I temi intorno alla vita, alla nascita ed alla morte suscitano sempre molto interesse, ma anche accesi dibattiti. Non fa eccezione la recente sentenza della Corte Costituzionale, la quale ha dichiarato illegittimo l’Art.8 della Legge 40 del 2004 sulla Procreazione Medicalmente Assistita (PMA). La Consulta ha così legalizzato il riconoscimento alla nascita di entrambe le mamme per i figli delle coppie lesbiche. D’ora in avanti i bambini nati in Italia da coppie di donne che, grazie alla fecondazione eterologa (fatta nei Paesi esteri in cui è legale), avranno due madri, una biologica e l’altra adottiva o intenzionale. I giudici hanno inoltre stabilito che non sussistono ostacoli costituzionali ad un’eventuale estensione dell’accesso alla PMA anche alle donne single. Dietro tale sentenza vi è l’intenzione di tutelare il minore, ovvero l’interesse supremo del figlio che non può “subire discriminazioni” e pertanto le mamme arcobaleno sono parificate dinanzi alla legge nei loro obblighi e diritti.
Ne parliamo con Giuseppe Zeppegno, teologo e Presidente del Centro Cattolico di Bioetica dell’Arcidiocesi di Torino.
Professore, è la quinta volta che la legge 40 viene abrogata in una sua parte perché ritenuta incostituzionale. Qual è la sua opinione?
La legge promulgata nel 2004, pur essendo in dissonanza con l’insegnamento della Chiesa, aveva il pregio di limitare le possibilità di intervento sugli embrioni ponendo fine al pericoloso precedente far west generativo. A partire dal 2009 è però stata gradualmente smantellata a colpi di sentenze. Considerando le numerose “potature”, sembra genericamente evidente l’intenzione di bypassare drasticamente il rapporto sessualità-procreazione per affermare il diritto d’avere figli ad ogni costo, senza alcuna attenzione alla tutela dei diritti dell’embrione e del feto, valutati come mero materiale biologico alla merce degli adulti “committenti”.
Quali le problematiche che possono emergere da questa sentenza da alcuni, enfaticamente, già definita storica?
La Corte costituzionale ha proposto il 22 maggio scorso due nuove sentenze di cui molto si discute in questi giorni. La 68/2025 dichiara che il nato in Italia da donna che ha fatto ricorso all’estero a tecniche di procreazione medicalmente assistita ha lo stato di figlio sia della madre biologica, sia della donna che ha espresso il preventivo consenso al ricorso alla PMA. Si introduce quindi all’interno delle coppie formate da due donne il ruolo di “madre intenzionale”, espressione che indica la persona che non ha un legame genetico con un minore ma che se ne assume la responsabilità genitoriale al pari della madre biologica. La Corte con questa sentenza ha inteso tutelare il minore garantendogli il sostegno stabile e giuridicamente riconosciuto, di entrambe le donne. Questa determinazione ha una sua logica perché impedisce alla madre intenzionale di sottrarsi successivamente ai doveri propri dei genitori. Mi sembra però eccessivo definirla enfaticamente storica. Se di storia si tratta, è una storia minor che potrebbe essere impugnata da un futuro provvedimento parlamentare. Contiene, infatti, una evidente contraddizione. Come può una sentenza della Corte riconoscere diritti a donne che hanno concepito un figlio all’estero, contravvenendo alla legge 40/2004 che prevede l’accesso alla PMA solo per le coppie eterosessuali?
Secondo il suo parere, si possono superare con una legge il legame biologico e la responsabilità genitoriale?
Di fatto questo superamento avviene già per l’adozione. Quello che però stupisce è che nello stesso giorno in cui la Corte costituzionale si è pronunciata a proposito della maternità intenzionale, ha ritenuto valido il divieto di ricorrere alla PMA da parte della donna single (sentenza 69/2025). Ha giustificato questa decisione osservando che sarebbe esclusa in questo caso la figura paterna. Ha altresì asserito che la legge 40/2004 non ha lo scopo di soddisfare il desiderio di maternità delle donne single, ma di «offrire un rimedio alla sterilità o infertilità che abbiano una causa patologica». Sembra che la medesima Corte abbia usato due pesi e due misure visto che non è un problema di carattere patologico ad impedire la generazione alle coppie formate da due donne.
Quali le ricadute al di là dei pregiudizi e dei luoghi comuni sulla famiglia cosiddetta tradizionale e sui minori? Ne emerge una società più forte oppure più fragile?
È sempre più evidente nella società attuale quello che affermava in un saggio pubblicato nel 2019, il compianto prof. Francesco D’Agostino, all’epoca presidente dei giuristi cattolici italiani: «il rilievo attuale della generatività dipende antropologicamente dal paradigma individualistico che lo caratterizza e nel quale i vincoli generazionali hanno perduto ogni specifica valenza religiosa e antropologica». Ne emerge una pericolosa patologia del desiderio ed è marginalizzato anche il ruolo paterno, relegato a mero produttore di sperma.
Infine, cosa possiamo aspettarci dal futuro? Come muoversi per tutelare la vita e la dignità della persona umana in un contesto così conflittuale? Vi è ancora spazio per i valori cristiani?
Se tanta parte della società contemporanea tende a marginalizzare i valori cristiani, in futuro, come suggerisce la recente dichiarazione Dignitas infinita, sarà necessario «affermare con ogni forza e chiarezza, che la difesa della vita nascente è intimamente legata alla difesa di qualsiasi diritto umano». È un compito da cui la Chiesa non può esimersi.
Difficile prevedere gli scenari che si apriranno. E’ facile però immaginare che l’obiettivo finale di questa e, presumiamo successive sentenze, sia quello legittimare e consolidare nuove forme di famiglia. In natura i colori dell’arcobaleno sono sette. Le famiglie arcobaleno rischiano di essere molte di più e ciò proietta un’ombra di inquietanti preoccupazioni e di incertezze sulla società, ma soprattutto sulle future generazioni.
© Bioetica News Torino, Giugno 2025 - Riproduzione Vietata