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Usa. La Corte Suprema: L’aborto “una questione morale” che spetta a ciascun stato regolamentarlo, non può essere un diritto fondamentale

28 Giugno 2022

«L’aborto presenta una questione morale profonda su cui gli Americani hanno visioni fortemente conflittuali […] Per i primi 185 anni dopo l’adozione della Costituzione, a ciascun Stato fu concesso di indirizzare tale argomento in accordo con le vedute dei suoi cittadini. Poi nel 1973, questa Corte ha deciso Roe versus Wade [legalizzandolo, ndr]. Sebbene la Costituzione non faccia menzione dell’aborto la Corte ha ritenuto di attribuirsi un ampio diritto nell’ottenerlo». Questa è l‘opinione rilasciata il 24 giugno scorso dalla Corte Suprema statunitense con la quale ammette il proprio errore in passato di essersi arrogata il potere di riconoscere l’aborto come diritto tra i diritti della Costituzione americana giungendo a conclusione che spetta invece a ciascuno stato, come prima del 1973, secondo le volontà dei cittadini e dei loro rappresentanti.

La Corte si è espressa sulla legittimità costituzionale richiesta dallo stato del Mississippi nel 2018, il caso Dobbs versus Jackson Women’s Health Organization, su una legge che «vieta l’interruzione volontaria di gravidanza (Gestionale Age Act) dopo le 15 settimane di gravidanza ― diverse settimane prima del punto in cui un feto ora è considerato come “viabile” al di fuori del grembo [verso la 24ma settimana, ndr]» ― eccetto i casi di emergenza sanitaria o di abnormalità fetale severa ma non nel caso di violenza o incesto. Ha infine ritenuto di optare, senza mezze misure, per il rovesciamento della sentenza Roe versus Wade con cui dal 1973 l’aborto veniva legalizzato e che venne poi nel 1992 riconfermata con il caso Casey versus Planned Parenthood. Una decisione comunque sofferta che ha ottenuto 6 pareri favorevoli e 3 contrari.

La Corte così spiega la sua decisione: «Riteniamo che Roe e Casey debbano essere rovesciati. La Costituzione non fa alcun riferimento all’aborto, e tale diritto non è implicitamente protetto da una disposizione costituzionale, inclusa quella su cui i difensori di Roe e Casey ora si affidano ― Due Process Clause del 14° emendamento. Questa disposizione è stata considerata per garantire alcuni diritti che non sono menzionati nella Costituzione, ma qualunque diritto simile deve essere “profondamente radicato nella storia e tradizione di questa Nazione” e “implicito nel concetto di libertà disposta”. Il diritto all’aborto non cade in questa categoria». Fino al 20 secolo tale diritto era del tutto sconosciuto in America; infatti, spiega, che quando il 14° Emendamento fu adottato tre quarti degli Stati consideravano l’aborto un crimine in tutte le fasi della gravidanza e poi che il diritto all’aborto è differente da qualunque altro diritto che la stessa Corte ritenne di far rientrare nelle “libertà” da proteggere dell’Emendamento 14, diverso dai diritti che regolamentano ad esempio la contraccezione e il matrimonio perché «distrugge ciò che quelle decisioni [Roe e Cases ndr] chiamavano “vita fetale” e quello che la legge ora davanti a noi descrive come un “essere umano non ancora nato”».

Le motivazioni che sono state alla base dell’Act Gestional Age del Mississippi che regolamenta l’aborto non dopo le 15 settimane, eccetto determinate situazioni, sono state – fa presente la Corte – le seguenti: alla 5 o 6 settimana di gestazione il cuore di un “essere umano non ancora nato comincia a battere”, alla 8° settimana comincia a muoversi nel grembo, alla nona tutte le funzioni fondamentali fisiologiche sono presenti, alla 10° gli organi vitali iniziano a funzionare e si formano capelli, unghie, alla 11° si sviluppa il diaframma e alla 12° assume la forma umana degna di rispetto. E aggiunge che si constatò «la maggioranza degli aborti dopo 15 settimane impiegano “procedure di dilatazione e di evacuazione nei quali l’uso di strumenti chirurgici schiacciano e lacerano il bambino non nato”, e concludeva che “l’impegno intenzionale di tali atti per ragioni non terapeutici o di elezione è una pratica barbarica, pericolosa per la madre e degradante per la professione medica».

La Corte Suprema conclude il testo Opinion of the Court. Dobbs versus Jackson Women’s Health Organization, quest’ultima una clinica per abortire, sostenendo che «l’aborto presenta una questione morale profonda. La Costituzione non proibisce i cittadini di ciascun Stato dal regolare o proibire l’aborto. Roe e Case si sono arrogati quell’autorità. Adesso ribaltiamo quelle decisioni e riportiamo quell’autorità sia al popolo e ai loro eletti rappresentanti».

Per il presidente Biden con questa sentenza la salute e la vita delle donne nel paese è a rischio, lanciando un appello per un ripristino della legalizzazione dell’aborto come legge federale. «Le donne devono rimanere libere di viaggiare in sicurezza in un altro stato per cercare le cure di cui hanno bisogno» chiarisce una nota dalla Casa Bianca, spiegando che «se una donna vive in uno stato che vieta l’aborto, la decisione della Corte suprema non le impedisce di viaggiare in uno stato che glielo consente».

Ha suscitato forti reazioni di manifestanti per la legalità dell’aborto che si sono riversati in strada dai palazzi della Corte Suprema di Washington alle diverse piazze nel mondo. Alle urla di protesta fanno da contraltare le voci soddisfatte dei movimenti pro vita e i messaggi dalle diverse realtà cristiane. Certamente rappresentano segni di inciviltà e criminalità gli sfregi ai simboli religiosi cattolici come la vernice rossa sulla statua della Madonna a New Orleans e gli atti vandalici violenti come le scritte di ritorsione riportate sui muri e i vetri rotti dei centri americani per la gravidanza pro vita arrivando fino ad appiccare incendi.

La mappa dei paesi sarà variegata dal libero accesso ai divieti con poche eccezioni. Lillis e Schnell nel loro articolo su The Hill After Roe: a messy state of play descrivono i passi del Sud, Midwest e del Mountain West che hanno già dato avvio alle restrizioni o stanno per farle mentre le altre regioni del North west, mid Atlantic Coast e il West Coast rimangono zone protettive in cui si attende che l’aborto rimanga legale. In Lousiana un giudice ha bloccato il divieto recentemente installato. I difensori degli abortisti cercando modalità per rendere gli accessi ai servizi di interruzioni di gravidanza soprattutto negli stati dove sono illegali e gli stati favorevoli al diritto dell’aborto stanno osservando strategie per accogliere le persone dagli stati in la procedura è proibita.

Dalla conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti gli arcivescovi José H. Gomez di Los Angeles, presidente della Conferenza, e William E. Lori di Baltimora del Comitato pro Vita della Conferenza, hanno portato il loro messaggio di soddisfazione per la decisione presa dalla Corte Suprema, sottolineando che «per quasi 50 anni l’America è stata obbligata ad una legge ingiusta che ha permesso alcuni di decidere se altri possono vivere o morire; questa politica ha portato come risultato alla morte decine di milioni di bambini prima di nascere, generazioni alle quali è stato negato il diritto persino di nascere». La loro dichiarazione è stata accolta e, sottoscritta, dalla nostra Pontificia Accademia per la Vita presieduta da monsignor Vincenzo Paglia.

La Pontificia Accademia per la Vita

 L’Istituzione accoglie le parole degli arcivescovi statunitensi H. Gomez e Lori in toto che pubblica sul proprio sito. Emerge tra le diverse sottolineature sulla sentenza che «La protezione e la difesa della vita umana non sono una questione che può rimanere confinata all’esercizio dei diritti individuali ma una questione di un ampio significato sociale. Dopo 50 anni, è importante riaprire un dibattito non ideologico sulla base che la protezione della vita ha in una società civile per domandarci quale tipo di coesistenza e società vogliamo costruire».

In sostanza si chiede alla politica di intervenire in favore della vita «senza cadere in posizioni ideologiche a priori». L’attenzione dovrà essere su un’educazione sessuale adeguata, garantire cura sanitaria accessibile a tutti, preparare misure legislative per proteggere la famiglia e la maternità superando le esistenti disuguaglianze; sull’assistenza alle madri, alle coppie e ai nascituri nella comunità, incoraggiare le madri in difficoltà a portare avanti la gravidanza e assicurare al bambino il diritto ad una crescita.

La Pontificia Accademia attraverso monsignor Paglia, da parte sua, commenta che la generatività umana e le condizioni per renderla possibile è una questione impellente oggi, spronando ad agire per il bene dell’umanità stessa contro la sua distruzione ben visibile di cui si ha consapevolezza: «scegliendo la vita, è in gioco la nostra responsabilità per il futuro dell’umanità».

I Knights of Colombus

Ordine dedito alla protezione delle mamme e dei loro bambini, improntato sui valori della dignità di ogni vita umana, attivo dal 1974, ha affermato: «per 50 anni Roe versus Wade ha concesso l’aborto su richiesta includendo aborti a tardo termine fino alla nascita. Questa sistema giuridico poco ragionato ha dato più di 60 milioni di vite perdute e non rappresenta la visione del popolo americano.

Dai nostri sondaggi con l’Institute Marist per l’Opinione pubblica ha mostrato consistentemente per più di 14 anni che c’è un consenso tra gli Americani nel limitare l’aborto. Più recentemente il Marist Poll ha scoperto che una vasta maggioranza di americani – l’80% – continua a credere che le leggi possano essere create per proteggere sia la salute e il benessere di una donna e la vita del nascituro. E una maggioranza ha detto che «l’aborto dovrebbe essere illegale o si ritornasse agli stati per una regolamentazione».

Il Centro Studi Livatino

Dalla sentenza della Corte Suprema emerge che l’aborto non è un diritto costituzionalmente garantito. Anche nella costituzione italiana, fa osservare Mario Giovanelli in un articolo del Centro Studi Livatino, nascita e vita sono garantiti, maternità e infanzia sono protette e la legge 194 «tutela la vita umana dal suo inizio». Quel che va garantito non è l’aborto ma il diritto di scelta delle donne, replica il prof. Giovanelli, avvocato del foro di Firenze, con rilevanti esperienze istituzionali e accademiche.

L’interesse dello Stato deve garantire la protezione di un altro soggetto degno di tutela, la vita del nascituro e considerare le esigenze sociali dovute al calo della natalità.

Rinvia per ora la discussione sul restringimento della legge 194 in senso restrittivo perché i tempi non sono da noi favorevoli ma «la sentenza della Corte americana pone il problema e risollecita il dibattito sul significato della vita umana, sulla sua protezione, sulla donna, sulle sue scelte e sulla tutela effettiva della maternità, aprendo il campo a nuove più civili e umane prospettive».

L’abrogazione della 194/1978 in Italia può essere possibile?

Può esserci una coraggiosa spinta verso tale impegno da parte di «coloro che da sempre ritengono che la 194 non sia buona. Può essere un’opportunità per mettere in discussione una legge ingiusta», afferma monsigno Suetta, vescovo di Ventimiglia -San Remo, strenuo difensore della vita nascente in un’intervista su La Nuova Bussola. Se la legge 194 si presenta come “tutela sociale della maternità” finisce poi per non realizzarla facilitando invece l’atto delittuoso, l’aborto. Così per monsignor Suetta la legge 194 non può essere considerata buona. Invece bisognerebbe dire: «la legislazione, se si vuole ispirare a corretti principi antropologici sia sul piano della fede che su quello laico, deve affermare che l’aborto è illecito. E, allo stesso tempo, prevedere forme di tutela della maternità e di promozione della natalità».

E dinanzi alle tante voci cattoliche che hanno perplessità nell’abrograzione della 194 occorre ricordare che nel caso dell’aborto, come spiega Suetta il valore della vita nascente è quello che è viene messo in gioco, che va tutelata, a maggior ragione perché più indifesa, la dignità e la sacralità della vita umana e non la libertà di scelta.

(aggiornamento 28 giugno 2022, ore 17.34)

redazione Bioetica News Torino