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6 Febbraio 2013
Bioetica News Torino Febbraio 2013

Comunicare la scienza, comunicando la vita

Il nodo che lega scienza e vita è uno dei più delicati. Esso è divenuto ancor più cruciale a causa delle accresciute potenzialità della scienza, capace di soccorrere l’uomo e di facilitarne l’azione, ma anche di distruggerlo e annichilirne le istanze più profonde. Il potere della scienza è uno dei temi più presenti nel dibattito culturale contemporaneo e costituisce, in un mondo secolarizzato, ormai una delle poche certezze universalmente condivise. La comunicazione, d’altra parte, non è semplicemente uno dei tanti ambiti della nostra vita quotidiana, ma è ormai il nostro ambiente esistenziale. La scienza e la vita non possono quindi prescindere in alcun modo dalla comunicazione.

A partire da questa premessa, la riflessione si articolerà in tre passaggi:

1 – una ricostruzione critica del ruolo che scienza e tecnica hanno assunto nella cultura contemporanea. Sempre più tentate di autoreferenzialità, esse  prescindono da qualsiasi ordine di riferimenti esterno a quello della fattibilità, con effetti di paradossale espropriazione tanto della libertà quanto dell’umanità stessa dell’essere umano;

2 – un ripensamento della comunicazione, sempre meno semplice trasmissione di contenuti e sempre più capace di dar forma al modo in cui l’uomo concepisce se stesso e il mondo in cui vive. Per questo è sempre più urgente conoscerne le dinamiche fondamentali, in modo da abitare questo nuovo “contesto esistenziale”1, senza pregiudizi ma pure senza ingenuità;

3 – una riflessione su come la comunicazione possa oggi essere messa a servizio di una maggiore tutela della vita e contribuire a fare sì che la scienza sempre più si orienti al riconoscimento e alla promozione della dignità di ogni persona. Tenendo conto della necessità di individuare linguaggi più adeguati, che superino l’atrofia affettiva così come l’emotivismo allergico alla riflessione.

1. Lo scientismo moderno e i suoi effetti antropologici

La concezione odierna della scienza affonda le sue radici nello sviluppo della tecnica e delle conoscenze empiriche, acceleratosi enormemente in epoca illuminista. Alcuni pensatori e scienziati hanno un ruolo più centrale: da Bacone a Cartesio sino a Comte, la via è tracciata dallo stadio teologico a quello positivo, in cui gli uomini finalmente accettano i limiti della loro conoscenza, guadagnando in precisione. Questa svolta comporta l’esclusione del mondo dei fini dal discorso scientifico, l’unico ormai a cui si attribuisca un carattere di oggettività e validità, perché basato sulla misurazione dei dati empirici. Esso non si deve occupare del senso della vita dell’uomo, ma solamente dei mezzi necessari al raggiungimento di fini meramente immanenti. La ragione umana, in tale quadro, si riduce alla capacità tecnica di realizzare operazioni, perdendo lo spessore metafisico e contemplativo grazie al quale poter scrutare più in profondità la vita dell’uomo per coglierne il valore.

L’uomo così non è che uno fra i tanti elementi della natura: il più influente, ma non dotato di una differenza qualitativa rispetto al mondo. E la vita umana diventa “disponibile”, perché la sua dignità non si fonda più sulla trascendenza della persona. «Nel paradigma dell’illuminismo tecnologico – nota Pietro Barcellona – il mondo appare come una macchina funzionante secondo combinazioni automatiche, destinate a prolungare un percorso senza scopo né fine: alla metafisica del soggetto si sostituisce così la metafisica della tecnica»2.

Da qui la fine dell’etica

Da qui la fine dell’etica, come scienza capace di orientare l’uomo al suo perfezionamento morale e al suo fine ultimo trascendente: essa si dissolve, ridotta al calcolo proporzionalista della massimizzazione dell’utile. Il bene non è più ciò che promuove la persona umana, ma quanto le consente di massimizzare soddisfazione e risultati sensibili.

È ciò che avviene quando lo sviluppo economico si realizza a danno dell’uomo e dell’ambiente in cui vive, o quando la scienza prescinde dalla persona e realizza i suoi scopi senza tenere conto del ritorno delle sue scoperte sull’uomo stesso.

La scienza, si pensa, non può arrestarsi, deve fare il suo corso. Ciò che essa può tecnicamente realizzare è di per sé lecito e non spetta a un criterio esterno il regolarne l’azione. Lo sviluppo tecnologico da mezzo diventa fine; detta l’agenda dell’agire umano e ne dirige il destino.

Tale riduzione scientista non apre, tuttavia, scenari di libertà: «Tutto lo scientismo moderno tende infatti a deresponsabilizzare il soggetto, riducendo ogni azione a una reazione automatica a impulsi determinati dalla struttura bio-fisica degli esseri umani3».Il fiorire contemporaneo delle neuroscienze si colloca precisamente in questo tentativo di spiegare ogni comportamento, perfino i sentimenti dell’uomo, come una risposta biochimica agli stimoli esterni4.È quanto afferma Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate: il riduzionismo neurologico porta a

considerare i problemi e i moti legati alla vita interiore soltanto da un punto di vista psicologico, fino al riduzionismo neurologico», e così «l’interiorità dell’uomo viene svuotata e la consapevolezza della consistenza ontologica dell’anima umana […] progressivamente si perde.

La rinuncia al giudizio – che richiede la domanda sul senso, sui fini, e quindi sui limiti dell’azione umana – e la tecnicizzazione delle questioni sociali sono ciò che, per H. Arendt e più tardi per Z. Bauman, ha reso possibile tragedie come l’olocausto. In questa prospettiva, il male non è il prodotto deliberato di una mente malvagia, ma è l’effetto collaterale, “banale”, di scelte che hanno eliminato la capacità di valutare e discernere, sulla base di una concezione di cosa sia l’umanità dell’essere umano. Atrofia affettiva e incapacità di riflessione ne sono gli esiti evidenti.

È in questo quadro che si colloca il dibattito sul post-umano: «Lo scenario post-umano – scrive E. Pulcini –  […] non è più solo quello di una vita manipolata, di corpi alterati, frammentati e clonati, e neppure solo quello di un assoggettamento omologante al mondo seduttivo delle merci, bensì quello della perdita stessa della vita e della scomparsa dell’umanità5». L’assolutizzazione dell’individuo, divenuto un “uomo senza mondo”, produce paradossalmente la sua cancellazione in un mondo ipertecnicizzato e sempre più post-umano: un “mondo senza uomo”.

Lo scientismo contribuisce dunque a un appiattimento della vita sulla scienza e non comprende l’eccedenza del mistero rispetto a ciò che è misurabile e quantificabile6. Se nel linguaggio scientifico il simbolo è riferito convenzionalmente a un significato preciso e ben perimetrabile, nel linguaggio della vita il simbolo si riferisce a una realtà che non può essere mai del tutto compresa. Per questo la vita  eccede la scienza7.

Il linguaggio scientifico non è l’unico linguaggio

Il linguaggio scientifico non è l’unico linguaggio; l’uomo ha bisogno della poesia, che permette di avvicinarsi alla vita come a qualcosa di sacro e inviolabile, con uno stupore in cui si riconosce la novità e la gratuità. Come scriveva Novalis, in quanto coglie il suo “di più”, «il poeta intende la natura meglio dello scienziato».

Uno sguardo illuminato dalla meraviglia davanti all’essere stesso delle cose potrà vedere nella natura l’«espressione di un disegno di amore e di verità», e farà comprendere che «né l’essere umano né la natura possono essere manipolati indiscriminatamente8».  Un approccio alla natura e all’uomo9 basato sul possesso e il dominio svilisce invece entrambi, senza permettere un loro armonico sviluppo, né una comunicazione tra scienza e vita.

2. Sfide e opportunità della comunicazione nell’era digitale

Comunicare la scienza comunicando la vita non significa semplicemente non dimenticarsi dell’uomo nel trattare le scoperte scientifiche, né pensare ingenuamente che la scienza vada automaticamente a beneficio della vita. Più profondamente, significa mettere in comunione la scienza con la vita, perché solo in questa sintesi umanistica la scienza non si trasforma in un boomerang distruttivo dell’ambiente e dell’uomo. Questo obiettivo si scontra senza dubbio con una serie di difficoltà, “ambientali” prima che ideologiche.

Una prima difficoltà riguarda il mondo dei media: oggi sembra molto più semplice comunicare la scienza che comunicare la vita. I successi della scienza, infatti, sono sempre notiziabili, trasformabili in eventi mediatici, come nel caso del primo viaggio sulla luna o della prima clonazione. Scienza e tecnica sono per i media fonti di notizie dal carattere trionfale, presentate come vittorie dell’uomo sulla natura e sulla propria finitezza, come nella ormai classica tipologia di Katz e Dayan10: “conquiste”, perché superano un limite fino a quel momento ritenuto invalicabile.

La vita nel suo fluire silenzioso, positivo e potente, non può invece essere trasformata in notizia al modo delle scoperte della scienza. Un bambino che nasce non fa notizia, né chi assiste una persona malata.

Una seconda difficoltà riguarda quella che definiamo la “sacralità intoccabile” della scienza nel mondo contemporaneo. Si tratta dell’equivoco ingenerato dal clima scientista, per cui la conoscenza scientifica, verificabile e cumulabile, rimane l’unico paradigma del sapere e il criterio per distillare la conoscenza empirica dalle forme di conoscenza ritenute infantili o primitive, come il mito e la fede. Un’equivalenza che è però ingannevole: la scienza conosce, ma il sapere ha un elemento ulteriore ai contenuti sperimentali, che è il senso. Per gli antichi sapio significava “sentire rettamente” e riguardava sia il senso del gusto sia la bontà etica. Sapere non dunque come conoscenza intellettuale corretta ma come conoscenza vitale di una dottrina retta, che conduce l’uomo alla sapienza. È rispetto a questa sapienza che la scienza è muta, perché ad essa resta opaco proprio ciò che per l’essere umano è più importante: il desiderio di comprendere il senso della propria vita.

Una terza difficoltà riguarda dunque la mancata distinzione tra scienza e sapienza. Di fatto nell’idea di progresso che ha caratterizzato tutta la modernità la scienza è vista come fonte certa di conquiste benefiche, quasi un’alleata naturale e indiscutibile della vita, perché dotata di un’efficacia evidente.

In realtà, dopo il lancio della bomba atomica è diventato chiaro che scienza, tecnica e vita non vanno necessariamente a braccetto, e che la scienza può produrre effetti di devastazione che vanno ben oltre le capacità di previsione dell’essere umano. La scienza genera quella che è stata chiamata la “società del rischio”11, in cui le catene degli effetti delle nostre operazioni ci sfuggono di mano e l’uomo diventa la prima vittima del progresso da lui realizzato. Si tratta del cosiddetto “dislivello prometeico”, enunciato filosoficamente da Günther Anders12 per il quale l’uomo contemporaneo, che come Prometeo intende ergersi al livello della divinità, non è all’altezza delle sfide davanti a cui lo pongono gli sviluppi della tecnica da lui stesso prodotta. È quanto messo in luce anche da Hans Jonas nel suo saggio Il principio di responsabilità13 nel quale l’uomo, che aderisce passivamente e acriticamente alla hybris prometeica perde, con la dimensione simbolica, anche la capacità di dare senso e determinare la direzione del proprio agire.

“Dislivello prometeico”
G. Anders

L’appiattimento della sapienza sulla scienza si accompagna al fenomeno della secolarizzazione, processo in sé ambivalente e dall’esito paradossale. Ambivalente perché, come scrive Pierangelo Sequeri, «la secolarizzazione fu piegata a un puntiglioso progetto di superamento della religione, eredità di una visione arcaica del mondo»14. Nella sua versione prevalente di promozione di un “ateismo metodico”, la secolarizzazione produce in realtà uno spostamento del sacro dalla sfera trascendente a quella immanente. L’uomo ha bisogno del sacro e rende sacro ciò in cui crede di poter riporre la propria speranza. Con un esito paradossale, perché a fronte del rifiuto del sacro si verifica una sacralizzazione di espressioni dell’umano quali la tecnica, il corpo, lo sport.

Queste difficoltà ambientali rendono più ardua la comunicazione del valore della vita, perché nella loro parzialità mascherata da universalismo minano la ricerca della verità; mentre «la legittima libertà nelle comunicazioni sociali non potrà mai dissociarsi dal riferimento alla verità»15.

Oggi le informazioni sono trattate al pari di una merce ed è più facile, sul mercato della comunicazione mediatica, piazzare le notizie negative e si preferisce creare  “casi” che polarizzano le diverse posizioni, costringendo il pubblico a schierarsi, più che a interrogarsi.

Questo modo di ritagliare e “incorniciare” le questioni non aiuta la riflessione su situazioni che sono sempre estremamente variegate e complesse, e non possono essere banalizzate o ipersemplificate a uso della chiarezza delle diverse posizioni in campo. Ciò produce infatti un senso di equivalenza e di riferimento esclusivamente soggettivo rispetto a questioni che sono invece comuni, perché relative all’essere umano in quanto tale, e non dovrebbero essere affrontate sulla sola base delle sensibilità personali. Su ciò che riguarda la vita umana il confronto pubblico dovrebbe condurre a elaborare un’etica condivisa e la comunicazione mediatica a favorire un confronto costruttivo.

L’era digitale in cui viviamo chiede di essere ancor più consapevoli delle potenzialità e insieme delle ambiguità di questa nuova stagione post-mediale16.

3. Nuove prospettive della comunicazione in relazione a scienza e vita

Dal punto di vista etimologico, la comunicazione ha a che fare con la riduzione della distanza e l’allargamento di ciò che è “comune”: è un processo generativo, che crea qualcosa che prima non c’era, e che è in grado di produrre “comunione”. Di conseguenza, comunicare la scienza e comunicare la vita non può significare semplicemente veicolare messaggi a riguardo dell’una o dell’altra, o limitarsi, banalmente, a colmare il salto tra scienza e sapere quotidiano attraverso forme più o meno riuscite di “divulgazione”; l’obiettivo più alto è piuttosto quello di far dialogare i due ambiti, riducendo la distanza che si è venuta a creare e decostruendo le sovrapposizioni acritiche.

Nella comunicazione in generale, ma ancor più in quella digitale, si verifica quella trasformazione di emittente, messaggio e ricevente cui si riferiva McLuhan quando scriveva che “il medium è il messaggio”17: la relazione che si instaura tra coloro tra cui si realizza la comunicazione è la parte più importante del messaggio stesso.

Ora, la costitutiva interattività del web permette di costruire il sapere in modo partecipato18: nessuno è più solo “recettore”.

Di fronte al cambiamento si pone dunque anche per i cattolici e per tutta la Chiesa la necessità di trovare nuovi linguaggi, adeguati ai tempi.

Comunicare in modo astratto, facendo riferimento a un concetto di natura presentato come statico ed essenzialistico, oggi non si può più. Come ha fatto Gesù con le parabole, occorre una modalità che raggiunga le persone là dove sono e impieghi il loro linguaggio, fatto di immagini ed emozioni, più che di concetti e di spiegazioni.

Quando si affrontano questioni delicate come l’aborto, non si pone solo il problema di “dire cose vere”, ma occorre mettersi con carità vera nei panni dell’interlocutore, mostrando un’altra faccia della realtà in cui potersi riconoscere.

Il messaggio della Chiesa sulla vita è spesso ostacolato da una serie di chiusure ideologiche e pregiudizi, pre-comprensioni viziate da stereotipi e semplificazioni, oltre che dalla distrazione e dall’indifferenza.

Oggi i nostri interlocutori sono spesso distratti, colpiti da miriadi di messaggi, talora contrastanti, posti tutte sullo stesso piano, benché di diverso valore.

Si richiede una capacità effettiva di mettersi in ascolto del mondo

Di tali caratteristiche dovremo renderci consapevoli. Indispensabile è, oggi più che mai, la riuscita di quest’opera di sintonizzazione, cioè la capacità di parlare un linguaggio comprensibile e vicino, che sappia parlare ai cuori e non sia indirizzato solo alle intelligenze; ciò che ci si richiede è quindi una capacità effettiva di mettersi in ascolto del mondo, prima ancora che professionalità specifiche.

Solo così sarà possibile un po’ per volta modificare concezioni radicate e stili di vita consolidati.

La comunicazione è sempre un mix di razionalità e di emotività, di logos e di pathos e non bisogna farsi bloccare da false alternative. Nessun sapere autenticamente umano è mai asettico, neutrale, anaffettivo. E quando, lo diventa, l’essere umano risulta capace di autentiche atrocità. Per questo scriveva ancora Guardini:

Non dobbiamo irrigidirci contro il nuovo, tentando di conservare un bel mondo destinato a sparire. E neppure cercare di costruire in disparte, mediante una fantasiosa forza creatrice, un mondo nuovo che si vorrebbe porre al riparo dai danni dell’evoluzione. A noi è imposto il compito di dare una forma a questa evoluzione, e possiamo assolvere tale compito soltanto aderendovi onestamente; ma rimanendo tuttavia sensibili, con cuore incorruttibile, a tutto ciò che di distruttivo e di non umano è in esso19.

Lo ha compreso in modo icastico Benedetto XVI quando ricorda a tutta la Chiesa e agli uomini di buona volontà:  «Non c’è l’intelligenza e poi l’amore: ci sono l’amore ricco di intelligenza e l’intelligenza piena di amore»20.

 


Bibliografia

1  CEI, Educare alla vita buona del Vangelo, n. 51

2  BARCELLONA P., La nostalgia di Dio nell’epoca contemporanea, Macondo Libri, Vicenza 2011, pag. 40

3 BARCELLONA P., op. cit., pag. 14

4 BENEDETTO XVI, Caritas in veritate, n. 76, 2009

5 PULCINI E., «Dall’homo faber all’homo creator», in Sanna I. (a cura di), La sfida del post-umano, Studium, Roma 2005, pag. 21

6 «Quanto più decisamente si razionalizza l’esistenza, quanto più questa razionalità diviene una componente generalizzata della cultura, tanto più forte deve avvertirsi il sentimento che l’esistenza non presenti alcun “mistero”, ma solo “problemi” che potranno risolversi scientificamente» (GUARDINI R., Sul limite della vita, , Milano 1994, pp. 62-63

7 Nota R. GUARDINI, Religione e rivelazione, Milano 2001, p. 23: «Tutte le cose attestano se stesse come reali ed essenziali: ma allo stesso tempo lasciano intuire che non sono l’elemento definitivo, sono piuttosto punti di passaggio attraverso i quali si manifesta l’elemento veramente definitivo e autentico: forme espressive che lo manifestano. Questo significa che tutte le cose hanno un carattere simbolico. […] Qualcosa affiora da dietro di esse o da sopra di esse, esce attraverso di esse, coglie lo spirito e attraverso di esse lo riporta là da dove esso stesso proviene. Le cose significano se stesse e allo stesso tempo più di se stesse. Sono realtà immediata e simbolo nello stesso tempo».

8 BENEDETTO XVI, Caritas in veritate, n. 48

9 Ricorda Benedetto XVI che «le modalità con cui l’uomo tratta l’ambiente influiscono sulle modalità con cui tratta se stesso e, viceversa», in Caritas in veritate, n.51

10  Katz  E.-Dayan D., Le grandi cerimonie dei media, Baskerville, Bologna 1995

11 BECK U., La società del rischio, Carocci, Roma 2000

12 ANDERS G., L’uomo è antiquato, Bollati Boringhieri, Torino 2003 (1956)

13 JONAS H., Il principio di responsabilità, Einaudi, Torino 1990 (orig. tedesco 1979)

14 SEQUERI P., Contro gli idoli postmoderni, Lindau, Torino 2011, pag.73

15  CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA,  Comunicazione e missione. Direttorio sulle comunicazioni sociali nella  missione della Chiesa, 2004, n. 90

16 GIACCARDI C., Abitanti della rete, Milano 2010; POMPILI D., Il nuovo nell’antico, Milano 2011

17  MCLUHAN M., Understanding Media: The Extensions of Man, Gingko Press, N.Y. 1964 (trad. it. Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano 2008)

18 Di grande importanza e testimonianza del vivo interesse della Chiesa  è stato il grande Convegno Testimoni Digitali, coordinato dall’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali della CEI e svoltosi a Roma il 22-24 aprile 2010

19 GUARDINI R, Lettere dal lago di Como:  la tecnica e luomo, Brescia 1993, pag. 95

20 BENEDETTO XVI, Caritas in veritate, n. 30

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