale e la formulazione di un piano di trattamento odontoiatrico.

a cura di: Davis Cussotto, odontoiatria libero professionista Twitter@DavisCussotto

(Fonte: «Odontoiatria 33»)
(Approfondimenti: http://www.odontoiatria33.it/cont/pubblica/attualita/contenuti/6654/chiede-registro-nazionale-traumi-infantili-delogu-dentisti.asp)

Clima, l’Ipcc: «Emissioni gas serra a livelli record nonostante gli sforzi»

13 aprile 2014

Le emissioni di gas serra hanno raggiunto un livello record. Sono in aumento rispetto al passato, nonostante gli sforzi. È quanto emerge dal nuovo rapporto sul clima presentato il 13 aprile a Berlino dal Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (Ipcc) creato dalle Nazioni Unite. Secondo gli scienziati tra il 2000 e il 2010 le emissioni sono aumentate più rapidamente dei tre decenni precedenti. Per arrivare al risultato presentato il 13 aprile gli esperti hanno analizzato oltre 1200 scenari possibili, elaborati da 31 team internazionali.

“Dalla scienza arriva un messaggio chiaro: per evitare pericolose interferenze con il sistema climatico occorre smettere di avere un atteggiamento di sottovalutazione“, ha detto il tedesco Ottmar Edenhofer, presidente del gruppo di lavoro insieme al cubano Ramón Pichs-Madruga e alla maliana Youba Sokon.

Serve un “trasferimento massiccio” dall’uso intensivo dei combustibili fossili alle energie rinnovabili entro i prossimi 16 anni per poter ancora invertire il riscaldamento globale in atto. “C’è bisogno di un grande cambiamento nel settore dell’energia, e questo è vero oltre ogni ragionevole dubbio”, ha dichiarato il climatologo Jim Skea, uno dei firmatari del rapporto, alla BBC, sottolineando che “fra i principali interventi necessari vi è quello per la sostituzione del carbone con il gas nella produzione di energia elettrica”. Altrimenti, entro il 2100 le temperature medie globali aumenteranno fra 3,7 e 4,8 gradi, molti di più quindi dei due gradi considerati come soglia per cambiamenti irreversibili sul pianeta. Nel rapporto, frutto di intensi negoziati durati fino a tarda notte con l’usuale scontro fra rappresentanti di Paesi emergenti e quelli dei Paesi occidentali, si sottolinea il ruolo come “tecnologia ponte” del gas nei prossimi decenni, per lasciare petrolio e carbone prima di introdurre ovunque energie rinnovabili.

Attraverso una serie di importanti misure politiche e sviluppi tecnologici, gli scienziati ritengono che si possa limitare l’aumento della temperatura globale. Entro il 2050 le emissioni devono essere tagliate di una percentuale tra il 40 per cento e il 70 per cento rispetto ai valori del 2010, per poi arrivare a un valore prossimo allo zero entro la fine del secolo.
Chiave di questo passaggio è la transizione verso l’energia pulita che porterà a una riduzione della crescita mondiale pari allo 0,06% all’anno. “Il costo non è qualcosa che provocherebbe grandi disagi al sistema economico, è alla nostra portata”, ha detto ad Associated Press Rajendra Pachauri, presidente del panel, aggiungendo che invece ritardare l’intervento sul clima potrebbe essere più costoso. ”Non significa che il mondo deve sacrificare la crescita per salvare l’ambiente. È un ritardo della crescita economica, ma non è un sacrificio”, ha precisato in proposito il Edenhofer. Tra l’altro, hanno aggiunto gli scienziati durante la conferenza stampa, questo scenario non tiene conto dei benefici economici che deriverebbero dalla limitazione dei fenomeni atmosferici estremi e dall’inquinamento dell’aria che respiriamo.

L’Italia e l’Unione europea, attraverso le direttive degli ultimi anni, sono tra le realtà “più avanzate” al mondo nel contrasto al surriscaldamento globale, ha spiegato Sergio Castellari, delegato del governo italiano all’Ipcc. “L’Italia – ha aggiunto – segue le direttive europee sul 20-20-20″, ossia ridurre del 20 per cento le emissioni di gas serra, portare al 20 per cento il risparmio energetico e aumentare al 20 per cento il consumo da fonti rinnovabili entro il 2020. Inoltre negli ultimi anni in Italia, come in Germania, “la crescita della produzione di energia da fonti rinnovabili è stata molto forte” ha detto.

Secondo Castellari una della cause più significative dell’aumento dei gas serra registrato dal rapporto Ipcc, “il dato più rilevante”, è l’uso ancora intensivo di carbone, che ha prezzi interessanti, da parte di Paesi che stanno riducendo le fonti nucleari, come la Germania, e da parte di alcuni Paesi asiatici.

(Fonte: «Il Fatto Quotidiano»)
(Approfondimenti:http://report.mitigation2014.org/spm/ipcc_wg3_ar5_summary-for-policymakers_approved.pdf)

Studio australiano boccia l’omeopatia. Bernardini (Siomi): diatriba infinita

14 aprile 2014

«Non vi sono evidenze affidabili che l’omeopatia sia efficace per trattare condizioni di salute». A questa conclusione è giunta un’analisi del National Health and Medical Research Council (Nhmrc), in Australia che ha incaricato un comitato di esperti medici di passare al vaglio studi sistematici sull’omeopatia e rapporti governativi, riguardanti 68 diverse condizioni di salute fra cui asma, eczema, dolore lombare, nausea, depressione, malaria, colera, Hiv e tossicodipendenze.

L’analisi ha portato a concludere che l’omeopatia non è più efficace di un placebo; non vi sono evidenze affidabili che possa curare patologie e che le persone che scelgono l’omeopatia invece di un trattamento convenzionale provato mettono a rischio la propria salute, se respingono o ritardano terapie basate sull’evidenza a favore di trattamenti omeopatici. Risultati che hanno acceso subito un vasto dibattito.

«Ovviamente conosciamo l’effetto placebo. Sappiamo che molte malattie per loro natura sono di breve durata e l’organismo stesso le cura, quindi è molto facile cadere nella trappola secondo cui poiché il paziente ha fatto A, ne segue B», ha detto l’immunologo John Dwyer, dell’Università del Nuovo Galles del sud, cofondatore dell’osservatorio Friends of Science in Medicine. «Le conclusioni del Nhmrc sono particolarmente importanti in materia di vaccinazioni – ha aggiunto – alla luce di asserzioni pericolosamente fuorvianti di omeopati secondo cui i loro “vaccini” possono essere sostituiti in modo sicuro alle preparazioni standard, scientificamente convalidate».

Sul fronte nostrano Simonetta Bernardini, Presidente della Siomi (Società Italiana di Omeopatia e Medicina Integrata) parla di «diatriba infinita». «Per me, che sono abituata a leggere come direttore scientifico di Omeopatia33 tutti i lavori di ricerca che dimostrano gli effetti favorevoli dell’omeopatia» spiega Bernardini «oppure studi incontrovertibili che dimostrano l’attività diversa dal placebo di diluizioni omeopatiche finanche sui geni delle cellule, viene da pensare che si vede quel che si vuole vedere evitando di leggere lavori di ricerca che ci farebbero vedere altre cose». Per il presidente di Siomi al limite il problema sta nella professionalità di chi la pratica. «Ad esempio in Australia a prescrivere i medicinali omeopatici non sono solo medici e questo è sbagliato e può mettere a rischio la salute dei cittadini» conclude.

Marco Malagutti
(Fonte: «Doctor 33»)

Autismo. Scoperte nuove interazioni tra geni. I ricercatori: «Uno sguardo senza precedenti su come i geni sono connessi»

15 aprile 2014

Le proteine coinvolte nel disturbo interagiscono con un numero di altre proteine molto maggiore di quello che si pensava finora: così un nuovo aspetto legato all’autismo è stato scoperto il 15 aprile dall’Università della California (UC) San Diego Health Science, del Center for Cancer Sistems Biology (CCSB) a Boston, insieme ad altri Centri. Lo studio è pubblicato su «Nature Communications».
Gli scienziati hanno isolato centinaia di nuove varianti di geni legati all’autismo ed hanno effettuato un’analisi delle proteine corrispondenti a tali geni, per identificare le interazioni con i loro partner, cioè con le altre proteine. Il risultato? Un network genetico molto vasto rispetto alla diffusione di connessioni genetiche.

“Aggiungendo al network le forme di splicing (letteralmente ‘montaggio’ – si tratta di un particolare processo coinvolto nella formazione dell’RNA maturo) appena scoperte di geni legati all’autismo, il numero totale di interazioni è raddoppiato”, ha spiegato Lilia Iakoucheva, PhD, Assistant Professor presso il Dipartimento di Psichiatria della UC San Diego. In alcuni casi, tali varianti hanno interagito con una serie completamente diversa di proteine. “Da questa rete osserviamo che le diverse forme della stessa proteina potrebbero alterare il collegamento dell’intero sistema”.

“Questa è la prima rete di interazione delle dimensioni del proteoma (insieme delle proteine dell’organismo) che include varianti di splicing alternativo”, ha osservato il Dottor Marc Vidal, direttore del Center for Cancer Sistems Biology (CCSB) a Boston e co-investigator dello studio. “Il fatto che varianti proteiche producano modelli di interazione così diversi è emozionante e piuttosto inaspettato”.

Gli scienziati hanno dimostrato che una classe di mutazioni genetiche coinvolte nell’autismo, chiamate Copy Number Variations (CNVs – Variazioni del Numero di Copie) coinvolgono geni che sono strettamente collegati tra loro in maniera diretta oppure indiretta attraverso un partner comune. Questo aspetto “suggerisce che le vie biologiche condivise possono essere interrotte in pazienti con differenti mutazioni autismo” ha sottolineato il co-primo autore Guan Ning Lin, nel laboratorio di Iakoucheva.

Dunque, la rete di proteine coinvolte risulta ora più vasta e questa scoperta rappresenta una nuova risorsa scientifica per studi futuri sull’autismo, secondo Iakoucheva. “Ad esempio, ha affermato la ricercatrice, questa rete fornisce una collezione di oltre 400 varianti di splicing di geni candidati per l’autismo, che potrebbe essere utilizzata da altri ricercatori, interessati a studiare una specifica variante proteica. Alcuni dei partner proteici con una stretta connessione al network potrebbero anche rappresentare potenziali bersagli farmacologici, sottolineano i ricercatori”. Tutti i dati relativi a tali interazioni verranno inseriti nel National Database of Autism Research.

“Possiamo cominciare a studiare in che modo le mutazioni recentemente scoperte nei pazienti possono interrompere questa rete”, ha concluso Iakoucheva. “Questo è un compito importante, perché il meccanismo con cui le proteine mutate contribuiscono all’autismo è tuttora sconosciuto nel 99,9% dei casi”.

Viola Rita
(Fonte: «Quotidiano Sanità»)
(Approfondimenti:
http://www.nature.com/ncomms/2014/140411/ncomms4650/pdf/ncomms4650.pdf)

La bicicletta “salva vita”. L’Oms: «In Europa potrebbe evitare 10 mila morti e creare oltre 76mila posti di lavoro ogni anno»

16 aprile 2014

Oltre ad essere un’attività fisica e ricreativa, se ci si riferisce al modello di Copenaghen, l’abitudine ad andare in bicicletta ogni anno potrebbe fornire 76.600 nuovi posti di lavoro e salvare la vita a circa 10 mila persone nelle principali città europee, rappresentando allo stesso tempo una fonte di sostentamento e di benessere. Sono le stime presentate in occasione del Fourth High-level Meeting on Transport, Health and Environment, a Parigi fino al 16 aprile, un Meeting organizzato dalla Commissione Economica per l’Europa delle Nazioni Unite (UNECE) e dall’Ufficio regionale europeo dell’OMS. In questa occasione i Ministeri europei dei Trasporti, della Salute e dell’Ambiente, riuniti a Parigi, esaminano in che modo le politiche di trasporto innovative sono in grado di creare opportunità di lavoro, insieme con società più sane e più verdi.

“Un sistema di trasporto efficiente è essenziale per il funzionamento delle economie moderne. Tuttavia, esso può danneggiare notevolmente l’ambiente e la salute. Ecco perché chiediamo una vigorosa dichiarazione di Parigi, sollecitando investimenti governativi nel settore del trasporto verde e sano”, afferma Zsuzsanna Jakab, Direttore Regionale OMS per l’Europa. “Il vantaggio di questi investimenti è enorme e comprende nuovi posti di lavoro e persone più sane grazie ad una maggiore attività fisica, meno incidenti stradali, meno rumore e una migliore qualità dell’aria”.

I costi complessivi associati all’impatto ambientale e sulla salute possono raggiungere il 4% del PIL di un Paese, secondo le stime riportate in occasione del Meeting. Ogni anno, nelle regioni Oms appartenenti all’Europa, l’inquinamento, dovuto soprattutto al traffico stradale, è coinvolto in almeno 500 mila morti, in accordo con i dati riferiti, mentre gli incidenti stradali causano 90 mila morti premature. E non è tutto, dato che l’esposizione ad un troppo elevato rumore stradale ha effetti negativi su circa 70 mila persone, mentre in Europa ed America del Nord, il trasporto, che aumenta del 24% le emissioni di gas serra, contribuisce alla morte di quasi 1 milione di persone all’anno.

Sul modello di Copenaghen, tra le principali città in cui il ciclismo è più diffuso – ‘battuta’ solo da Amsterdam – gli esperti stimano che potrebbero crearsi 76.600 posti di lavoro addizionali, nel settore della vendita e della manutenzione delle biciclette, nella fornitura di abbigliamento e accessori per i ciclisti e nella realizzazione di nuovi piani di mobilità, supportando le economie locali.

“Il trasporto, la salute e l’ambiente formano un nesso dinamico tra vitalità e mobilità nelle nostre città, presentando una sfida formidabile per la sostenibilità, ma anche grandi opportunità per una migliore qualità della vita”, dice Eva Molnar, Direttore, Transport Division, UNECE, parlando a nome di Michael Möller, Acting Executive Secretary dell’UNECE. Questo Meeting “invita gli Stati membri, la società civile e le autorità locali e regionali a sostenere la visione futura di «THE PEP THE PEP» (Transport, Health and Environment Pan-European Programme: Green and healthy mobility and transport for sustainable livelihoods for all)”.

Viola Rita
(Fonte: «Quotidiano Sanità»)
(Approfondimenti: >http://www.quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=5251991.pdf)

«Droghe legali». Parlamento Ue approva progetto di legge per vietarle

17 aprile 2014

Sono vendibili sia in strada che su internet; nel 2012 ne sono state censite 251 tipi diversi. Stiamo parlando delle cosiddette droghe legali: nel 2011 un sondaggio dell’Eurobarometro ha rilevato che il 5% degli europei tra i 15 e i 24 anni di età ha utilizzato tali sostanze almeno una volta, con un picco del 16% in Irlanda e quasi il 10% in Polonia, Lettonia e Regno Unito.

Così il Parlamento Ue, accogliendo il progetto di legge avanzato lo scorso settembre anche dalla Commissione, ha approvato un progetto legislativo per garantire che le sostanze psicoattive dannose, conosciute come “droghe legali”, siano ritirate rapidamente dal mercato dell’UE.

I deputati vogliono proteggere la salute e la sicurezza dei giovani, garantendo, nel contempo, che il commercio delle sostanze a basso rischio per usi industriali non sia ostacolato. I criminali che violano il divieto sulle sostanze più dannose rischierebbero fino a dieci anni di carcere.

Le norme mirano a fermare la rapida diffusione dell’uso ricreativo delle nuove sostanze psicoattive che hanno effetti simili a droghe illegali come ecstasy e cocaina. Queste cosiddette “droghe legali”, o “legal highes” in inglese, sono particolarmente popolari tra i giovani.

Ma vediamo alcune misure approvate:

DIVIETO A LIVELLO EUROPEO ENTRO 10 MESI  – Il tempo necessario per valutare e vietare le sostanze dannose dal mercato europeo sarebbe ridotto dagli attuali 2 anni a 10 mesi. In caso di rischio immediato, un divieto temporaneo di un anno potrebbe essere introdotto nel giro di settimane. Tale divieto temporaneo garantirebbe l’impossibilità di trovare una sostanza sul mercato per gli utenti che ne fanno uso ricreativo, dando cosi il tempo all’Agenzia europea per le droghe di eseguire una valutazione completa dei rischi.

In base alle norme vigenti, non è possibile imporre un divieto temporaneo e la Commissione deve attendere una relazione di valutazione completa dei rischi prima di proporre di vietare una sostanza.

SOSTANZE AD ALTO, DISCRETO E BASSO RISCHIO –  Le sostanze che creano un grave rischio a livello europeo (quelle che causano morte e possono portare alla diffusione di malattie gravi) sarebbero soggette a limitazioni di vendita per proteggere gli utenti. Il loro uso dovrebbe essere autorizzato solo per scopi specifici, o per la ricerca e lo sviluppo scientifico (alcune di queste sostanze sono utilizzate in maniera utile e legittima, per esempio nella produzione di farmaci e nelle industrie chimiche o high-tech).

Come le droghe illegali, le sostanze ad alto rischio sarebbero soggette al diritto penale. I reati che coinvolgono tali sostanze, commessi da organizzazioni criminali, sarebbero punibili con almeno dieci anni di reclusione. Queste norme di diritto penale sarebbero dirette esclusivamente ai produttori, fornitori e distributori, piuttosto che ai singoli consumatori, sottolineano i deputati, fatto salvo il diritto degli Stati membri di criminalizzare il possesso di droghe per uso personale a livello nazionale.

Le sostanze che presentano un rischio discreto a livello UE saranno ritirate dal mercato dei consumatori, ma potrebbero continuare a essere commercializzate a fini industriali e commerciali. Se, tuttavia, una di queste sostanze creasse maggiori rischi in un altro Stato membro piuttosto che altrove, quel Paese può “mantenere o introdurre misure più rigorose per garantire un elevato livello di salute pubblica”, secondo quanto approvato dai deputati. I rischi delle nuove sostanze saranno valutati dall’Agenzia europea sulle droghe. Tutte le restrizioni, temporanee e permanenti, saranno approvate dalla Commissione.

IL VOTO IN AULA –  Esito della votazione sulle nuove sostanze psicoattive (relazione Protasiewicz): 507 voti a favore, 37 contrari e 33 astensioni. Esito della votazione sulle sanzioni (relazione Jiménez-Becerril): voti favorevoli 504, 36 contrari e le astensioni 36.

LE PROSSIME TAPPE  – Il Parlamento ha votato in prima lettura il progetto di legge per consolidare il lavoro svolto finora e trasmetterlo al prossimo Parlamento. Ciò assicura che i deputati neo-eletti a maggio potranno decidere di continuare il lavoro svolto in questa legislatura.

L.F.
(Fonte: «Quotidiano Sanità»)

La Pet riesce a capire chi potrà recuperare la coscienza?

18 aprile 2014

Secondo uno studio pubblicato su «The Lancet» la tomografia a emissione di positroni (Pet) è in grado di scoprire quali individui in stato vegetativo per gravi danni cerebrali potranno recuperare uno stato di coscienza.

«I dati raccolti indicano che la Pet può rivelare processi cognitivi invisibili attraverso il normale esame clinico, aiutando i medici a identificare i pazienti con possibilità di recupero a lungo termine» spiega Steven Laureys dell’Università di Liegi, in Belgio, che ha coordinato lo studio.

Nei gravi cerebrolesi valutare il livello di coscienza è tutt’altro che semplice. Tradizionalmente, l’esame clinico serve a verificare se i pazienti sono in uno stato di minima coscienza (Mcs), in cui vi è qualche evidenza di consapevolezza e di risposta agli stimoli, oppure in stato vegetativo (Vs), definizione ormai sostituita da una terminologia più consona alle acquisizioni scientifiche, ovvero Unresponsive Wakefulness Syndrome (Uws), sindrome della veglia senza risposta, dove la capacità di recupero è minore.  «Talvolta il paziente cerebroleso ha processi cognitivi in stato di attivazione parziale non rilevabili all’esterno in quanto insufficienti ad elaborare la comunicazione. E ciò presuppone aree corticali e sottocorticali del circuito cosciente funzionalmente attive» sottolinea Laureys.

Lo studio ha valutato se due tecniche di imaging funzionale del cervello, la PET con fluorodeossiglucosio (Fdg-Pet) e la risonanza magnetica funzionale (fMRI) fossero in grado di distinguere tra Vs e Mcs in 126 pazienti con gravi lesioni cerebrali. E a conti fatti, l’Fdg -Pet si è rivelata meglio della risonanza funzionale nel distinguere i minimamente consapevoli dagli incoscienti. Ma ciò che colpisce di più è che in un terzo dei 36 cerebrolesi diagnosticati come non responsivi, la Fdg-Pet ha mostrato un’attività cerebrale coerente con un barlume di coscienza. E 9 di questi pazienti hanno effettivamente recuperato un ragionevole livello di coscienza.

Commentando lo studio, Jamie Sleigh dell’Università di Auckland in Nuova Zelanda e Catherine Warnaby dell’Università di Oxford, Regno Unito, scrivono: «Alla luce di questi dati sarebbe difficile sostenere una diagnosi di Uws senza Pet di conferma. Il brain imaging funzionale è costoso e tecnicamente impegnativo, ma sarà quasi certamente la strada del futuro per individuare i cerebrolesi con possibilità di recupero altrimenti impossibili da cogliere».

(Fonte: «Doctor 33»)
(Approfondimenti: http://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(14)60042-8/abstract)

Test prenatali: cosa può svelare il sangue di mamma?

22 aprile 2014

Ogni mamma lo sa: un figlio lo senti dentro al cuore, ti entra proprio nel sangue. Ecco: da quando lo hanno scoperto pure gli scienziati, nulla è stato più come prima. Nel 1997 uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista «The Lancet» dimostrava per la prima volta la presenza di DNA fetale nel sangue materno: la ricerca, firmata da Yuk-Ming Dennis Lo dell’Università cinese di Hong Kong, svelava che circa il 13% del DNA libero circolante nelle vene di mamma è, in pratica, un “dono” del nascituro.
Quel piccolo e innocuo pacco regalo, però, può essere aperto: basta metterlo sopra un vetrino da laboratorio per scoprire preziose informazioni sulla salute del bambino. Lo hanno capito subito i ricercatori, che si sono lanciati in una lunga corsa ad ostacoli per mettere a punto nuovi test genetici prenatali il più possibile precisi ed affidabili: era troppo attraente la possibilità di scalzare la vecchia amniocentesi con una nuova generazione di esami non invasivi, rapidi e sicuri.

La svolta è arrivata il 17 ottobre del 2011 con l’arrivo sul mercato statunitense di MaterniT21, il primo test genetico su sangue materno per la sindrome di Down, prodotto dalla Sequenom di San Diego, in California. Pochi giorni dopo, in un editoriale su «Nature», Erika Check Haden si interrogava già sul forte dibattito etico che questi test avrebbero sollevato. Ma forse non aveva ancora fiutato il branco di affaristi in cerca di facili guadagni che si stava avvicinando.

Mentre sulle riviste scientifiche internazionali continuavano a fioccare nuovi studi molto promettenti (come quello dell’Università di Standford, che nel 2012 pubblicava su «Nature» la prima mappa del DNA di feto interamente ottenuta da un campione di sangue materno), i nuovi test prenatali hanno cominciato a farsi strada anche sul mercato europeo. Sequenom, Ariosa, Verinata e Natera sono i nomi delle società produttrici dei test di maggiore successo.

Lo “tsunami” ovviamente non ha risparmiato l’Italia, dove l’ansia delle mamme è proverbiale. Rivolgendosi a laboratori e studi medici privati, bastano (si fa per dire) poco più di 700 euro per poter leggere il futuro del proprio bimbo nella palla di cristallo della genetica.

Il passaparola, amplificato anche dai forum online dedicati alla gravidanza, ha fatto sì che sempre più gestanti facessero richiesta di questi nuovi esami non invasivi nella speranza di dribblare l’amniocentesi e la villocentesi. Un desiderio, questo, che viene confermato anche dai dati dell’ultimo censimento della Società Italiana di Genetica Umana (SIGU), curato dall’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma. I numeri, relativi al 2011, riportano un calo del 5% delle indagini cromosomiche prenatali (passate da 136.000 a 129.000 nel giro di quattro anni) e dei test su liquido amniotico (calati da 102.000 a 97.000), mentre gli altri test invasivi come le indagini su villi coriali (26.000) e su sangue cordonale (383) frenano per la prima volta dopo anni di continua ascesa. Questo trend negativo, secondo il direttore scientifico del Bambino Gesù Bruno Dallapiccola, è da attribuire all’affermazione del cosiddetto test combinato, che comprende il dosaggio di due ormoni del sangue materno e la misurazione ecografica della translucenza nucale: in futuro, secondo il genetista, il calo potrebbe essere ancora più accentuato dal diffondersi del test del DNA fetale nel sangue materno.

Le aziende produttrici lo sanno bene e per questo, con le loro strategie di marketing, si muovono sempre lungo la linea del fuorigioco. “Esame non invasivo”, “privo di rischi”, “affidabilità” sono i termini più evidenti nelle pubblicità, dove invece passa in secondo piano il fatto che il test non è adatto a tutte e, soprattutto, non porta a nessuna diagnosi. Ma andiamo con ordine.

I test prenatali da sangue materno non possono essere usati in maniera indiscriminata da qualsiasi gestante: la loro affidabilità è elevata solo nelle donne considerate ad alto rischio, come ricordano gli esperti della SIGU. Anche in questi casi, comunque, il risultato positivo non deve essere letto come una condanna senza appello. Il test valuta esclusivamente il rischio di anomalie genetiche e per avere una diagnosi certa bisogna comunque ricorrere agli esami più invasivi come l’amniocentesi.

Bisogna poi cancellare l’idea del test genetico “fai-da-te”. Anche se l’esame può apparire così facile e immediato, necessita in realtà della consulenza di un esperto come tutti i test genetici. “Conoscere l’intero genoma di una persona, di per sé, non ci dà delle risposte”, spiega Elia Stupka, capo dell’Unità Funzione del Genoma dell’IRCCS San Raffaele di Milano. Difficile non credergli, visto che a soli 22 anni è stato selezionato per partecipare al grande progetto di ricerca internazionale Genoma Umano che ha letto l’intero DNA dell’uomo. “La tecnologia sta facendo passi da gigante e sta rendendo il sequenziamento sempre più facile, rapido e meno costoso.
Un domani potremo avere anche l’intera mappa del nostro DNA sullo smartphone che teniamo in tasca – aggiunge – ma questa mole di informazioni non ci servirà a nulla senza una corretta interpretazione, che ad oggi rimane comunque difficile e complicata da numerose variabili tutte da studiare. Per questo, dopo l’era del genoma, stiamo entrando in quella dell’interpretoma”.

Elisa Buson
(Fonte: «Scienza in Rete»)
(Approfondimenti: http://www.ospedalebambinogesu.it/genetica-500-laboratori-e-servizi-in-italia#.U1ZcP-mIqM9
http://www.sigu.net/)

Sopprimere la febbre diffonde le infezioni nella popolazione

24 aprile 2014

L’uso di antipiretici (AP) per attenuare la febbre ed altri sintomi spiacevoli delle malattie infettive è estremamente diffuso in occidente specialmente ad opera di genitori e operatori sanitari. In un articolo pubblicato dal gruppo di David Earn su «Proceedings of the Royal Society of Biological Sciences» viene evidenziato un effetto negativo e potenzialmente importante sulla popolazione: l’aumento significativo della trasmissione delle malattie, con un più alto numero di soggetti infettati. Per conseguenza, l’uso di AP implica una morbilità e mortalità superiore alle attese tra la popolazione che ne fa uso rispetto a quella che non ne fa uso.

Nel lavoro sono riportati i dati pubblicati e disponibili per stimare l’importanza di questi effetti in relazione all’influenza stagionale: pur trattandosi di dati incompleti ed eterogenei, è lecito pensare che globalmente la riduzione e soppressione della febbre aumenta il numero atteso dei casi di influenza e quindi dei morti. Negli USA si è calcolato un incremento di mortalità dell’1% in caso di influenza pandemica e del 5% nel caso della “stagionale”.

Riguardo alle motivazioni di tale comportamento, secondo alcuni immunologi il tutto può essere spiegato dal fatto che a temperature più elevate la replicazione batterica e virale è meno efficiente, mentre è molto più efficace la risposta immunitaria; secondo altri autori, invece, il significato adattativo della febbre è determinante per l’attivazione e la coordinazione della risposta immunitaria. A livello patogenetico si ipotizza la non attivazione di citochine sensibili alla temperatura. Nel mondo medico è, per contro, diffusa un’altra visione: che il trattamento di febbre ed altri sintomi non fa male e non è rallentante l’evoluzione di virosi e infezioni batteriche. Quest’ultima sottolineatura non considera che il malato, stando meglio, interagirà maggiormente con altri individui e che l’ipotermia aumenterà la diffusione virale da cui, quindi, epidemie di maggior dimensioni e velocità e perciò più alta morbilità e mortalità.

I dati raccolti durante sperimentazioni di AP condotti su umani volontari e su gruppi di furetti (animali considerati il “modello” più vicino all’influenza umana) denotano corrispondenza tra i due risultati: la maggiore quantità di virus e la loro più lunga presenza nello scolo nasale di umani ed animali con conseguente aumento di periodo infettivo e carica virale. Allo stesso modo dell’influenza sembrerebbero comportarsi anche i rinovirus e il virus della varicella. In definitiva, “i sintomi che il malato produce, sono la risposta più efficace che l’individuo è in grado di mettere in campo per reagire”.

Ennio Masciello
(Fonte: «Doctor 33»)
(Approfondimenti: http://www.siomi.it/apps/pubblicazioni.php?id=1346)

Il dramma degli aborti clandestini in Inghilterra

24 aprile 2014

È del mese scorso la notizia della condanna rivolta dal Consiglio d’Europa all’Italia “a causa dell’elevato e crescente numero di obiettori di coscienza”. Il Consiglio aveva così accolto il reclamo presentato dalla Ong International Planned Parenthood Federation European Network (Ippf), la quale accusava il nostro Paese di non garantire il rispetto della legge 194 sull’interruzione di gravidanza per via dei tanti medici obiettori di coscienza.

Se in Italia i medici che adempiono un loro diritto, qual è appunto l’obiezione di coscienza, diventano un motivo di ammonimento da parte dell’Unione europea, in Inghilterra i loro colleghi che praticano aborti clandestini la fanno franca.

È stato diffuso a gennaio e confermato nei giorni scorsi il numero di aborti illegali praticati nel 2012 nella sola Inghilterra: 98mila. Questi dati sono stati sollevati per la prima volta durante un’interrogazione parlamentare e hanno trovato riscontro in un’indagine della sanità inglese che si è conclusa di recente. Pertanto, il 54% degli aborti che sono stati effettuati in Inghilterra in quell’anno sono illegali e i medici coinvolti sono inquisibili.

Secondo l’Abortion Act del 1967, nessuna interruzione di gravidanza può essere praticata senza l’avallo di almeno due medici, che devono valutare se davvero ci siano rischi per la salute della donna. Ebbene, i dati emersi dall’indagine dimostrano che in 98mila casi nel solo anno 2012 i medici firmavano carte di autorizzazione a procedere all’aborto a donne incinte che non avevano nemmeno mai incontrato. Addirittura si è riscontrato che uno di questi medici ha firmato così tante carte in bianco che venivano utilizzate ancora nel 2014, sebbene lui fosse già in pensione da qualche anno.

E ora che la colpevolezza di questi professionisti è stata appurata? Non accadrà nulla. È quanto ha riferito il General Medical Council (Gmc), equivalente dell’ordine dei medici, intenzionato a non prendere nessun tipo di provvedimento – nemmeno un piccolo richiamo – contro nessuno di loro.

Ha destato sconcerto il fatto che in alcuni casi, come rilevato da un’inchiesta dell’«Indipendent» secondo cui nel censimento nazionale inglese mancano all’appello quasi 5mila bambine, le motivazioni che spingono le donne ad abortire sono dettate dal sesso femminile del nascituro. L’aborto selettivo, praticato diffusamente oltre i confini europei, è illegale nel Regno Unito.

Intervistato dal «Telegraph», David Burrowes, deputato dei conservatori, ha detto a proposito di questa indagine sugli aborti clandestini: “C’è qualcosa di spaventoso in tutto questo. Ci dice come sinistra e incredibile sia diventata la pratica dell’aborto nel Regno Unito, dove un gran numero di medici può sfacciatamente infrangere la legge e l’establishment medico omettere di riferire questi crimini alla polizia”.

Ha preso posizione contro quanto emerso dall’indagine anche Lord David Steel, colui che nel 1967 ha introdotto la legge sull’aborto in Inghilterra. “È davvero deplorevole quello che avviene, non era questo lo spirito della mia legge”, ha dichiarato.

“Questo prova in modo evidente che viviamo in una cultura dove l’aborto è on demand- ha invece dichiarato Jim Dobbin, parlamentare laburista -. Sessantasette dottori approvavano l’aborto tranquillamente senza sapere niente delle donne che lo richiedevano. Ancora peggio, gli avvocati e i medici del Gmc hanno deciso di tenere questi crimini per loro (e di non informare la polizia). Questo disonora il Gmc e fa dell’Abortion Act una presa in giro”.

Federico Cenci
(Fonte: «Zenit»)

Giornata mondiale Malaria. Dal controllo all’eliminazione: la guida dell’OMS. Dal 2000 salvate oltre 3 milioni di persone

25 aprile 2014

«Investi nel futuro. Sconfiggi la malaria»: questo è l’obiettivo e il tema della Giornata Mondiale della Malaria (World Malaria day), che si è celebrata il 25 aprile 2014 in tutto il mondo. Questa ricorrenza è stata istituita a livello ufficiale dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) durante l’Assemblea Mondiale della Sanità nel 2007.

Nell’occasione, l’OMS ha lanciato un Manuale per aiutare i Paesi a stimare e pianificare le loro possibilità tecniche, operative e finanziarie finalizzate all’eliminazione della malattia. La guida, intitolata «From malaria control to malaria elimination: a manual for elimination scenario planning» («Dal controllo della malaria alla sua eliminazione: un manuale per pianificare una prospettiva di eliminazione»), tiene conto anche delle tempistiche di questo obiettivo, della copertura e della disponibilità dei fondi.

«Dal 2000 ad oggi, il maggiore impegno politico e l’aumento di investimenti a livello globale contro la malaria hanno salvato circa 3 milioni e 300 mila persone», ha affermato Margaret Chan, Direttore Generale dell’OMS. «I Paesi in cui la malaria rimane endemica intendono basarsi su questo successo».

Dal 2000, dunque, vi è stata una riduzione del 42% del tasso di mortalità legato alla malaria a livello mondiale e, in particolare, un calo del 49% nella Regione africana dell’OMS: questo progresso ha spinto alcuni Paesi in cui la malaria è endemica (e anche quelle zone che storicamente presentano elevati livelli di malaria) a cominciare ad esplorare le possibilità di eliminazione della malattia.

Proprio a questo scopo, la guida dell’OMS potrà aiutare le nazioni a comprendere quali misure tecniche e quali risorse finanziarie sono necessarie per ridurre la malattia a livelli minimi, favorendo anche la valutazione della tempistica migliore e fornendo le conoscenze essenziali per una programmazione strategica a lungo-termine.

«Questa visione a lungo termine sulla malaria è fondamentale: è vitale effettuare una pianificazione per il periodo successivo all’eliminazione», ha sottolineato John Reeder, Direttore del Programma Globale dell’OMS contro la Malaria (Global Malaria Programme). «Se gli interventi sono attenuati o abbandonati, la trasmissione della malaria può ristabilirsi, in tempi relativamente brevi, nelle aree che sono inclini alla malattia, portando ad una ripresa di infezioni e decessi». Dunque, non bisogna mollare la presa, come sottolinea l’OMS: non è un caso, infatti, che l’OMS abbia messo al centro della Giornata Mondiale della Salute 2014, celebrata lo scorso 7 aprile, le malattie trasmesse da vettori. Tra queste c’è la malaria, che nel 2012 ha colpito oltre 200 milioni di persone, causando più di 600mila decessi, la maggior parte dei quali riguarda bambini al di sotto dei 5 anni di età. Questa malattia attacca quasi 100 Paesi al mondo ed è ancora la principale ‘piaga’ per la salute nei Paesi dell’Africa sub-sahariana.

L’intervento è dunque fondamentale: dopo aver ridotto la trasmissione della malattia a livelli molto bassi e aver ri-pianificato le attività del programma contro di essa, 19 Paesi sono stati attualmente inseriti dall’OMS nella fase della ‘pre-eliminazione’ o dell’’eliminazione’. Mentre altri sette Paesi hanno ridotto a zero la trasmissione e sono in quella fase definita come ‘prevenzione del ripristino’ della malattia. Negli ultimi anni, il Direttore generale OMS ha ‘certificato’ l’eliminazione della malaria in quattro Paesi: gli Emirati Arabi Uniti (2007), il Marocco (2010), il Turkmenistan (2010) e l’Armenia (2011).

Nel nostro Paese, uno degli importanti contributi per combattere la malattia è fornito dall’«Italian Malaria Network», un consorzio (Centro Interuniversitario ricerca sulla Malaria CIRM) che comprende nove Università insieme all’Istituto Superiore di Sanità. Fanno parte del CIRM le seguenti Università: Università degli Studi di Torino, Università degli Studi del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro, Università degli Studi di Brescia, Università degli Studi di Milano, Università degli Studi di Siena, Università degli Studi di Perugia, Università degli Studi di Camerino, Sapienza Università di Roma, Università degli Studi di Napoli Federico II, insieme all’Istituto Superiore di Sanità.

Come riporta l’OMS, il Manuale è realizzato in collaborazione con il Clinton Health Access Initiative, l’Imperial College United Kingdom, l’Università Johns Hopkins, l’Università di Southampton e il Global Health Group presso l’Università della California.

Viola Rita
(Fonte: «Quotidiano Sanità»)
(Approfondimenti: http://apps.who.int/iris/bitstream/10665/112485/1/9789241507028_eng.pdf?ua=1)

Svizzera, abolizione screening mammografico generalizzato fa discutere

28 aprile 2014

La Svizzera dovrebbe smettere di avviare nuovi programmi di screening mammografico ed eliminare gradualmente quelli in corso, puntando ad azioni di monitoraggio su base individuale e non generalizzate. Lo ha raccomandato di recente lo Swiss medical board (Smb), gruppo indipendente di Health technology assessment le cui linee guida, considerate “non legalmente vincolanti”, sono state contestate da molti oncologi, che le hanno definite «non etiche» e in contrasto «con il consenso globale dei maggiori esperti del settore».

Il dibattito si è ampliato dopo la pubblicazione online sul «New England Journal» di un saggio sul tema firmato da due dei 7 membri dell’Smb, Nikola Biller-Andorno, eticista medico dell’Università di Zurigo, e Peter Jüni, epidemiologo dell’Università di Berna. In seguito all’incarico di rivedere le evidenze sul tema ricevuto nel gennaio del 2013 da importanti Istituzioni, tra cui la Conferenza dei ministeri della Salute dei Cantoni svizzeri, «siamo rimasti colpiti da come non fosse ovvio il fatto che i benefici della mammografia superassero i danni» scrivono i due autori, che rispondono alle accuse di inesperienza, sostenendo invece di costituire un team senza pregiudizi non essendo stati coinvolti negli sforzi degli specialisti di costruire un consenso.

Daniel Kopans, docente di Radiologia ad Harvard, ribatte con una domanda sarcastica: «Perché mi vorreste inserire in un gruppo che stila linee guida di neurochirurgia?».

Favorevole invece alla posizione dell’Smb è Lydia Pace, del Brigham and Women’s Hospital di Boston. «Il gruppo sembra aver fatto una valutazione completa di rischi e benefici» afferma «ma non penso che la risposta sia di rifiutare interamente lo screening, ma che tutte le donne sopra i 40 anni debbano discutere il rischio di cancro mammario e i pro e i contro dello screening con il proprio medico».

L’American college of radiology e la Society of breast imaging – sorpresi e preoccupati per la mancata pubblicazione concomitante di un’opinione diversa – emettono un drastico giudizio congiunto: «Potrebbero passare anni perché diventino evidenti le conseguenze mortali di queste raccomandazioni per il Governo svizzero», riferendosi ai benefici dello screening in termini di ridotta mortalità. L’Smb, infine, ammette che il “modesto” beneficio dello screening potrebbe non essere più rilevabile per via del drammatico miglioramento della prognosi dovuto al perfezionamento delle strategie di trattamento.

Arturo Zenorini
(Fonte: «Doctor 33»)
(Approfondimenti: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24738641)

Giornata mondiale per la Salute e la Sicurezza sul lavoro. Al centro l’utilizzo dei prodotti chimici

28 aprile 2014

Il tema scelto quest’anno per la Giornata mondiale per la salute e la sicurezza sul lavoro è “Salute e sicurezza nell’utilizzo di prodotti chimici sul lavoro”. La produzione e l’utilizzo delle sostanze chimiche in tutto il mondo presenta una delle sfide più significative per i programmi di protezione del luogo di lavoro. Le sostanze chimiche sono fondamentali per la vita, e i vantaggi che queste sostanze rappresentano sono largamente diffusi e riconosciuti. Dai pesticidi che migliorano il rendimento e la qualità della produzione alimentare, ai farmaci per curare le malattie, ai prodotti di pulizia che aiutano a stabilire condizioni di vita igieniche, le sostanze chimiche sono fondamentali per garantire condizioni di vita sane e un comfort moderno. Le sostanze chimiche sono anche fondamentali in numerosi procedimenti industriali di sviluppo di prodotti necessari a garantire un adeguato livello di vita a livello mondiale.

Tuttavia, i governi, i datori di lavoro e i lavoratori sono sempre confrontati con il problema del controllo dell’esposizione a queste sostanze nei luoghi di lavoro e della limitazione della loro emissione nell’ambiente.

Il dilemma proviene dai rischi associati all’esposizione alle sostanze chimiche. Le sostanze chimiche presentano tutta una serie di possibili effetti negativi, dai rischi sanitari quali la cancerogenicità, ai rischi fisici quali l’infiammabilità, ai rischi ambientali quali la contaminazione diffusa e la tossicità per la vita acquatica. Numerosi incendi, esplosioni e altri disastri sono causati da una mancanza di controllo dei rischi fisici delle sostanze chimiche.

Nel corso del tempo, la sicurezza delle sostanze chimiche è stata l’area nella quale si sono compiuti i maggiori progressi in materia di salute e di sicurezza sul lavoro. Tuttavia, anche se, negli ultimi anni, sono stati compiuti progressi significativi in materia di regolamentazione e di gestione delle sostanze chimiche, e nonostante l’azione continua dei governi, dei datori di lavoro e dei lavoratori per ridurre gli effetti negativi dell’utilizzo di sostanze pericolose a livello nazionale e internazionale, tutto ciò è ancora insufficiente. Continuano ad esserci incidenti gravi, con conseguenze negative per la salute umana e per l’ambiente. 

I lavoratori direttamente esposti a sostanze pericolose dovrebbero avere il diritto di lavorare in un ambiente sicuro e salubre, e di essere adeguatamente informati, formati e protetti.

PROTEGGERE I LAVORATORI E L’AMBIENTE – Come ogni anno, l’ILO ha preparato un rapporto che chiede ai governi, ai datori di lavoro e ai lavoratori e alle loro organizzazioni di collaborare per sviluppare e applicare politiche e strategie nazionali per la salute e la sicurezza nell’utilizzo di sostanze chimiche sul lavoro. L’ILO riconosce che è necessaria una gestione razionale per garantire un buon equilibrio tra i vantaggi dell’utilizzo di prodotti chimici e le misure preventive e di controllo degli effetti indesiderati sui lavoratori, sulla popolazione e sull’ambiente. Questo obiettivo si può raggiungere attraverso l’azione concertata dei governi e delle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori.

Il rapporto pubblicato in occasione della Giornata mondiale per la salute e la sicurezza sul lavoro 2014 esamina la situazione attuale relativa all’utilizzo dei prodotti chimici sul lavoro e al loro impatto sui luoghi di lavoro e sull’ambiente, e in particolare le diverse iniziative adottate a livello nazionale, regionale e internazionale per fronteggiare questo problema. Il rapporto presenta anche elementi per stabilire programmi nazionali a livello dell’impresa che contribuiscono a garantire una gestione razionale dei prodotti chimici sul lavoro.

LA STRADA DA SEGUIRE – Le sostanze chimiche sono fondamentali nella vita moderna e continueranno ad essere prodotte e utilizzate sui luoghi di lavoro. L’azione concertata dei governi e delle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori può promuovere la gestione razionale dei prodotti chimici e realizzare un equilibrio adeguato tra i vantaggi che rappresentano le sostanze chimiche e le misure preventive e di controllo degli effetti indesiderati sui lavoratori, sulla popolazione e sull’ambiente.

È necessaria una azione globale coerente per fronteggiare il continuo progresso scientifico e tecnologico, l’aumento della produzione mondiale di sostanze chimiche e i cambiamenti nell’organizzazione del lavoro. È anche importante continuare a sviluppare nuovi strumenti per rendere più accessibile l’informazione sui rischi chimici e le misure di protezione corrispondenti, come pure per trarre vantaggio da questa informazione per stabilire un approccio strutturato alla salute e alla sicurezza nell’utilizzo di prodotti chimici sul lavoro.

(Fonte: «ILO» – «Quotidiano Sanità»)
(Approfondimenti: http://www.quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=4209924.pdf)

«Jama» a tutto campo sulla neuroterapia

29 aprile 2014

La neurologia è al centro di un numero di «Jama» con cinque studi e tre editoriali che dipingono lo sviluppo futuro di questa scienza. Nel primo editoriale Birbeck descrive la sfida dell’assistenza neurologica ai milioni di persone con malattie neurodegenerative e neurovascolari. Gli autori stimano che entro il 2050 ci saranno 115 milioni di persone affette da demenza, notando che l’ictus provoca più morti ogni anno di aids, tubercolosi e malaria messi assieme. Callaghan e colleghi richiamano invece l’attenzione sull’aumento dei costi sanitari, appoggiando la campagna Choosing Wisely, che favorisce il dialogo tra medici e pazienti sulla necessità di test, procedure e farmaci: una concreta sfida anche in campo neurologico. Infine Pedley fa il punto sulle nuove terapie per le malattie autoimmuni, l’epilessia e la sclerosi multipla, sulla stimolazione cerebrale profonda nella malattia di Parkinson e sulla terapia trombolitica nell’ictus acuto.

I tre editoriali pongono le basi per cinque studi originali centrati sulla neuroterapia. Due di essi, quelli di Ebinger e Fonarow, valutano la gestione dell’ictus acuto con la trombolisi endovenosa, mentre lo studio di Muro fa il punto sulla somministrazione di acetazolamide nell’ipertensione intracranica idiopatica. Il quarto lavoro pubblicato è firmato da Chamberlain e mette a confronto lorazepam e diazepam nella cura dello stato epilettico pediatrico. E infine Connolly svolge una revisione globale del trattamento farmacologico della malattia di Parkinson.

Progressi concreti, favoriti da iniziative quali la Accelerate Medicines Partnership, un accordo tra il NIH e 10 delle più grandi aziende farmaceutiche del mondo per scoprire terapie per l’Alzheimer, il diabete, l’artrite reumatoide e il lupus. E il progetto BRAIN, Brain Research Advancing Innovative Neurotechnologies, annunciato l’anno scorso da Obama, che mira a scoprire nuove tecnologie per produrre immagini dei circuiti neurali visualizzando le interazioni tra le cellule del cervello che si verificano alla velocità del pensiero. Tecniche all’avanguardia che apriranno nuovi scenari per capire come le funzioni cerebrali si legano al comportamento umano, all’apprendimento e ai meccanismi delle malattie del cervello.

(Fonte: «Doctor 33»)
(Approfondimenti: http://jama.jamanetwork.com/article.aspx?articleid=1861776)

© Bioetica News Torino, Maggio 2014 - Riproduzione Vietata