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Quando il rapporto fra medico e paziente rende più efficace la terapia

01 Novembre 2014

Medici in prima linea per accompagnare e rassicurare i pazienti. Parole e comportamenti che danno spazio alle emozioni dei malati, sostenendoli in ogni momento, hanno effetti positivi sulla prognosi, almeno quanto alcune terapie farmacologiche. Lo rivela una meta analisi del Massachusetts General Hospital, pubblicata su «Plos One». L’entità degli effetti osservati, per quanto limitata, è superiore a quella trovata in alcuni studi sull’effetto dell’aspirina nel ridurre l’incidenza dell’infarto del miocardio o sull’influenza delle statine sul rischio di eventi cardiovascolari. L’empatia con lo specialista ha un ruolo centrale nell’affrontare la malattia.

Un rapporto in crisi. Con il passare del tempo questo rapporto è entrato in crisi. Se in passato il camice bianco era l’unico protagonista delle scelte che riguardavano la terapia e godeva di una fiducia illimitata, oggi con un maggior accesso alle informazioni, ognuno di noi ha un ruolo sempre più ‘attivo’ nella scelta della cura. Chi si ammala si rivolge molto spesso a diversi specialisti e cerca notizie sui giornali e sul web. Un comportamento diffuso, che però ha anche qualche controindicazioni.

“Troppe informazioni”. “Può creare confusione. Con richieste plurime il paziente cerca di trovare qualcuno che lo rassicuri. Filtrare le informazioni è molto difficile perché per farlo occorre avere una cultura medica”, spiega Silvio Garattini, direttore dell’Istituto Mario Negri. Alla questione Carlo Flamigni, membro del comitato nazionale di Bioetica, ha dedicato un libro: «Nelle mani del dottore? Il racconto e il possibile futuro di una relazione difficile» (ed. Franco Angeli), scritto con la sociologa Marina Mengarelli. “Il rischio maggiore riguarda la possibilità che i pazienti entrino in rapporto con un numero eccessivo di informazioni, spesso espresse in un linguaggio per loro incomprensibile e che questa quantità di notizie non sia adatta a far loro raggiungere la qualità che stanno cercando: troppa informazione, si dice, equivale a nessuna informazione. Non diremmo che si tratta di essere più o meno attenti a seguire le prescrizioni, si tratta più semplicemente di cittadini confusi. Inoltre nel nostro Paese esiste una importante crisi di fiducia nei confronti della medicina in generale e dei medici in particolare”, spiega Flamigni.

Il nuovo codice deontologico. Un trattamento clinico corretto è il primo passo per il successo di una terapia, ma non bisogna trascurare quanto siano importanti anche gli aspetti emotivi. La persona che si trova in difficoltà e a volte perde autonomia deve sentirsi capita e accolta. E nello stesso tempo deve avere fiducia nelle scelte del medico curante. Proprio per affrontare queste questioni, i presidenti degli Ordini hanno elaborato recentemente il nuovo codice deontologico nel quale si ricorda che “le competenze diagnostico-terapeutiche sono del medico, esclusive e non derogabili”. Fra le novità ci sono anche alcuni termini da usare per tutelare i cittadini. Sono definiti infatti “pazienti” i malati e “persone assistite” quelli che stanno bene o che fanno esami.

Le parole. Saper ascoltare e scegliere le parole giuste fanno spesso la differenza fra professionisti. “Il medico deve avere l’umiltà di ascoltare il paziente. In molti casi potrà imparare da lui, in altri casi dovrà correggerlo. Parlare con il paziente è una grande occasione per conoscerlo, per capire meglio il contesto in cui vive e con quali modalità si pone rispetto alla sua malattia”, aggiunge Garattini.

Il tempo. Ma per ricostruire questo rapporto serve tempo e negli studi di medicina generale, ma anche negli ospedali le visite durano spesso pochi minuti. Un fattore che rende la relazione fra chi cura e chi è curato sempre più impersonale. “In Europa i medici dedicano complessivamente troppo poco tempo all’incontro con i malati e la fretta è la cosa che viene più spesso rimproverata loro. Alcune ricerche hanno mostrato che in media il paziente che racconta la propria storia al medico viene interrotto per la prima volta dopo 20 secondi – spiega ancora Flamigni – . Sono in discussione numerose proposte che riguardano la riorganizzazione dei medici di famiglia: quella che ci persuade maggiormente riguarda l’organizzazione di “unità assistenziali” che siano sempre disponibili a intervenire, a qualsiasi ora i cittadini abbiano bisogno del medico”.

L’indagine dell’Università di Parma. Qualche anno fa Stefano Manghi, docente di Sociologia all’Università di Parma, ha scritto «Il medico, il paziente e l’altro. Un’indagine sull’interazione comunicativa nelle pratiche mediche» (edizioni Franco Angeli) un’inchiesta che raccoglie le esperienze di 55 medici. “La situazione non è cambiata – spiega – . I medici stanno facendo fronte al mutamento della “scena della cura”. Si estende l’informazione biomedica di massa, la coscienza dei diritti alla salute potenzia gli aspetti legali della cura, poi ci sono sempre più iper-specialismi e l’aziendalizzazione della cura. Il risultato è un “malessere comunicativo” crescente”, dice Manghi.

Troppe specializzazioni. “La medicina attuale è caratterizzata soprattutto dalla tendenza alla super-specializzazione e i cittadini pazienti devono confrontarsi con un gran numero di specialisti, correndo il rischio di essere considerati come supporti occasionali di organi malati e non come persone – spiega Flamigni – . Questa frammentazione delle competenze comporta sia una diminuzione delle responsabilità – che si dissolvono all’interno del gruppo di medici ogni volta coinvolto – sia la difficoltà di indicare a chi spetti l’onere di tirare le fila della miriade di accertamenti eseguiti”.

Il medico-acrobata. L’opinione di molte persone nei confronti della medicina e dei medici non è positiva ormai da molto tempo. Ma è possibile intervenire per ricostruire la fiducia fra camice bianco e assistito. “Oggi il medico può apparire come un acrobata, intento a eseguire, sulla corda, i suoi esercizi di tecnologia applicata: gli acrobati non sono interessati a conoscere l’identità degli spettatori, lavorano per un applauso collettivo e non per la felicità dei singoli. Ma una via d’uscita potrebbe essere quella che suggerisce al medico di dar voce ad alcune delle sue piccole virtù, virtù che certamente possiede come la pazienza, la prudenza, la capacità di ascolto, il rispetto per la volontà del malato, la comprensione dell’importanza dell’aggiornamento, la consapevolezza delle proprie responsabilità, l’umiltà. Si tratta in fondo di un modo semplice e alla portata di tutti di interpretare ‘l’etica della cura’”

Valeria Pini

Fonte: Repubblica

Approfondimenti: http://www.plosone.org/article/authors/info%3Adoi%2F10.1371%2Fjournal.pone.0094207;jsessionid=7B1FFE49F60BBDAC2361AA18FC5251B4

Lara RealeGiornalista ScientificaRedazione Web Arcidiocesi di Torino