Si può dire tutto sul cinema Hollywoodiano contemporaneo (si potrebbe verosimilmente discorrere per ore dei suoi pochi pregi e innumerevoli difetti) ma non si può negare che negli ultimi anni si è assistito a un brusco cambio di rotta, un picco di qualità registica che ha sorpreso anche i più scettici e che ha portato nuovamente alla ribalta quell’attempato e quasi dimenticato cinema di spessore in grado di appassionare grandi e piccini.
In questo sparuto gruppo di registi visionari, Todd Haynes è di certo il più elegante e raffinato, secondo forse solo all’imbattibile Woody Allen; eppure, a differenza del geniale e ormai iconico film maker newyorchese, Haynes conserva uno stile più marcatamente naif e squisitamente pittorico, prediligendo primi e primissimi piani alla maestosa asciuttezza teatrale alleniana.
La sua ultima impresa registica, Wonderstruck – La Stanza delle Meraviglie, è un’efficace fusione tra romanzo e cinema, realtà e fantasia, il tutto condito da un’ottima padronanza tecnica e un’ammirevole leggerezza di racconto.
Tratto dall’omonima opera grafico-letteraria di Brian Selznick (che firma anche la sceneggiatura), Wonderstruck narra la storia di due ragazzini di epoche differenti − 1927 lei, 1977 lui − entrambi sordi e in cerca di riscatto dalle disavventure della vita. Rose fugge di casa per andare a New York a cercare il suo idolo, l’attrice Lillian Mayhew. Ben si reca, solo, nella città che non dorme mai per cercare il padre sconosciuto, dopo la morte della madre. Le due storie vengono raccontate in modo parallelo, finendo poi per intrecciarsi drammaticamente l’una con l’altra.
Haynes rinuncia ai toni crudi e melodrammatici già utilizzati nell’impegnativo Carol, preferendo un approccio più morbido, vellutatamente retrò, e un montaggio agile e fluido.
Le luci di Ed Lachman illuminano magnificamente ogni scena, restituendo eleganza agli anni ‘20 e freschezza ai ‘70 (in alcuni momenti pare quasi di trovarsi all’interno di una fotografia di Lartigue o di Protopapas).
La sordità dei due protagonisti dà il via libera a un cinema fatto essenzialmente di sguardi e gesti, spesso fin troppo accentuati. Numerosi i riferimenti al cinema muto (Fritz Lang in primis, con l’inquietante Il Mostro di Dusseldorf); incantevole la scenografia, curata da una Debra Schutt in splendida forma.
Buone anche le performance dei due attori protagonisti, Millicent Simmonds e Oakes Fegley, nonostante la forte presenza scenica della Simmonds oscuri nettamente il più ordinario Fegley.
La sceneggiatura, ridotta all’osso, accompagna in modo piuttosto anonimo lo sviluppo del film, che rimane fino alla fine (così come i due personaggi principali) più visivo che uditivo.
Nel complesso, Wonderstruck è un film d’altri tempi, dal sapore malinconicamente nostalgico e a tratti esasperatamente elegiaco. Pur muovendosi con ritmo incalzante, rischia spesso di cadere nella trappola dell’auto referenzialismo, perdendo di vista la trama a favore dell’ossessiva ricerca di una ricostruzione storica pericolosamente minuziosa, seppur stupefacente.
Fiore all’occhiello: la sempreverde Julianne Moore che, sebbene in una parte marginale, restituisce spessore all’intero film.
© Bioetica News Torino, Agosto 2018 - Riproduzione Vietata