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Referendum e legge eutanasica: perplessità

13 Luglio 2021


L’articolo 579 del Codice penale recita: «Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni. Non si applicano le aggravanti indicate nell’articolo 61. Si applicano le disposizioni relative all’omicidio se il fatto è commesso: 1. contro una persona minore degli anni diciotto; 2. contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; 3. contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno».


Il 21 aprile 2021 la Gazzetta Ufficiale ha reso noto che era stata depositata il giorno precedente presso la Cancelleria della Corte suprema di cassazione la dichiarazione resa da quindici cittadini italiani di voler promuovere la raccolta delle firme necessarie per abrogare parzialmente il suddetto articolo. A tal fine l’Associazione Luca Coscioni, promotrice del referendum, nei giorni 10-12 luglio 2021 ha indetto la prima mobilitazione nazionale per raggiungere entro il 30 settembre 2021 le 500.000 firme indispensabili per poter indire la consultazione popolare. Sostengono l’iniziativa famosi personaggi dello spettacolo, tra cui Fedez, Vasco e Costanzo.

Il referendum ha lo scopo di cancellare la punibilità di coloro che provocano la morte di persone consenzienti. Si vuole in questo modo legalizzare anche in Italia una legge sull’eutanasia. La mobilitazione in tal senso, secondo Mina Welby, co-presidente della già citata Associazione Luca Coscioni, è un atto di civiltà e di giustizia non contemplato dall’ordinamento italiano nonostante fin dal 2002 ci si sia battuti per ottenere una legge in materia. Risulta evidente che ai membri dell’Associazione non sembra sufficiente ciò che in Italia è già legale a proposito delle questioni di fine vita.
Mi riferisco alla legge 219/2017 e alla Sentenza 242/2019 della Corte costituzionale. La prima ha ribadito l’importanza delle cure palliative, ha stabilito la possibilità di fornire dichiarazioni anticipate di trattamento, ha reso possibile la sospensione delle terapie, ha concesso la sedazione terminale e ha decretato che nessun intervento sanitario può iniziare o proseguire senza il consenso libero e informato del paziente, tranne i casi previsti dalla legge. La seconda è certamente più difficilmente accettabile perché ha dichiarato  «l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del Codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 […] agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente».

Quanti sono favorevoli all’eutanasia, reputano insoddisfacenti questi provvedimenti e hanno introdotto il referendum eutanasico parallelamente alla presentazione di una proposta di legge accolta il 6 luglio 2021 dalle Commissioni giustizia e affari sociali della Camera. In essa si fa esplicita proposta di promulgare una legge che disciplini «la facoltà della persona affetta da una patologia irreversibile o con prognosi infausta di richiedere assistenza medica, al fine di porre fine volontariamente ed autonomamente alla propria vita».


Una tale prospettiva pone non pochi interrogativi. La legge 219/2017, nonostante alcuni limiti, aveva il pregio di garantire ai cittadini il diritto di sottoscrivere disposizioni anticipate sui trattamenti medici da mettere in atto o da evitare qualora non fossero più in grado di interloquire con i sanitari. Tale esigenza è riconosciuta anche dalla Nuova carta degli operatori sanitari pubblicata dal Pontificio Consiglio nel 2016. Il documento, infatti, al numero 150 afferma: «escludendo ogni atto di natura eutanasica, il paziente può esprimere in anticipo la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidererebbe o no essere sottoposto nel caso in cui, nel decorso della sua malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse più in grado di esprimere il proprio consenso o dissenso».

Ben diversa è la situazione che si viene a creare quando si compie un atto esplicito per sopprimere la vita di una persona. È convinzione diffusa che la medicina contemporanea perda a volte il senso del limite e proponga terapie troppo gravose che hanno l’unico scopo di procrastinare il processo del morire provocando sofferenze e aspettative irrealistiche anziché effettivi benefici.

Come ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 2278, «l’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’accanimento terapeutico. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire». La desistenza terapeutica dovrebbe essere più coraggiosamente considerata in tante situazioni cliniche particolarmente complesse. Essa però ha nulla a che fare con la deresponsabilizzante eutanasia che abbandona il malato. L’interruzione delle cure deve essere accompagnata dalla messa in atto della necessaria palliazione, che avvolge il paziente delle attenzioni necessarie affinché, controllati i sintomi, possa vivere l’ultimo tratto della sua esistenza il più serenamente possibile. Questa attenzione è l’autentica prova di giustizia e di civiltà che una nazione può e deve garantire.

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ZEPPEGNO G_ docente di ricerca in Morale e Bioetica Facoltà Teologica Torino _BNT
Giuseppe Zeppegno Dottore di Ricerca in Morale e Bioetica, docente presso la Facoltà Teologica dell'Italia settentrionale sezione parallela di Torino