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Prevenzione da Covid- 19. Il ruolo della Vitamina D

16 Gennaio 2021

Molti studi scientifici mostrano l’incidenza della vitamina D3 nella variabilità della severità clinica causata da Covid-19. Mario Balzanelli, presidente della Società Italiana Sistema 118 porta ad esempio quanto è stato documentato nella stazione Covid della postazione medicalizzata fissa 118 dell’Ospedale San Giuseppe Moscati di Taranto: «nel periodo tra il 21 settembre e il 21 novembre la totalità dei pazienti con insufficienza respiratoria acuta secondaria a polmonite interstizio-alveolare [riportava] un deficit estremamente severo di vitamina D3, tanto più marcato quanto più compromesse erano le condizioni cliniche».

Quel che importa di più spiega Balzanelli aldilà delle svolte più determinanti sui parametri della riduzione delle forme cliniche severe e soprattutto della mortalità […è] la necessità, clinica e gestionale, di impedire che i pazienti positivi al Covid, con sintomatologia respiratoria acuta, si deteriorino al domicilio sviluppando livelli di insufficienza respiratoria talmente gravi da risultare difficilmente responsivi alle cure intensive ospedaliere». Tale vitamina interviene nella modulazione sistemica contrastando la tempesta citochimica infiammatoria. Per questo c’è bisogno, spiga il Sis 118, Società italiana sistema 118, di avere valori ematici adeguati di vitamina D3, in quanto strettamente correlati ad una aumentata risposta immunitaria, in supporto alla terapia contro la malattia e alla terapia della sindrome post-Covid.

Nel corso del 2020 sono stati pubblicati circa trecento lavori sperimentali che hanno confermato l’esistenza di una correlazione tra Covid-19 e vitamina D, la presenza di ipovitaminosi D nella maggioranza dei pazienti affetti da Covid-19, in particolar modo se in forma severa e di una più elevata mortalità; ricerca che l’Accademia di Medicina di Torino ha analizzato sotto la guida del presidente Giancarlo Isaia, professore di Geriatria e del professore di Farmacologia Antonio D’Avolio, entrambi dell’Università degli Studi di Torino, assieme ad un’equipe composta di 59 medici provenienti da diverse città italiane. Lo studio, datato 3 dicembre, raccoglie le evidenze scientifiche più recenti e convincenti sugli effetti positivi della vitamina D, sia nella prevenzione che nelle complicanze del Coronavirus, ed è stato allora inviato alle autorità sanitarie. Il documento vuol essere un richiamo di attenzione da parte delle Istituzioni, del mondo scientifico e dell’opinione pubblica «su un aspetto che si è via via accreditato con numerose evidenze scientifiche: ci riferiamo alla carenza di vitamina D, della quale sono noti da tempo gli effetti sulla risposta immunitaria, sia innata che adattiva (Charoenngam N. & Holick M.) e che si sviluppa nei pazienti affetti da Covid-19 in conseguenza di differenti meccanismi fisiopatologici (Aygun H et al.), ma forse anche a seguito di una ridotta disponibilità di 7-deidrocolesterolo e di conseguenza del suo metabolita colecalciferolo, per la  marcata riduzione della colesterolemia osservata nei pazienti con forme moderate o severe di COVID-19 (Marcello A. et al.)».
Vi si suggerisce un approfondimento sull’argomento sui dati riportati, concernente:

  1. l’avvio di una consensus conference e/o di uno studio clinico randomizzato e controllato, promosso e supportato dallo Stato, sull’efficacia terapeutica della Vitamina D, a pazienti sintomatici o oligosintomatici, secondo uno dei seguenti schemi: Colecalciferolo per via orale 60.000 UI/die per 7 giorni consecutivi, Colecalciferolo in monosomministrazione orale 80.000 nei pazienti anziani e Calcifediolo 0.532 mg (106 gocce) nel giorno 1 e 0,266 mg (53 gocce) nei giorni 3 e 7 e poi in monosomministrazione settimanale;    
  2. la somministrazione preventiva di Colecalciferolo orale (fino a 4000 UI/die) a soggetti a rischio di contagio (anziani, fragili, obesi, operatori sanitari, congiunti di pazienti infetti, soggetti in comunità chiuse); in questo ambito l’utilizzo della vitamina D che, anche ad alte dosi, non presenta sostanziali effetti collaterali (Murai IH et al.); è comunque utile per correggere una situazione di specifica carenza generale della popolazione, soprattutto nel periodo invernale, indipendentemente dalla infezione da SARS-CoV-2.

Anche lo stesso Isaia insieme al professore di Istologia dell’Università degli Studi di Torino Enzo Medico ne aveva dato un contributo, prima di tale documento, intitolato Associations between hypovitaminosis D and Covid-19: a narrative review, che è stato pubblicato il 23 luglio scorso in «Aging Clin Exp Res» 32 (2020); 1879-1881, https://doi.org/10.1007/s40520-020-01650-9.» Concludeva con la necessità di avanzare gli studi per «esplorare possibili associazioni tra il deficit di vitamina D e la morbidità e letalità per il Covidi-19 esprimendo a riguardo l’opinione: «i governi di tutti i paesi, specialmente dove, come in Italia, c’è un’altra prevalenza di insufficienza o carenza di Vitamina D debbano promuovere le campagne di pubblica salute per aumentare il consumo di cibo ricco di vitamina D e promuovere un’adeguata esposizione solare o, se questo non sia possibile, propriamente un supplemento farmaceutico controllato». Gli Autori riportavano l’esempio della Associazione Dietetica britannica e il Governo Scozzese che pubblicavano alcune raccomandazioni per assicurarsi, soprattutto in questo periodo critico, normali livelli di vitamina D nella popolazione generale».

Il recente documento dello studio di Isaia e D’Avolio et al. citato, alla lettura di alcuni risultati riportati emergenti dagli studi analizzati e altri studi, contiene alcune significative considerazioni riguardo l’impiego della vitamina D nella prevenzione e terapia del Covid-19 su cui si dovrebbe porre l’attenzione.

  • Seppure necessitino studi controllati ulteriori la vitamina D sembra più efficace contro il COVID-19, sia per la velocità di negativizzazione, sia per l’evoluzione benigna della malattia in caso di infezione se somministrata con obiettivi di prevenzione (Balla M et al.), soprattutto nei soggetti anziani, fragili e istituzionalizzati
  • Il target plasmatico minimo ottimale del 25(OH)D da raggiungere in ambito preventivo sarebbe di 40 ng/mL (Maghbooli Z. et al., per ottenere il quale occorre somministrare elevate dosi di colecalciferolo, anche in relazione ai livelli basali del paziente, e fino a 4000 UI/die (Arboleda JF & Urcuqui-Inchima S.)
  • gli studi randomizzati, in ambito terapeutico, indicano l’utilità di un’unica somministrazione in bolo di 80.000 UI di colecalciferolo (N° 4, Annweiler G et al.),  oppure di calcifediolo (0,532 mg il 1° giorno, 0,266 mg il 3°, il 7° giorno e poi una volta alla settimana) (N° 2, Castillo ME et al.), oppure ancora di 60000 IU di colecalciferolo.

redazione Bioetica News Torino