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17 Febbraio 2014
Bioetica News Torino Febbraio 2014

Notizie dal Mondo

1.  Usa, contraccezione: primo no dei giudici

2 gennaio 2014

Il 2014 si preannuncia una strada in salita con riguardo a due delle “pietre miliari” dell’Amministrazione Usa: Obamacare e i matrimoni gay. Solo poche ore prima dello scoccare del nuovo anno, infatti, la Corte suprema Usa ha bloccato, seppur temporaneamente, quella parte della legge sanitaria che, a partire dal 1° gennaio, avrebbe costretto i gruppi con affiliazione religiosa a fornire copertura contraccettiva ai propri dipendenti.

Sonia Sotomayor, il giudice nominato alla Corte costituzionale proprio dal presidente Barack Obama, ha accolto l’appello delle suore cattoliche “Little sisters of the poor” – che dal primo gennaio avrebbero dovuto violare i propri principi religiosi o venir punite con ammende –, e dato tempo al governo americano fino al 3 gennaio per rispondere sul da farsi. Separatamente, poi, il massimo organo giudiziario Usa ha ricevuto dallo Utah la richiesta di sospendere la sentenza federale che ha aperto la strada ai matrimoni omosessuali nello Stato. Solo il 3 gennaio si saprà se la Corte costituzionale americana accetterà di esaminare il caso dello Stato a predominanza mormone nella sua lotta per far valere la definizione di matrimonio quale l’unione tra un uomo e una donna.

È chiaro, però, che – nonostante la sentenza che lo scorso giugno ha eroso parte della legislazione Doma (Defense of marriage act) e stabilito che le coppie omosessuali hanno diritto agli stessi benefici federali – la questione sulla costituzionalità dei matrimoni gay continuerà a incombere fino al giudizio definitivo da parte della Corte. Allo stesso modo, dopo centinaia di ricorsi legali per evitare l’imposizione della copertura sanitaria contraccettiva e il braccio di ferro tra la Casa Bianca e i fedeli americani riguardo la libertà religiosa negli Usa, l’ultima parola al riguardo potrebbe essere proprio quella della Corte costituzionale. Il 1° gennaio, la Casa Bianca si è infatti detta certa che la regolamentazione «offre un punto di equilibrio» tra la fornitura della contraccezione gratuita alle donne e le obiezioni dei gruppi religiosi.

Già al vaglio dei 9 giudici sono i casi di due società private gestite da famiglie cristiane che, in base al loro credo, non vogliono fornire farmaci «abortivi» ai propri lavoratori, ma che in base alla legge, non avrebbero diritto all’esenzione. Nell’accettare l’appello delle suore cattoliche, Sotomayor ha quindi inoltre ammesso la debolezza dell’“escamotage” creato dal governo in risposta all’opposizione dei gruppi con affiliazione religiosa di offrire contraccezione (anche abortiva) ai dipendenti. Per non violare il mandato della legge, le suore avrebbero infatti dovuto trovare un gruppo assicurativo che fornisse servizi di contraccezione e dare l’autorizzazione per tale copertura; azioni identificate dall’Amministrazione come un «accomodamento» per le associazioni religiose, ma chiaramente contrarie al loro credo.

Loretta Bricchi Lee
(Fonte: «Avvenire»)

2. Cannabis legale dall’Uruguay al Colorado. Scoppia il dibattito

2 gennaio 2014

Sono sempre di più i Paesi nel mondo che stanno legalizzando l’uso della cannabis. Ultimo in ordine di tempo lo stato americano del Colorado. E il dibattito, come era prevedibile, si è subito infiammato tra favorevoli e contrari. Al di là delle posizioni ideologiche, da più parti si sottolinea l’aspetto economico della legalizzazione delle cosiddette droghe leggere. In particolare l’economista francese Pierre Kopp, dell’Università Paris-I, ha fatto notare come l’alto costo delle politiche repressive da una parte e i mancati (potenziali) ricavi dalla tassazione della marijuana dall’altra non fanno altro che togliere risorse alle casse statali. Una vera e propria rivoluzione socio-culturale che sta animando il dibattito internazionale.

D’altro canto sono oltre 25 anni che la guerra alla droga si combatte senza successo, in particolare nel campo della cannabis, con un costo esorbitante da parte della collettività, che non solo non ricava benefici da questo mercato illegale, ma spende soldi per la prevenzione e la sanzione.

Non sorprende quindi la decisione del Colorado, dove è in corso una vera e propria corsa all’oro verde da parte di produttori, commercianti e consumatori di marijuana. Entrata in vigore il primo gennaio, la norma che legalizza la vendita della cannabis fino a 28 grammi per coloro che hanno compiuto 21 anni e ne consente la coltivazione in casa fino a sei piantine (non più di 12 a famiglia), trasformerà Denver, la capitale dello stato americano, in una sorta di nuova Amsterdam. Per gli amanti del genere il conto alla rovescia era iniziato nel novembre del 2012, quando in seguito ai risultati di un referendum il Colorado e lo Stato di Washington hanno concesso il disco verde all’uso della marijuana per scopi ricreativi e medici.

Il mercato potenziale è enorme: secondo una ricerca della società ArcView, le vendite di cannabis legale aumenteranno del 64% tra il 2013 e il 2014, da 1,4 miliardi a 2,34 miliardi di dollari. In Colorado sono state concesse licenze a 348 negozi, che potranno vendere fino a 28 grammi di cannabis ai maggiori di 21 anni. Nello Stato di Washington sono state depositate 3.746 richieste di licenza.

Anche se nei negozi la cannabis è più cara che in strada, visto che costa quasi il doppio, i fautori della legge sono sicuri che con questa legge si toglierà una grossa fetta di mercato alla criminalità. Al bancone dei coffee shop si deve mostrare un documento di identità e si può pagare solo in contanti. In questi locali, di solito, si vendono anche bong, pipe e tutto ciò che serve per fumare. E per i più pigri si possono comprare anche spinelli già rollati.

A dicembre l’Uruguay era stato il primo Paese al mondo a legalizzare l’uso e la coltivazione “libera” della cannabis. Al termine di 12 ore di dibattito il Senato aveva approvato il testo definitivo. I deputati avevano già dato il loro ok alla legalizzazione a luglio. Se la costituzionalità della legge sarà confermata, essa entrerà in vigore nell’aprile 2014.

La nuova normativa autorizzerà la produzione, distribuzione e vendita di cannabis e permetterà ai privati cittadini di coltivare in proprio l’erba su scala ridotta per poterla rivendere a gruppi di consumatori, ma tutto sotto il controllo e la supervisione dello Stato. La legalizzazione della marijuana in Uruguay è un’iniziativa del presidente José “Pepe” Mujica, 78enne ex guerrigliero Tupamaros, che tuttavia ha riconosciuto lo spirito sperimentale del progetto, che va ben oltre le misure da poco approvate negli Stati americani del Colorado e Washington o a leggi simili in Olanda e Spagna. In base alla nuova legge, i consumatori maggiorenni potranno coltivare fino a sei piante per persona o acquistare la marijuana dai gruppi di coltivatori o un massimo di 40 grammi al mese in farmacia. Dovranno comunque registrarsi presso gli sportelli del governo. La cannabis rappresenta il 70% del consumo di droghe in Uruguay e il suo uso si è ampiamente diffuso nell’ultimo decennio con circa 200mila consumatori su 3 milioni e mezzo di abitanti.

(Fonte: «Affaritaliani.it»)
(Approfondimenti: http://www.arcviewmarketresearch.com/)

3. El Nino, l’anomalia dei tropici che fa sciogliere il ghiacciaio in Antartide

2 gennaio 2014

È un anomalo riscaldamento delle acque nel Pacifico Tropicale – rivelano gli ultimi studi – a contribuire all’aumento della temperatura dell’Antartide. Questo fenomeno, causato da un temporaneo indebolimento degli alisei, i venti regolari che dominano i tropici, ha effetti diretti sullo scioglimento di un ghiacciaio antartico che si trova a diecimila chilometri di distanza: quello di Pine Island Bay, una strada naturale imboccata dal ghiaccio in scioglimento che parte dal continente verso l’oceano. Il merito di questa scoperta è di un gruppo di ricercatori internazionale coordinato dall’Università di Washington, che ha analizzato dati sui venti e le temperature delle acque antartiche.

Negli ultimi 40 anni molte osservazioni hanno verificato che lo spesso strato di ghiaccio che costituisce Pine Island Bay si sta assottigliando con rapidità e la sua velocità di avanzata verso l’oceano è in costante aumento. Nel tentativo di comprendere il fenomeno, i ricercatori hanno scoperto che lo scioglimento del ghiacciaio ha uno stretto legame con la direzione dei venti locali, che sono a loro volta influenzati dai fenomeni climatici dei Tropici associati a El Nino. «Questi risultati – ha spiegato Eric Steig, uno degli autori del lavoro – dimostrano che lo scioglimento dei ghiacci che ricoprono l’Antartide può essere correlato alle condizioni climatiche di altre parti del pianeta».

Il fenomeno tropicale che influisce su questo scioglimento è comunque un’anomalia: in condizioni normali, la pressione atmosferica della fascia tropicale è bassa sulle coste dell’Indonesia e alta sulle coste del Cile e del Perù. Ciò crea un movimento d’aria da est verso ovest che dà vita agli Alisei. Questa ventilazione alimenta anche le correnti oceaniche di superficie, accumulando acqua con temperatura più elevata sul Pacifico occidentale e più bassa sul Pacifico orientale. Quando la differenza di pressione atmosferica tende a diminuire i venti Alisei si attenuano o cessano di soffiare, portando a un accumulo di acqua più calda in superficie sul Pacifico centro orientale: il fenomeno ciclico de El Nino, appunto.

Nel 2012, però, i ricercatori hanno registrato una riduzione dello scioglimento del ghiacciaio di Pine Island Bay. Questa inversione di tendenza è stata imputata al fenomeno ciclico contrario a El Nino, un forte raffreddamento della superficie dell’Oceano Pacifico equatoriale, rinominato con molta fantasia ‘La Nina’. Per gli scienziati quindi il 2012 è stato solo un caso isolato e non rappresenta la possibilità di fermare lo scioglimento dei ghiacci del Polo Sud nel lungo periodo.

Il nome El Nino – che letteralmente significa Gesù Bambino – deriva da eventi legati a questo fenomeno (ad esempio bassa pescosità dei mari) che si sviluppano intorno al periodo natalizio.

(Fonte: «La Repubblica»)
(Approfondimenti: http://www.sciencemag.org/content/early/2014/01/02/science.1244341.abstract)

4. Ricerca 2014. Ecco quelle più promettenti secondo «Nature». Dall’esoscheletro all’HIV

3 gennaio 2014

Due farmaci anticancro, un anticorpo che nelle scimmie uccide un virus imparentato con l’HIV, un esoscheletro che potrebbe aiutare chi ha problemi alla spina dorsale. Ma l’elenco non finisce qui. Parliamo delle ricerche mediche che gli scienziati porteranno avanti nel 2014 segnalate dalla rivista britannica «Nature» in un elenco che comprende tutte le più promettenti ricerche scientifiche previste per il nuovo anno.

Cancro

Nell’industria farmaceutica, gli occhi sono puntati su due anticorpi che aiutano il sistema immunitario a combattere il cancro. I farmaci in questione sono il nivolumab e il lambrolizumab, che lavorano bloccando le proteine che ostacolano le cellule T – centrali nella risposta immunitaria – dall’attacco di un tumore. «Nei primi test i farmaci hanno suscitato nei pazienti una risposta migliore rispetto all’ipilimumab, una terapia simile che è stata lanciata nel 2011 per trattare il melanoma in stadio avanzato», si legge nel testo.

AIDS

Nel 2013, due gruppi di ricerca hanno dimostrato che alcuni anticorpi, che colpiscono certi tipi di HIV, nelle scimmie eliminano un virus imparentato ad esso. Nel 2014, questa terapia sarà testata in pazienti sieropositivi e i risultati sono attesi nel prossimo autunno. Inoltre, la guarigione di un bambino nato con l’HIV, avvenuta l’anno scorso, potrebbe portare a più vasti trial sulla terapia utilizzata: alte dosi di farmaci antiretrovirali somministrati alla nascita.

Cervello e funzioni motorie

In neurobiologia Miguel Nicolelis dell’Università Duke, a Durham negli Stati Uniti, ha sviluppato un esoscheletro controllato dal cervello che potrebbe aiutare una persona con lesioni alla spina dorsale a tirare il calcio d’inizio dei prossimi mondiali di calcio in Brasile, come si legge ancora su «Nature». Nel frattempo, sono state fatte delle prove in persone con paralisi per ricollegare il cervello direttamente alle zone paralizzate, invece che ad arti robotici o esoscheletri. Da non dimenticare poi, sul fronte delle neuroscienze, lo Human Brain Project europeo, un progetto molto ampio che mira, entro il 2023, a realizzare al computer una mappa completa del cervello umano.

Sistema immunitario e cervello

Uno studio della Università Keio di Tokyo, guidato da Erika Sasaki e Hideyuki Okano, punta a creare primati transgenici con difetti immunitari o disordini cerebrali. Questa ricerca «potrebbe sollevare preoccupazioni di natura etica, ma potrebbe avvicinarci a terapie relative all’uomo (i topi potrebbero essere modelli insufficienti per questo genere di disordini)», si legge su «Nature». Il lavoro utilizzerà un metodo chiamato chiamato CRISPR, acquisito l’anno scorso.

Rigenerazione con cellule staminali

Un team giapponese inizierà i primi trial clinici basati sull’uso di cellule staminali pluripotenti, ma non bisogna aspettarsi risultati a breve. E la società di biotecnologie Advanced Cell Technology, che si trova a Santa Monica in California, ha affermato che rilascerà i dati di due trial basati su cellule staminali embrionali umane, che riguardano l’iniezione di cellule della retina, derivate da staminali, negli occhi di circa 30 persone affette da una delle due forme di cecità degenerativa non curabile.

Genetica

Dopo decenni di sviluppo, nel 2014 arriverà sul mercato una tecnologia che sequenzia rapidamente il Dna​​, nota come “nanoporo biologico”. La Oxford Nanoporo Technologies, a Oxford in Inghilterra, intende rilasciare i primi dati di un sequencer monouso delle dimensioni di una piccola scheda di memoria, inviato agli scienziati per il test. Tale dispositivo promette di leggere parti di DNA più lunghe rispetto a quelle lette da altre tecniche (potenzialmente utili a sequenziare campioni misti di DNA batterico), e promette di mostrare i risultati in tempo reale.

Viola Rita
(Fonte: «Quotidiano Sanità»)
(Approfondimenti: http://www.nature.com/polopoly_fs/1.14448!/menu/main/topColumns/topLeftColumn/pdf/505013a.pdf)

5Lotta al fumo. Aumentare le tasse e il prezzo delle sigarette. Duecento milioni di morti in meno e più entrate per gli Stati

5 gennaio 2014

È la leva fiscale la mossa vincente della lotta al fumo dei prossimi anni. E a dimostrare che funziona è uno studio recente dell’Università di Toronto, pubblicato sul «New England Journal of Medecine». Solo in Canada e negli Usa il raddoppio del costo delle sigarette porterebbe a una diminuzione delle morti per fumo di 70mila unità su un totale di 200mila morti l’anno per tabacco nei due Paesi. Nel mondo misure simili sarebbero in grado di ridurre di un terzo i fumatori e di evitare almeno 200 milioni di morti entro la fine del secolo per tumore al polmone e altre malattie.

Prezzi più alti e azzeramento delle differenze di prezzo tra le sigarette più costose e le più economiche diventerebbero due armi efficaci per incoraggiare le persone a smettere di fumare.

«Questo sarebbe particolarmente efficace nei Paesi a basso e medio reddito, dove i prezzi delle sigarette più economiche sono relativamente accessibili e dove i tassi di fumo continuano ad aumentare», ha affermato il dottor Prabhat Jha​​, direttore del Centre for Global Health Research del St. Michael Hospital e professore della Dalla Lana School of Public Health all’Università di Toronto. Ma sarebbe anche efficace nei Paesi ricchi, ha aggiunto, come ad esempio in Francia, che ha dimezzato il consumo di sigarette tra il 1990 e il 2005 aumentando le tasse ben al di sopra dell’inflazione. «Una maggiore tassazione sul tabacco è l’intervento più efficace per abbassare i tassi di fumo e per scoraggiare i fumatori in futuro». Negli Stati Uniti, inoltre, queste tasse, anche a fronte di una riduzione del consumo di tabacco, genererebbero un’entrata aggiuntiva per lo stato di 100 miliardi di dollari (per un totale complessivo di 400 miliardi di dollari).

Tutti i Paesi del mondo sono rimasti d’accordo, all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e all’Assemblea Mondiale della Sanità dell’OMS, di diminuire la diffusione del fumo di circa un terzo entro il 2025 e di ridurre le morti premature per cancro e altre malattie croniche del 25%.

«In tutto il mondo, circa mezzo miliardo di bambini e adulti al di sotto dei 35 anni sono già – o lo saranno presto – fumatori e in base agli attuali modelli pochi smetteranno», ha affermato il professore Sir Richard Peto dell’Università di Oxford, coautore dello studio.

«Quindi i governi devono trovare urgentemente soluzioni per evitare che le persone inizino a fumare e per aiutare i fumatori a smettere. Questo studio dimostra che le tasse del tabacco sono una leva estremamente potente e potenzialmente un triplo successo – abbassare il numero di persone che fumano e che muoiono a causa di questa dipendenza, ridurre le morti premature da fumo, e, allo stesso tempo, l’aumento del reddito del governo. […] I giovani fumatori adulti perderanno circa dieci anni di vita se continuano a fumare – hanno tanto da guadagnare smettendo».

In media, infatti, fumare “ruba” circa 10 anni di vita. Per fortuna, però, l’anno scorso il dottor Jha e il professor Richard hanno dimostrato che le persone che smettono di fumare quando sono giovani “riacquistano” quasi tutto il decennio che altrimenti avrebbero perso.

Inoltre, le persone (sia uomini che donne), che hanno iniziato a fumare da giovani e continuato per tutta l’età adulta, mostrano un tasso di mortalità due o tre volte più alto rispetto ai non fumatori. Lo ha dimostrato l’anno scorso un ampio numero di ricercatori: i rischi del fumo nel 21° secolo sono stati documentati in modo attendibile soltanto un anno fa, come sottolineano gli autori dello studio odierno.

Ma anche la confezione delle sigarette è importante: un’altra rivista nel Regno Unito ha concluso che impacchettarle in un certo modo potrebbe farne perdere l’attrattiva. L’Australia, ad esempio, ha agito in questo senso nel 2011, con un provvedimento che la Nuova Zelanda intende seguire.

Viola Rita
(Fonte: «Quotidiano Sanità»)
(Approfondimenti: http://www.nejm.org/doi/pdf/10.1056/NEJMra1308383)

6. Malattie non trasmissibili: cuore, cancro e respiratorie. In tutto oltre 6 decessi su 10. Ecco il piano d’azione OMS 2013/2020

7 gennaio 2014

Circa il 63% dei decessi a livello globale nel 2008 sono stati causati da questo tipo di malattie. L’obiettivo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) è quello di ridurne l’impatto, cooperando in maniera multisettoriale, a livello nazionale e internazionale: a tale scopo è stato emanato il «Piano d’azione globale dell’OMS per la prevenzione e il controllo delle malattie non trasmissibili 2013-2020», diffuso dal Ministero della Salute – Dipartimento della sanità pubblica e dell’innovazione Direzione generale dei rapporti europei ed internazionali (DGREI).

Malattie non trasmissibili in numeri

36 dei 57 milioni di decessi verificatisi nel 2008 in tutto il mondo (circa il 63%) sono stati causati da queste malattie. Al primo posto vengono le malattie cardiovascolari (48%), seguite dai tumori (21%), le patologie respiratorie croniche (12%) e il diabete (3,5%). Ad accomunarle, quattro fattori di rischio comportamentale: consumo di tabacco, dieta non sana, inattività fisica e consumo dannoso di alcool, come si legge nel Piano d’azione. Nel 2008, l’80% di tutti decessi (29 milioni) dovuti alle malattie non trasmissibili si è verificato nei Paesi a basso e medio reddito; in questi ultimi la percentuale di decessi al di sotto dei 70 anni di età è più elevata (48%) rispetto ai Paesi ad alto reddito (26%). Sebbene la morbilità e la mortalità dovute alle malattie non trasmissibili si verifichino principalmente in età adulta, l’esposizione ai fattori di rischio comincia precocemente nella vita. Se non si garantiscono la promozione della salute, la prevenzione delle malattie e un’assistenza completa, i bambini possono morire a causa di malattie non trasmissibili curabili, quali le cardiopatie reumatiche, il diabete di tipo 1, l’asma e la leucemia.

Se non si cambia, secondo le proiezioni dell’OMS, il numero totale annuo di decessi dovuti alle malattie non trasmissibili aumenterà fino a raggiungere i 55 milioni entro il 2030. Le conoscenze scientifiche dimostrano che è possibile ridurre in misura considerevole il carico delle malattie non trasmissibili se vengono applicate in maniera efficace e bilanciata azioni di prevenzione e cura e interventi per la prevenzione e il controllo delle malattie non trasmissibili già disponibili e dal buon rapporto costi-benefici.

Agire conviene: ecco i costi-benefici

Secondo l’OMS, rispetto all’inazione, l’attuazione di strategie è molto conveniente: il rapporto costi-benefici a livello di individui e popolazione, in termini di spesa sanitaria corrente, è ottimo: ammonta al 4% per i Paesi a basso reddito, al 2,5% per i Paesi a medio reddito e a meno dell’1% per i Paesi a reddito medio-alto e alto. Il costo di attuazione del Piano d’azione dell’OMS è pari a circa 940 milioni di dollari per un periodo di otto anni, dal 2013 al 2020.

Al contrario, la perdita cumulativa di produttività riconducibile alle quattro principali malattie non trasmissibili e ai disturbi mentali è stimata in 47.000 miliardi di dollari Usa. Tale mancata produttività rappresenta il 75% del Pil globale riferito al 2010 (63.000 miliardi di dollari). Questo piano d’azione, dunque, va nella direzione di un miglioramento, per salvaguardare la salute e la produttività dei Paesi, operare scelte informate in materia, tra l’altro, di alimenti, media, tecnologia dell’informazione e della comunicazione, sport e assicurazione sanitaria e per individuare potenziali innovazioni per ridurre a livello mondiale la progressione dei costi dell’assistenza sanitaria in tutti i Paesi.

Obiettivi volontari a livello mondiale dell’OMS

– Riduzione relativa del 25% della mortalità totale dovuta a malattie cardiovascolari, tumori, diabete o patologie respiratorie croniche
– Riduzione relativa pari almeno al 10% del consumo dannoso di alcol, secondo quanto appropriato al contesto nazionale
– Riduzione relativa del 10% della prevalenza dell’insufficiente attività fisica
– Riduzione relativa del 30% del consumo medio di sale/sodio nella popolazione
– Riduzione relativa del 30% della prevalenza del consumo di tabacco nelle persone di età pari o superiore ai 15 anni
– Riduzione relativa del 25% della prevalenza dell’ipertensione, oppure, a seconda della situazione nazionale, contenimento della prevalenza dell’ipertensione
– Arresto della progressione del diabete e dell’obesità
– Almeno il 50% delle persone che ne hanno i requisiti riceve terapia farmacologica e counselling(incluso il controllo della glicemia) per la prevenzione dell’infarto e dell’ictus.
– Disponibilità dell’80% delle tecnologie di base e dei farmaci essenziali economicamente accessibili, generici inclusi, necessari per il trattamento delle principali malattie non trasmissibili, nelle strutture pubbliche e private.
La traduzione del testo OMS è a cura di Katia Demofonti – Ufficio III (Rapporti con l’OMS e con altre agenzie ONU)

Viola Rita
(Fonte: «Quotidiano Sanità»
(Approfondimenti: http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_2087_allegato.pdf)

7. «Nature»: “Preoccupazioni su sicurezza ed efficacia del metodo Stamina”

8 gennaio 2014

«Ci sono serie e profonde preoccupazioni sulla sicurezza e sull’efficacia del metodo Stamina». Lo scrive «Nature» nel nuovo numero in uscita. Dai verbali del primo Comitato scientifico chiamato dal ministero della Salute ad esprimere un parere sul metodo Stamina, esaminati dalla rivista, emergono «serie imperfezioni e errori concettuali nel protocollo Stamina». Tra queste «un’apparente ignoranza della biologia delle cellule staminali con alcune sezioni copiate da Wikipedia». Un nuovo Comitato si riunirà dopo che la prima commissione, a lavori ormai conclusi, era stata “cancellata” dal Tar su ricorso del fondatore del metodo, Davide Vannoni, che aveva contestato la parzialità di alcuni dei suoi membri.

La rivista britannica torna nuovamente a criticare la veridicità scientifica del metodo fondato da Davide Vannoni, riportando eventi che «hanno ulteriormente intaccato la credibilità di Stamina», dopo le rivelazioni sul parere del primo comitato di esperti chiamati dal ministero della Salute a valutare il protocollo ai fini di un’eventuale sperimentazione. Nature cita anche le dimissioni di alcuni membri dei comitati scientifici della Fondazione Rimed di Palermo e di Cure Alliance: si tratta degli scienziati Carlo Croce, Carlo Redi, Giulio Cossu e Francesca Pasinelli, che si sono dimessi per protestare contro «l’apparente supporto pubblico» offerto al metodo fondato da Davide Vannoni, da parte di Camillo Ricordi, che si trova al comando di entrambe le organizzazioni scientifiche.

Il 23 dicembre scorso Carlo Croce, ricercatore che si occupa di cancro all’Ohio State University a Columbus, si è dimesso dal comitato scientifico di Rimed, istituto di medicina rigenerativa vicino Palermo, il cui programma scientifico è gestito dall’University of Pittsburgh in Pennsylvania. Lo scienziato, riferisce la rivista, «ha chiesto che Ricordi venisse rimosso dalla presidenza di Rimed. E altri membri del comitato hanno detto a «Nature» che stanno considerando la possibilità di dimettersi dal board scientifico dell’ente». A fine dicembre, Carlo Redi dell’università di Pavia, Giulio Cossu dell’University College London e Francesca Pasinelli, direttore generale di Telethon, sono invece usciti da Cure Alliance, gruppo lanciato da Ricordi che spinge per velocizzare la ricerca traslazionale. Gli scienziati dimissionari, riporta «Nature», si dicono «sconcertati dall’insistenza di Ricordi sul fatto che la validità della terapia Stamina non è stata ancora provata o smentita, e dalla sua offerta di verificarla ed eventualmente migliorarla nella sua clinica di Miami».

Ricordi ha smentito di essere a favore di Stamina ma di sostenere «un processo di verifica che dovrebbe essere nell’interesse di tutti e che porrebbe fine a strumentalizzazioni» e coalizioni diffamatorie: «Nello specifico dei test che abbiamo offerto di eseguire a Miami, spero che questo sforzo multidiciplinare potrà servire a far luce almeno sul punto di partenza del presunto trattamento, ovvero la composizione cellulare e le caratteristiche di sicurezza biologica dei preparati infusi. Questo momento di verifica iniziale potrebbe anche porre fine in tempi brevi a qualsiasi ulteriore discussione qualora i risultati fossero negativi».

Vannoni affida la propria replica a Facebook dove posta due foto di un bambino, che dimostrerebbero i miglioramenti dovuti alle infusioni a base di cellule staminali: «Attenzione Stamina è pericolosa e non serve a nulla (al massimo fa ingrassare). Ecco Gioele prima (3,8 chili e completamente immobile), e Gioele oggi (10,8 chili con movimenti delle braccia, delle gambe, del collo e delle mani). Il resto è tutta fuffa».

(Fonte: «La Repubblica»)
(Approfondimenti: http://www.nature.com/news/leaked-files-slam-stem-cell-therapy-1.14472)

8. «Jama Internal Medicine» fa i conti allo screening mammografico

10 gennaio 2014

Su mille donne americane cinquantenni sottoposte a screening mammografico ogni anno per un decennio, una quota compresa tra 0,3 e 3,2 scamperà alla morte per cancro al seno, tra 490 e 670 dovranno affrontare una diagnosi falsamente positiva, e tra 3 e 14 subiranno trattamenti inutili per tumori che, se non scoperti, non si sarebbero mai sviluppati. Ecco i numeri sulla mammografia appena pubblicati da «Jama Internal Medicine», la stessa rivista che un paio di mesi fa aveva diffuso i risultati di un sondaggio on-line sugli americani di mezza età, molti sottoposti a screening per il tumore al seno o alla prostata: metà di essi non avrebbe scelto lo screening se il test, a fronte di una morte evitata, avesse provocato anche un solo caso di sovratrattamento, la terapia inutile di un cancro che non avrebbe mai dato sintomi se non fosse stato scoperto dallo screening. E ciò vuol dire che molte donne potrebbero anche rifiutare la mammografia se sapessero che le cure inutili sono più comuni delle morti evitate.

«Come tutte le strategie di diagnosi precoce, anche lo screening mammografico esige compromessi» dice Gilbert Welch, professore di medicina al Dartmouth Institute for Health Policy and Clinical Practice di Hanover, New Hampshire, e coautore dell’articolo. A fronte del beneficio di evitare un decesso per cancro, la diagnosi precoce produce falsi positivi e trattamenti non necessari. E siccome ognuno pesa pro e contro in modo diverso, nessuno può decidere per un altro se fare o non fare lo screening. Ma per decidere non bastano informazioni generiche su rischi e benefici: ci vogliono i numeri. Se 100 persone evitano la morte per cancro al prezzo di 50 falsi positivi e 10 sovradiagnosi, la decisione è facile. Ma se per gli stessi effetti collaterali a evitare la morte è una persona sola, ebbene, in questo caso la decisione può essere difficile.

«Ecco lo scopo dell’articolo: fornire i numeri del compromesso che, come ogni screening, anche quello mammografico esige» puntualizza il ricercatore. Compito non facile, cui ha cercato di assolvere fornendo stime sulla frequenza assoluta di tre indicatori importanti: falsi positivi, sovradiagnosi e decessi evitati. Su mille donne americane cinquantenni sottoposte a screening mammografico ogni anno per un decennio, circa metà dovrà affrontare prima o poi un’errata diagnosi. E le stime sono attendibili dato che provengono dai mammografisti stessi, cioè dal Breast Cancer Surveillance Consortium.

«Un programma di screening che allarma con false diagnosi di cancro metà della popolazione esaminata è a dir poco preoccupante, anche se molte donne vengono rapidamente rassicurate da un secondo test in cui il seno risulta normale» continua Welch. Ma ad altre, pur non avendo il cancro, viene detto che le mammelle sono in qualche modo anomale con displasia o atipie che aumentano il rischio di tumore, lasciandole nel dubbio. Poi ci sono le sovradiagnosi, che portano al sovratrattamento. E, come spiega un opuscolo del Servizio sanitario nazionale britannico sulla mammografia di screening, la possibilità di sovradiagnosi è circa tre volte superiore alla probabilità di evitare una morte di cancro al seno.

E tutto ciò a fronte di quali benefici? Trascurando i decimali, grazie allo screening non moriranno da zero a tre donne su mille, almeno secondo i dati dei nove più completi studi controllati sull’argomento. «Ma la domanda è un’altra: se i trial sono stati avviati da 20 a 50 anni fa, le stime odierne sono reali?» si chiede Welch, ricordando che, grazie ai miglioramenti nel trattamento, molti tipi di cancro al seno, letali 20 anni fa, ora non lo sono più. Conclude Welch: «Speriamo che questo studio aiuti le donne a decidere se sottoporsi o meno alla diagnosi precoce. Alcune non vorranno, altre sì. Ma tutte, almeno, saranno informate sui numeri dietro al compromesso dello screening mammografico».

(Fonte: «Doctor 33»)
(Approfondimenti: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24380095)

9. I Big Data rivoluzioneranno anche il mondo del farmaco?

10 gennaio 2014

Il mondo dei Big Data sta entrando sempre di più anche nel campo della ricerca e dello sviluppo di nuovi farmaci e, considerando la quantità di dati e le numerose possibilità di incrociarli, la sua gestione supera di gran lunga il livello nazionale e persino quello europeo per approdare necessariamente al mondo globale.

I Big Data in farmacologia sono rappresentabili da grandi aggregazioni di informazioni legate strettamente alle popolazioni che assumono i farmaci, come dati biometrici (tra questi, ad esempio, altezza, peso, pressione, quantità di grasso corporeo, etc.), dati correlati alle abitudini delle popolazioni, dati omogenei sugli obiettivi che si vogliono raggiungere con la terapia, compresi quelli sugli effetti collaterali, dati di riferimento sull’andamento naturale delle stesse patologie e dati sulla durata della risposta farmacologica nel tempo. Alcune altre variabili biologiche, tra cui anche quelle geografiche, sono importanti per stabilire gli effetti dei medicinali, così come ha un peso significativo sapere se l’effetto di un farmaco può essere influenzato da variabili non-biologiche delle popolazioni, cioè come determinati stili di vita possano realmente modificare il modo in cui un farmaco esprime la sua efficacia o modifica il profilo di sicurezza (per esempio consumo di alcolici e possibili danni epatici).

Pensiamo alla UK Biobank. È un agglomerato enorme di dati: circa mezzo milione di adulti britannici ha donato campioni di sangue e urine, ha acconsentito a farsi misurare altezza e peso, ha risposto alle domande sugli stili di vita e la dieta adottati e ha dato informazioni sulla propria storia medica. Un gruppo di ricerca studierà come la salute di queste persone cambierà nel tempo, utilizzando ampi dati che abbraccino le cure primarie, le statistiche ospedaliere e i registri su tumore e decessi. Lo scopo? Studiare le cause, la prevenzione e il trattamento di malattie comuni, ma anche scoprire gli eventuali legami con l’ambiente e le funzioni cognitive.

Attraverso la raccolta e l’analisi di dati sanitari è pertanto possibile definire in maniera più accurata le malattie e sviluppare un’attività di sorveglianza che favorisca l’individuazione di nuove risposte e misure di sanità pubblica.
Ricordate John Snow? Quando nel 1854 si diffuse il colera nel quartiere di Soho, a Londra, Snow ne studiò la diffusione, utilizzando una piantina della città e la mappatura della diffusione dei casi nei diversi periodi. Questo metodo gli permise di notare che i casi si concentravano attorno ad una pompa dell’acqua presente nel distretto di Soho e di fermare la malattia, bloccando la pompa stessa. Recentemente un gruppo di ricercatori dell’Università di Oxford con sede in Nepal e Vietnam ha avuto un approccio simile per studiare la diffusione del tifo in Nepal: ha infatti combinato il sequenziamento del DNA con le rilevazioni GPS per mappare i casi di tifo ed è riuscito a rintracciare l’origine dei focolai, fornendo così un esempio concreto dei benefici che potremmo ottenere combinando insieme diversi set di dati.

Le più recenti tecniche di sequenziamento del DNA offrono potenti strumenti per identificare le cause delle malattie, aiutare la diagnosi, prevedere le risposte ai trattamenti e determinare quali possano essere le migliori cure per il paziente. Uno studio a livello mondiale, guidato da Dominic Kwiatkwoski, ha ad esempio dimostrato come attraverso queste tecniche si possano affrontare problemi di portata globale, in grado di mettere in pericolo centinaia di migliaia di vite. La diffusione in Cambogia di alcuni parassiti della malaria resistenti al farmaco antimalarico più efficace è stata, infatti, controllata attraverso il monitoraggio genetico dei parassiti stessi.

Se si pensa ai database contenenti dati individuali, tra cui quelli genetici, è inevitabile porsi il problema della privacy, che va affrontato dal punto di vista giuridico per bilanciare le esigenze di trasparenza e la necessità dei soggetti che partecipano alla ricerca di essere tutelati nella loro riservatezza. Tuttavia, l’ingresso dei Big Data nel mondo della farmacologia porta con sé un potenziale grande vantaggio per la salute dell’uomo: il beneficio che ne consegue è legato alla capacità di incrociare enormi masse di dati e analizzare così una quantità ineguagliata di informazioni, riferite a milioni di pazienti e pertanto in grado di consentire analisi di ampia portata mai tentate sinora.

Quella dei Big Data è una disciplina che richiede, in tutte le fasi del processo, l’intervento di strumenti molto più sofisticati rispetto a quelli tradizionali. Se da un lato è vero che l’intelligenza artificiale e quella umana devono completarsi per trasformare i dati in informazioni e le informazioni in conoscenza (passaggi non proprio scontati), su cui si possano prendere delle decisioni a carattere universale, dall’altro la cooperazione tra le intelligenze umane, che non sarà – almeno a breve termine – imitabile da programmi computazionali, è la caratteristica che rende davvero unica la specie umana e che servirà anche per innovare lo sviluppo farmaceutico negli anni a venire.

Luca Pani – Direttore generale dell’Aifa
(Fonte: «Agenzia  Italiana del Farmaco»)

10. Vaccinazione antinfluenzale, Commissione europea bacchetta i Paesi membri

13 gennaio 2014

Mentre in Italia i casi di influenza sono in crescita e si attende il picco per fine gennaio, la Commissione europea pubblica un rapporto che decreta il fallimento, nella stagione 2011-2012, nel raggiungimento degli obiettivi di copertura vaccinale nella popolazione anziana degli Stati membri. In quella stagione, solo i Paesi Bassi avevano superato (di poco) la soglia della copertura al 75%, valore stabilito nel 2009 da una Raccomandazione del Consiglio europeo. Anche la Gran Bretagna aveva sfiorato l’obiettivo, con il 74% degli anziani vaccinati, ma negli altri 16 Stati che avevano fornito dati in merito, le percentuali erano molto inferiori, dal 64,1% fino addirittura all’1,7% dell’Estonia; in particolare, l’Italia aveva raggiunto il 62,7% preceduta, oltre che da Paesi Bassi e Regno Unito, soltanto da Francia e Spagna.

Il rapporto individua alcuni degli ostacoli che si frappongono al raggiungimento di una copertura tale da ostacolare la diffusione del virus influenzale. C’è in primo luogo una bassa percezione del rischio, incluso quello di contagiare altre persone: si segnala in particolare la gravità che questo fattore assume tra gli operatori sanitari. Restano nella popolazione timori diffusi di possibili effetti collaterali associati alle vaccinazioni, dubbi sulla loro reale efficacia e un’ampia diffidenza a livello emotivo contro i vaccini; ci sono poi problemi legati ai costi, alla disponibilità e alla convenienza.

In generale, gli esperti della Commissione ritengono che vi sia una carenza di informazione corretta sul problema e chiamano in causa i media a maggiore diffusione. Il documento riporta anche i dati relativi ad alcuni gruppi per i quali la vaccinazione assume un’importanza particolare. L’esempio tipico è costituito dai malati cronici: sono disponibili solo i dati di sei Paesi, Italia esclusa, e indicano percentuali variabili dal 6,4% fino a un massimo del 54,4%. La stessa carenza di dati è ritenuta la cartina al tornasole dello scarso impegno profuso dai Paesi europei per raggiungere la copertura vaccinale raccomandata.

Renato Torlaschi
(Fonte: «Doctor 33»)

11. Cure postnatali per madre e neonato, l’Oms aggiorna le linee guida

13 gennaio 2014

L’Organizzazione mondiale della Sanità ha aggiornato le linee guida sulla cura della mamma e del neonato rivolte in particolare ai professionisti che operano in contesti con risorse limitate, nei Paesi a basso e medio reddito. Si tratta di indicazioni derivanti da un’analisi della letteratura avviata nel 2008, con la realizzazione di nuove revisioni sistematiche, sancita dalla stesura di 12 raccomandazioni principali, in gran parte dedicate alla salute del neonato. Eccole in una sintetica rassegna.

Dopo un parto vaginale senza complicazioni in una struttura sanitaria, le madri sane e i neonati dovrebbero ricevere cure all’interno della stessa struttura per almeno 24 ore dopo la nascita. Entro lo stesso intervallo un sanitario deve vedere mamma e neonato, se la nascita avviene in casa. Almeno tre ulteriori contatti postnatali sono raccomandati per tutte le mamme e i neonati: a tre giorni dal parto (48-72 ore), dopo 7-14 giorni, e sei settimane dopo la nascita.

Se smette di nutrirsi bene, ha convulsioni, respirazione rapida (frequenza respiratoria = 60 per minuto), grave rientramento toracico, assenza di movimenti spontanei, ittero o temperatura corporea oltre i 37,5°o sotto i 35,5°, la famiglia dovrebbe essere incoraggiata a rivolgersi a una struttura sanitaria.

Idealmente, tutti i bambini dovrebbero essere allattati esclusivamente al seno fino a 6 mesi di età. Per il bagno è meglio aspettare fino a 24 ore dopo la nascita (minimo 6 ore).

Si raccomanda un abbigliamento del bambino adeguato alla temperatura ambientale (1-2 strati di vestiti in più rispetto agli adulti, e uso di un copricapo). Per favorire comunicazione e gioco, madre e bambino dovrebbero stare nella stessa stanza 24 ore al giorno.

I neonati pretermine e di basso peso alla nascita dovrebbero essere identificati immediatamente per ricevere cure speciali come da linee guida Oms esistenti.

(Fonte: «Doctor 33»)
(Approfondimenti: http://apps.who.int/iris/handle/10665/97603)

12. Crolla la ricerca medica in Europa: – 25% tra 2007 e 2011. Un fallimento annunciato

13 gennaio 2014

Tra il 2007 e il 2011 le richieste di condurre un trial clinico in Europa sono crollate del 25%. Per spiegare questa Caporetto della ricerca nel Vecchio Continente sono stati invocati i costi eccessivi, i lunghi tempi di approvazione e i difetti della Direttiva europea sui trial clinici. Ma nessuno finora si era preso la briga di andare a sondare l’effettivo peso di questi fattori o di scoprire se ce ne fossero altri meno evidenti. Un gap colmato adesso dallo studio SAT-EU (Survey of Attitudes towards Trial sites in Europe), un sondaggio anonimo condotto sul web che ha valutato in maniera sistematica i fattori che potrebbero influenzare la selezione dei centri europei per i trial clinici.

Lo studio è stato condotto da un panel internazionale di esperti in ricerca clinica, coordinati dal prof. Giuseppe Ambrosio, direttore della Cardiologia e Fisiopatologia Cardiovascolare dell’Università e Azienda Ospedaliera di Perugia. Alla survey hanno risposto 485 top manager della ricerca biomedica di 34 nazioni: il 49% appartenenti al settore BioPharma e il 40% di ambito accademico (CTU, clinical trial units) o da Organizzazioni per la ricerca clinica (CRO). Tra gli elementi di maggior importanza nell’influenzare la scelta di un centro per un trial clinico sono stati presi in esame gli aspetti relativi ai ricercatori (interesse in una certa area di patologia, prestigio, pubblicazioni, esperienze precedenti in studi simili), ambientali (velocità di approvazione da parte dei comitati etici e istituzionali, disponibilità di pazienti idonei all’interno di una regione, incentivi governativi, costi, esistenza di network di esperti internazionali su una patologia, ecc.) e relativi ai centri ospedalieri (esperienza del personale coinvolto nel trial e abilità linguistiche, attrezzature diagnostiche disponibili, ecc); mentre la voce ‘costi’ è risultata meno impattante.

All’interno dei criteri ‘ambientali’, la disponibilità di un adeguato pool di pazienti idonei all’interno di una regione, la velocità di approvazione dei trial e la presenza di network di gestione di una patologia, assumevano un peso nettamente superiore rispetto alle voci ‘spesa’ o agli incentivi finanziari governativi. I ‘mercati’ più appetibili, quelli più ‘recettivi’ per la realizzazione di un trial clinico, sono risultati i Paesi del nord Europa (nell’ordine Germania, Olanda, UK); Italia e Spagna giacciono purtroppo dall’altro lato della barricata.

In conclusione alcuni elementi relativi ai ricercatori e la semplicità dei processi di approvazione sono i fattori determinanti nella selezione dei centri per i trial clinici, mentre meno impattante appare la voce ‘costi’. Ciò significa che per spingere la ricerca nel Vecchio Continente non necessariamente si richiedono investimenti aggiuntivi o incentivi da parte dei governi. Prioritari, al fine di attirare un maggior numero di trial clinici in Europa, appaiono invece l’armonizzazione dei processi di approvazione (le lungaggini amministrative non incentivano la scelta, “il tempo è denaro”), una maggior visibilità dei centri d’eccellenza (ad esempio attraverso la creazione di siti web o di network dedicati ad una particolare patologia) e il contenimento dei costi indiretti ‘nascosti’ (quelli legati alle farraginosità burocratiche per impostare un trial e portarlo ‘su strada’, la lentezza del reclutamento, la scarsa performance di un centro).

Significativo a questo riguardo è il fatto che il 75% degli intervistati consideri l’informazione veicolata dal web, con la creazione di uno ‘sportello virtuale centralizzato’, “decisamente auspicabile” o “utile la maggior parte delle volte”. È necessario e prioritario insomma realizzare una vera unità d’Europa anche della ricerca, un ‘mercato dei trial’ pan-europeo e una ‘European Research Area’, all’interno della quale sia garantita la libera circolazione di ricercatori, conoscenze scientifiche e tecnologie.

La strategia di crescita dell’Europa per l’anno 2020 – ricordano gli autori – prevede un investimento del 3% del Pil in R&S. Per raggiungere questo obiettivo è fondamentale consentire BioPharma, il settore europeo con il più alto rapporto R&D/vendite, di investire in Europa senza doversi scontrare con inutili ostacoli. Il Vecchio Continente sulla carta ha tutti i numeri per diventare protagonista assoluto della ricerca medica: un mercato appetibile, un’ampia fetta di popolazione nella terza età, centri universitari e di ricerca prestigiosi, importanti industrie farmaceutiche. È dunque arrivato il momento di rimuovere gli ostacoli e, per quanto riguarda il nostro Paese, di imparare qualcosa dai nostri vicini più performanti.

Maria Rita Montebelli
(Fonte: «Quotidiano Sanità»
(Approfondimenti: http://www.quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=2502339.pdf)

13. Ca polmone, diagnosi 2 anni prima della Tc spirale con test molecolare

15 gennaio 2014

La misurazione, dopo prelievo ematico, dei livelli circolanti di 24 microRna consente di effettuare una diagnosi molto precoce di tumore polmonare, fino a due anni in anticipo rispetto al gold standard, cioè la Tc spirale. Lo dimostra uno studio italiano che ha visto collaborare l’Istituto nazionale dei tumori di Milano (Int), l’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano e l’Università di Parma. I risultati, pubblicati sul «Journal of Clinical Oncology», sono stati presentati a San Diego, alla conferenza dell’Associazione americana per la ricerca sul cancro (Aacr) e dell’Associazione internazionale per lo studio del tumore al polmone (Ialsc) dal primo autore della ricerca, Gabriella Sozzi, direttore dell’Unità di genetica tumorale dell’Int. Il test si basa sull’analisi di microRna circolanti, molecole di acido ribonucleico che modulano l’espressione genica, sono a loro volta espresse in maniera aberrante nei tumori e da questi ultimi vengono rilasciate in circolo incapsulate in vescicole non degradabili e quindi misurabili. Nello studio retrospettivo (ne è previsto uno prospettico) sono stati analizzati i nuovi marcatori in 939 forti fumatori, di cui 870 senza malattia e 69 affetti da cancro polmonare. «Il test» affermano gli autori «ha dimostrato una sensibilità dell’87% nell’identificare il tumore al polmone. Inoltre, la sua alta specificità ha ridotto dell’80% il numero dei falsi positivi alla Tc spirale». «Tale riduzione, ottenuta combinando i risultati del test dei microRna e della Tc spirale» osserva Ugo Pastorino, direttore di Chirurgia toracica all’Int «porterebbe alla riduzione di costi e rischi associati con le ripetute indagini radiologiche o l’uso di altre metodologie diagnostiche invasive per il paziente».

Il test, inoltre, ha mostrato di essere indipendente dallo stadio del tumore e dall’intervallo di tempo trascorso tra l’analisi molecolare e l’identificazione del tumore con la Tc spirale. «Numerosi biomarcatori con valenza diagnostica e prognostica sono stati identificati recentemente» commenta Marco Pierotti, direttore scientifico dell’Int «ma pochi hanno superato la prova della validazione e sono diventati veri strumenti della pratica clinica, come questo test molecolare si appresta a diventare». In effetti l’azienda produttrice londinese del test intende distribuirlo quest’anno negli Usa.

Arturo Zenorini
(Fonte: «Doctor 33»)
(Approfondimenti: http://jco.ascopubs.org/content/early/2014/01/13/JCO.2013.50.4357.abstract)

14. Sexting e preadolescenti: abitudine diffusa e rischiosa

15 gennaio 2014

Inviare e ricevere foto e testi sessualmente espliciti – sexting in inglese – è sempre più comune tra i pre-adolescenti e i giovani adolescenti, secondo uno studio su «Pediatrics», e tali abitudini potrebbero tradursi in comportamenti sessuali a rischio nella vita reale. Dalla ricerca, coordinata da Christopher Houck del Bradley/Hasbro children’s research center di providence, nel Rhode Island, emerge che oltre un quinto degli alunni di settimo grado (equivalente alla seconda-terza media) ha difficoltà comportamentali ed emozionali connesse al sexting. «Questi dati suggeriscono che inviare messaggi e foto esplicite può essere un indicatore di possibili comportamenti sessuali a rischio» riprende Houck, sottolineando che ricerche precedenti sugli studenti delle scuole superiori stimano che circa il 25% degli adolescenti invia messaggi o foto espliciti, ma questo studio è il primo a focalizzarsi sulla preadolescenza.

I ricercatori hanno intervistato 420 studenti in cinque scuole medie pubbliche urbane, segnalati dai docenti per difficoltà comportamentali o emotive. Il 70% dei ragazzi ha dichiarato di avere un telefono cellulare, che nel 23% era uno smartphone. E alla domanda se avessero flirtato con qualcuno tramite messaggi sessuali online attraverso social network come Facebook o con messaggini di testo, il 22% ha ammesso di averlo fatto negli ultimi sei mesi, con l’invio, nel 17% dei casi, di messaggi o foto sessualmente espliciti. E mettendo in relazione messaggi espliciti e comportamenti sessuali veri e propri, i ricercatori hanno osservato che gli adolescenti dediti al sexting avevano 4-7 volte più probabilità degli altri di aver toccato i genitali di un’altra persona e di aver fatto sesso orale o vaginale.

«Chi invia foto esplicite è più propenso a impegnarsi in comportamenti sessuali reali rispetto a chi messaggia soltanto parole» sottolinea Houck. E conclude: «Educare i giovani adolescenti, grandi consumatori di tecnologia mobile, sulle possibili conseguenze del sexting può ridurre le probabilità di comportamenti sessuali a rischio».

(Fonte: «Doctor 33»)
(Approfondimenti: http://pediatrics.aappublications.org/content/early/2014/01/01/peds.2013-1157.abstract)

15. Malattie psichiche sottostimate, Mencacci (Sip): stigma nocivo

16 gennaio 2014

La diffusione delle malattie psichiche è sottostimata? Lo suggerisce un recente studio comparso su «Jama Psychiatry». Condotta negli Stati Uniti, l’indagine si è svolta attraverso controlli e interviste effettuati a più riprese nel corso di ben 24 anni. Molti partecipanti, che in passato avevano sofferto di diversi tipi di patologie, in un’intervista in cui si chiedeva la storia dei disturbi pregressi, tendeva a riportare le malattie somatiche ma non quelle psichiche. Secondo il presidente della Società italiana di psichiatria (Sip) Claudio Mencacci, questa rimozione è dovuta al fatto che «mentre la patologia somatica ha diritto di cittadinanza, la patologia psichica continua a risentire di uno stigma particolare, può connotare negativamente la persona e presentarla come vulnerabile, instabile, inaffidabile o addirittura pericolosa». Mencacci ritiene che questa percezione stia lentamente migliorando, «con la definizione delle basi biologiche e la comprensione del fatto che molte di queste patologie hanno una base bio-psico-sociale molto radicata, con il riconoscimento che si tratta di disturbi che rientrano nell’alveo della medicina e non devono essere differenziati come se si trattasse di qualcos’altro».

Ma si tratta di processi lunghi e finché questa consapevolezza non diventerà generale, ci saranno conseguenze gravi in termini di mancato accesso alle terapie disponibili. «L’avvicinamento alle cure rimane ancora il problema centrale della psichiatria. – dice il presidente della Sip – Molte persone non fanno neppure il primo passo, di rivolgersi a un medico, e ancor meno richiedono le cure di uno specialista. Sappiamo che non più del 30, 40% delle persone che soffrono di questi disturbi ottengono cure appropriate. Eppure l’ansia, soprattutto se di forte intensità, è una condizione che non solo peggiora enormemente la qualità di vita della persona e di chi gli sta accanto ma può esporre a maggior rischio di disturbi cerebro e cardiovascolari. Ci sono dati recentissimi a dimostrarlo, ma purtroppo non abbastanza diffusi».

Renato Torlaschi
(Fonte: «Doctor 33»)

16. Regno Unito, aborti illegali per non far nascere le bambine

16 gennaio 2014

All’appello mancano tra le 1.400 e le 4.700 bambine, sparite come per incanto dall’ultimo censimento effettuato nel 2011. Il dato, rivelato il 15 gennaio da un’inchiesta dell’«Independent», è dovuto all’usanza, portata avanti in alcune comunità etniche, di assicurare alla famiglia eredi maschi piuttosto che femmine. In Paesi come la Cina e l’India, dove nascono tra i 120 e i 140 maschietti ogni 100 femminucce, la “strage delle bambine” non è una novità ma di certo non si pensava avvenisse anche nella democratica, tollerante e occidentale Gran Bretagna. Secondo il giornale britannico l’aborto selettivo (che è vietato in Uk) è talmente praticato che si sta intaccando la naturale divisione della popolazione in maschi e femmine.

Per impedire alle famiglie di abortire le bambine nella speranza che arrivi un maschietto alcuni esperti sono arrivati a ipotizzare il divieto di sapere il sesso del nascituro troppo in anticipo. Di solito con l’ecografia verso la 13-14 settimana il ginecologo è già in grado di annunciare se il fiocco sarà rosa o azzurro. Il consiglio è di dare la notizia più in là, quando la gravidanza è ormai in uno stadio molto avanzato e abortire, anche illegalmente, diventa più difficile. Alcuni ospedali stanno già facendo così.

L’economista Amartya Sen aveva già avvertito 25 anni fa sulla possibilità che questa diventasse una nuova forma di discriminazione: «L’aborto selettivo dei feti femmina – aveva detto – può essere chiamato discriminazione neonatale ed è la manifestazione tecnologica della preferenza per i bambini».

Per provare che questa crudelissima discriminazione è arrivata anche nella civile Gran Bretagna l’«Independent» ha esaminato una serie di tabelle dell’Ufficio Nazionale di Statistica che mostravano il numero di famiglie con bambini registrati nel censimento del marzo 2011 divise per Paese di origine sia della madre che del padre.

«Ci siamo concentrati – spiega il quotidiano in un articolo – sul numero e sul genere dei secondogeniti nati in famiglie che avevano avuto una femmina come primo figlio». Alcuni studi, effettuati in Canada, avevano dimostrato in passato che le coppie di migranti di alcuni gruppi etnici magari accettano una bambina come primo figlio ma poi abortiscono i feti femmina nelle successive gravidanze per assicurarsi la nascita del maschio.

«Abbiamo riscontrato – spiega ancora l’«Independent» – che nelle famiglie di migranti di prima generazione avere una primogenita aumenta grandemente le chance di avere poi un secondogenito, un sbilanciamento nella sex ratio che non accade naturalmente». Il dato è stato confermato anche da esperti di statistica consultati dal quotidiano. L’aborto selettivo sarebbe praticato soprattutto da famiglie arrivate in Gran Bretagna dal Bangladesh, dal Pakistan e dall’Afghanistan.

«La sola spiegazione plausibile al consistente spostamento statistico in favore di uno dei due generi che si osserva nei dati del censimento è quella dell’aborto selettivo – ha detto Christoforos Anagnostopoulos, che insegna statistica all’Imperial College di Londra -. In assenza di un’altra teoria possiamo considerare questi dati come la prova del fatto che l’aborto selettivo avviene anche qui».

di Monica Ricci Sargentini
(Fonte: Corriere della Sera- Blog «Le persone e la dignità»)
(Approfondimenti: http://www.independent.co.uk/news/science/the-lost-girls-illegal-abortion-widely-used-by-some-uk-ethnic-groups-to-avoid-daughters-has-reduced-female-population-by-between-1500-and-4700-9059790.html

17.  Francia: no dei giudici a eutanasia di un malato: «Prosegua l’alimentazione». Paese diviso

16 gennaio 2014

Il cuore del 38enne francese Vincent Lambert continuerà a battere. Ma per la seconda volta in 9 mesi, il paziente tetraplegico, in stato di coscienza minima da 5 anni a causa di un incidente stradale, potrà vivere solo grazie al verdetto di un tribunale amministrativo che il 15 gennaio ha dato nuovamente ragione ai genitori del giovane e a quella parte del mondo medico transalpino scandalizzata dalla volontà dell’Ospedale universitario di Reims di arrestare l’alimentazione artificiale.

Da mesi, il “caso Lambert” suscita molto più che umana pietà. Fra i familiari del giovane, è nato un conflitto sulla “reale volontà” di Vincent, mai formalizzata per iscritto. A più riprese, la moglie ha chiesto la cessazione dell’alimentazione, in nome della «dignità». Un’opzione che il reparto di Cure palliative a Reims ritiene conforme alla Legge Leonetti sul fine vita del 2005, fondata sul principio di un rifiuto categorico dell’eutanasia attiva affiancato da un’analoga opposizione verso l’accanimento terapeutico. Ma i genitori di Vincent e altri familiari, sostenuti da una cordata di esperti di bioetica e di luminari di altri ospedali universitari, ricordano che il giovane si trova in uno stato stazionario e non terminale. E il 15 gennaio, in un clima di forte attenzione mediatica, il Tribunale amministrativo di Chalonsen – Champagne ha dato ragione proprio alla necessità di tutelare la vita.

Per i giudici, «il proseguimento del trattamento non era né inutile, né sproporzionato e non aveva per obiettivo il solo mantenimento artificiale della vita». Nelle stesse ore in cui l’ospedale e la moglie di Vincent hanno promesso un ricorso al Consiglio di Stato, il dibattito è ripreso. Martedì, il presidente socialista François Hollande aveva ribadito di voler varare quest’anno una legge per offrire «un’assistenza medica per finire la propria vita nella dignità». E anche il 15 gennaio, il ministro della Sanità, Marisol Touraine, ha sostenuto, in modo poco neutrale, che la legge Leonetti «comporta ambiguità che occorre togliere».

Ma il “caso Lambert” e la posizione controversa dei medici di Reims hanno spinto pure tante voci a denunciare il rischio crescente di derive ispirate da una volontà di dare la morte. L’Ordine degli infermieri si è appena schierato fermamente contro l’eutanasia e il suicidio assistito, ricordando a tutti la realtà clinica: «Non si deve banalizzare la morte. Ci sono pazienti molto sofferenti che non chiederebbero l’eutanasia se fossero curati correttamente».

Da parte sua, lo stesso Jean Leonetti, padre della legge quadro (frutto all’epoca di un larghissimo consenso bipartisan), deputato neogollista e medico, chiede all’esecutivo e al mondo medico di non aprire l’era dell’«eutanasia per tutti». E nelle ultime ore, anche la Conferenza episcopale francese ha invitato tutti a riflettere: «È nostra convinzione profonda che un cambiamento legislativo possa avere per unico obiettivo di rendere più manifesto il rispetto dovuto a ogni persona in fin di vita. Ciò implica il rifiuto dell’accanimento terapeutico, il rifiuto dell’atto di uccidere, così come lo sviluppo delle pure palliative e il rafforzamento delle solidarietà familiari e sociali».

Daniele Zappalà
(Fonte: «Avvenire»)

18. Scienza & Vita: dalla Corte francese un no deciso all’eutanasia

«Vincent Lambert resterà in vita perché la giustizia francese ha riconosciuto ciò che da sempre sosteniamo con il sostegno della letteratura scientifica: alimentazione e idratazione non sono atti medici sproporzionati, ma sostegni vitali», così commenta Paola Ricci Sindoni, presidente nazionale dell’Associazione Scienza & Vita, a margine della decisione del 16 gennaio del tribunale amministrativo di Chalons-en-Champagne che vieta ai medici di interrompere l’alimentazione e l’idratazione all’uomo tetraplegico e in stato di minima coscienza. «Nel momento in cui anche in Italia si riaccende il dibattito sul tema, i giudici d’Oltralpe, intervenendo per evitare che si procedesse all’eutanasia passiva di un uomo in condizione di gravissima disabilità ma certamente vivo, hanno mandato un segnale importante e chiaro in favore della vita. In particolare, citando nella sentenza come una libertà fondamentale anche il diritto al rispetto della vita, richiamando l’articolo 2 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, i giudici hanno decretato che interrompere la nutrizione e l’idratazione rappresenta un intervento lesivo e manifestamente illegittimo verso il diritto alla vita di Vincent Lambert».

«Auspichiamo che nel nostro Paese, invece di veder promossi discutibili spot pro-eutanasia, si apra un confronto serio e scientificamente fondato sulla dignità delle persone in stato di minima coscienza e sul loro diritto a continuare a vivere sostenuti dalle cure necessarie e circondati dall’affetto dei familiari, così da sottolineare ancora con forza l’importanza culturale e sociale dell’accompagnamento clinico e affettivo per tutte le persone malate e in stato di fragilità».

(Fonte: «Scienza & Vita»)

19. Bere forte consuma la mente

21 gennaio 2014

Uomini e donne di mezz’età che bevono più di 36 grammi di alcol al giorno possono andare incontro a disturbi che coinvolgono la perdita della memoria addirittura con sei anni di anticipo rispetto ai coetanei che non bevono o bevono poco, secondo le conclusioni di uno studio su «Neurology». Nessuna differenza nelle funzioni mnemoniche e in quelle esecutive, cioè le capacità di attenzione e di ragionamento nel raggiungimento di un obiettivo, emerge invece tra i non bevitori, gli ex bevitori e chi beve poco o in modo moderato.

«Una quantità moderata di alcol equivale a non più di 2-3 Unità Alcoliche (UA) giornaliere, cioè 24-36 grammi per l’uomo» esordisce Séverine Sabia, ricercatrice all’University College London, Regno Unito, spiegando che una UA corrisponde a circa 12 grammi di alcol ed è contenuta in un bicchiere piccolo (125 ml) di vino a media gradazione o in una lattina di birra (330 ml) a media gradazione o in una dose da bar (40 ml) di superalcolico. In pratica, un lattina di birra a 4 gradi contiene poco più di 6 grammi d’alcol mentre una ad 8 gradi ne racchiude oltre 12 grammi.

«Gran parte degli studi condotti sulle interazioni tra alcol e memoria si basano su popolazioni anziane», dice la ricercatrice, che assieme ai colleghi ha invece preso in esame la mezza età, scoprendo che bere forte porta a un rapido declino in tutte le aree cognitive anche tra i meno anziani. Lo studio ha coinvolto 5.054 maschi e 2.099 donne le cui abitudini alcoliche sono state valutate tre volte in 10 anni. E i dati raccolti indicano che non ci sono differenze nella capacità mnemonica e nel declino della funzione esecutiva tra gli uomini che non bevono e i bevitori leggeri o moderati, cioè sotto i 20 grammi di alcol al giorno. Le cose cambiano, invece, e molto, per i forti bevitori, le cui funzioni cognitive calano da uno a sei anni più rapidamente rispetto agli altri gruppi. «In accordo con quelli di studi precedenti, i nostri dati indicano che il consumo moderato di alcol non danneggia la memoria delle persone, né la loro funzione esecutiva» conclude Sabia.

(Fonte: «Doctor 33»)
(Approfondimenti: http://www.neurology.org/content/early/2014/01/15/WNL.0000000000000063)

20. Giornalismo scientifico investigativo: perché ne abbiamo bisogno?

20 gennaio 2014

La notizia non è passata inosservata tra gli addetti ai lavori: per la prima volta, una grande rivista medica internazionale, il «British Medical Journal» (BMJ) ha nominato Associate Editor una persona non laureata in Medicina, incaricandolo dell’inedito compito di svolgere inchieste sulle dinamiche che sottostanno allo sviluppo, l’autorizzazione e il marketing dei medicinali. Anche in Italia, i ricercatori della Cochrane Collaboration sostengono questo progetto.

Dal dicembre scorso, Peter Doshi è uno dei più vicini collaboratori dell’editor-in-chief del BMJ, Fiona Godlee: sociologo di padre bengalese, madre tedesca e moglie giapponese, è felice ma non stupito del nuovo incarico: «Il BMJ ha sostenuto sin dall’inizio il lavoro che stiamo da anni portando avanti per svelare la storia della ricerca clinica che ha condotto alla approvazione degli inibitori della neuroaminidasi per il trattamento dell’influenza. Che una rivista scientifica senta l’esigenza di un condirettore deputato al giornalismo d’inchiesta non deve stupire: soprattutto dopo aver letto i libri di Ben Goldacre e David Healy, che si sono aggiunti a quelli degli ex direttori di grande riviste quali il «New England Journal of Medicine» – Jerome Kassirer e Marcia Angell – o lo stesso BMJ – Richard Smith.» Doshi si riferisce a Bad Pharma e a Pharmageddon, quasi mille pagine che dettagliano fatti, cifre e nomi di storie poco edificanti.

Doshi è uno dei promotori dell’iniziativa “Restoring Invisible and Abandoned Trials” (RIAT), presentata sul BMJ stesso e sulla più importante rivista open access, PLoS Medicine. RIAT è l’ultima tappa di un percorso iniziato almeno dal 1990 con l’articolo di Iain Chalmers sul JAMA «Underreporting Research Is Scientific Misconduct»: non a caso, Chalmers è tra i fondatori della Cochrane Collaboration, organizzazione che in molti Paesi del mondo – ed in Italia attraverso l’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane  – oggi sostiene a diversi livelli la necessità che tutti i risultati dei trial clinici siano accessibili a tutti, un’esigenza finalmente uscita dai recinti della discussione accademica per arrivare anche sulle colonne del «New York Times» con l’articolo «Breaking the seal of drug research».

«Abbiamo dedicato a questo tema il congresso annuale della nostra Associazione – spiega il presidente Luca De Fiore – e nei prossimi mesi intendiamo mantenere viva l’attenzione su questo argomento, anche sensibilizzando le istituzioni e le società scientifiche attive nell’ambito della ricerca clinica».

La richiesta di dati, spiega Doshi, risponde a due problemi fondamentali: «La mancanza dei risultati degli studi e del dettaglio dei metodi seguiti, così come la presentazione distorta di questi elementi condiziona pesantemente il percorso regolatorio dei medicinali e suscita delle domande a cui ancora nessuno ha dato risposta: perché i dati degli studi clinici non sono normalmente disponibili per analisi indipendenti dopo che un ente regolatorio ha preso una decisione? Come è stato possibile consentire alle aziende farmaceutiche di valutare i loro propri prodotti e tenere segrete grandi e sconosciute quantità di dati perfino alle agenzie responsabili dell’approvazione?».

Sono queste le ragioni per cui è nata l’iniziativa RIAT, che si articola in due fasi. Nella prima, si individua uno studio “invisibile” o “distorto”, si ottiene un report dalle agenzie regolatorie, si scrive all’azienda sponsor e si chiede di rendere trasparenti i dati o di eliminare le distorsioni, chiedendo di rispondere entro 30 giorni. Se l’azienda risponde affermativamente, ha 1 anno di tempo per ottemperare alla richiesta di pubblicazione. Se non si ottiene risposta, viene autonomamente avviata la ricerca dei dati, per portarli alla luce e pubblicarli su una rivista “RIAT friendly”. E’ importante sottolineare che l’iniziativa ha avuto l’appoggio di molti, prestigiosi periodici scientifici.

Grazie alla revisione degli studi clinici sulla base dei dati completi, l’assistenza al malato non potrà che migliorare: il suo fondamento infatti sono le evidenze, che ora sono in parte condizionate dalla presentazione distorta dei dati. Si tratta di una impresa che, infine, potrebbe essere determinante per dare una nuova credibilità alla ricerca scientifica. Ne è convinto anche Tom Jefferson, medico e tra i più esperti revisori del gruppo in cui è attivo anche Doshi. «Quello che gli autori di una revisione sistematica vedono – spiega Jefferson – è solo una piccola parte rispetto a quello che non vedono: le migliaia di pagine che compongono il Clinical Study Report (CSR) che comprendono anche le cartelle cliniche, i memorandum, la corrispondenza, i documenti organizzativi e soprattutto i dati individuali di tutti i pazienti arruolati nello studio (IPD): informazioni preziosissime alle quali hanno accesso solo i regolatori e in certi casi solo i ricercatori delle aziende farmaceutiche». Queste migliaia di pagine di informazioni devono necessariamente essere sottoposte a un grande lavoro di compressione se pensiamo che, nel caso di uno degli inibitori della neuroaminidasi, da un CSR di 8.545 pagine si è giunti – 10 anni dopo la conclusione dei trial – ad un articolo di sole 7 pagine sul «Journal of Antimicrobial Chemotherapy».

La strada appena intrapresa avrà sicuramente un forte impatto sulla Cochrane Library, il database di revisioni sistematiche curato dalla Cochrane Collaboration. Il direttore della Cochrane Library, David Tovey, ha più volte ribadito l’appoggio della Collaborazione ai progetti e alle iniziative di cui Doshi, Jefferson e Godlee sono testimoni, nonché alla petizione AllTrials.net coordinata da Ben Goldacre: «La Cochrane Collaboration – spiega Tovey – intende realizzare due importanti obiettivi entro il 2020: produrre evidenze e renderle pienamente accessibili. E intende farlo attraverso un processo attivo di definizione delle priorità, coinvolgendo cioè direttamente le persone e indagandone bisogni e perplessità. La strategia è rispondere al meglio alle necessità degli utenti, e, quindi, a quelle degli sponsor, con revisioni tempestive e aggiornate, di qualità, scritte con un linguaggio di facile comprensione e presentate (o tradotte) in più lingue, garantendo la diffusione, la trasparenza e l’accessibilità dell’informazione. Con l’auspicio che le aziende, in futuro, si facciano promotrici di studi clinici sull’efficacia piuttosto che sugli effetti delle terapie.»

Arabella Festa e Mara Losi (Associazione A. Liberati – Network Italiano Cochrane)

(Fonte: «Quotidiano Sanità»
(Approfondimenti: http://www.nytimes.com/2013/06/30/business/breaking-the-seal-on-drug-research.html?ref=rocheholdingag&_r=1&
http://associali.it/open-dalla-condivisione-dei-risultati-ad-una-ricerca-nuova-nell-interesse-dei-cittadini/le-relazioni/)

21. Obama sulla marijuana: “Non credo sia più pericolosa dell’alcol”

20 gennaio 2014

La marijuana? «Non credo sia più pericolosa dell’alcol, in termini d’impatto per l’individuo consumatore». Parole del presidente degli Stati Uniti Barack Obama estratte da una lunga intervista monografica effettuata dal direttore del «New Yorker», David Remnick.

«Ciò non vuol dire – ha precisato Obama – che io incoraggi l’abitudine alla droga leggera. Ho detto alle mie figlie che è una cattiva idea, uno spreco di tempo e per nulla salutare». In ogni caso il presidente Usa ha ribadito la sua volontà di trovare soluzioni normative che puntino ad una depenalizzazione dei consumatori: «Non possiamo mettere in galera ragazzi, quando probabilmente chi ha scritto quella legge per cui sono in arresto ha fatto la stessa cosa. I ragazzi del ceto medio non vanno in galera per droga, ci vanno quelli più poveri, che spesso sono afro-americani e latini e hanno meno risorse per evitare di essere puniti».

(Fonte: «Quotidiano Sanità»)

22. Spagna: i numeri dei non nati

21 gennaio 2014

Si chiama così: «Ley de Protección de la Vida del Concebido y los Derechos de la embarazada». Legge di Protezione dei diritti del concepito e della donna incinta. La nuova norma sull’aborto della Spagna è guidata da un calcolo aritmetico: «Ci sono 60 mila aborti di troppo», denuncia il coraggioso ministro della Giustizia, Alberto Ruiz-Gallardón, eterno ribelle, brillante, colto, con la passione della musica classica, rappresentante dell’ala progressista dei Popolari, che ha aggiunto: «La vita è un diritto inalienabile». E ancora: «Questa è la legge più avanzata e progressista fatta dal governo».

Il ministro della Giustizia è figlio di quel José Ruiz Gallardón che nel 1983 diede battaglia proprio alla prima riforma della legge sull’aborto voluta dai socialisti di Felipe González. Secondo uno studio dell’Istituto per la politica familiare, dal titolo “L’aborto oggi in Spagna 1998-2012”, gli aborti in Spagna sono raddoppiati, diventando “la prima causa di morte” nel Paese. Nel 1998 gli aborti furono 54 mila, quattordici anni dopo sono saliti a 118 mila. “Un aumento del cento per cento in dieci anni”. Una gravidanza su cinque oggi in Spagna termina con un aborto, le interruzioni di gravidanza sono 300 al giorno. I dati dimostrano anche che in Spagna l’aborto è stato “normalizzato” e adoperato come sistema anticoncezionale: il numero delle donne che hanno abortito più di cinque volte è aumentato del 213 per cento negli ultimi dieci anni.

Secondo l’Istituto per la politica familiare, senza cambi nella politica abortista si arriveranno a superare i 230 mila aborti all’anno nel 2015. La Spagna oggi è il terzo Paese europeo per numero di aborti, dopo Francia e Inghilterra, ma il primo in relazione agli abitanti. Per dirla con le parole del presidente dell’associazione E-cristians, Josep Mirò, “la Spagna è il paradiso degli aborti”. Un Paese, usando la formula icastica dei vescovi spagnoli, in cui “una lince è più protetta di una vita umana” (dal 1985 in Spagna si sono accumulati un milione e 350 mila aborti).

È la guerra attorno al “nasciturus”. Il gruppo pro life spagnolo Derecho a Vivir, guidato da Ignacio Arsuaga, ha distribuito un poster con il pancione di una donna incinta e la scritta: “Zona libera da pena di morte”. Fra le norme “rivoluzionarie” introdotte dal ministro della Giustizia Gallardòn c’è, infatti, anche l’eliminazione dell’“aborto eugenetico”, come lo ha definito lo stesso Gallardòn con parole inconsuete, ovvero l’interruzione di gravidanza in caso di disabilità del feto.

Con la nuova legge, l’interruzione della gravidanza sarà legale soltanto se la malformazione è “incompatibile con la vita”. La sindrome di Down, ad esempio, non rientra fra queste. Per fare un altro esempio, in Spagna si esegue sistematicamente l’eliminazione dei feti portatori di emofilia, anomalia assolutamente compatibile con la vita. «I disabili devono avere esattamente gli stessi diritti del resto degli spagnoli»” ha detto Gallardón, che dice di ispirarsi al principio di non discriminazione previsto dalla Convenzione dell’Onu per i diritti delle persone con disabilità . «La disabilità in una società avanzata, in una società progressista, non può mai significare una perdita di diritti», ha detto Gallardòn.

«C’è una richiesta formale dell’Onu affinché la Spagna deroghi all’articolo che fa riferimento alle malformazioni nella legge sull’aborto. Sarebbe assolutamente contrario a qualunque principio elementare di difesa della dignità della persona, stabilire diversi livelli di protezione in funzione delle capacità o disabilità delle persone, perché, se si fa con i concepiti, cosa impedisce che poi si possa estendere a chi è già nato». Secondo il giornale La Razon, «la nuova legge salverà ogni anno 3.590 bambini».

Giulio Meotti
(Fonte: «Il Foglio Quotidiano»)

23. L’allarme: il 10% dei reni trapiantati è da traffico illegale

20 gennaio 2014

Asia e Sud America. È qui, affermano gli esperti, che il fenomeno del traffico illegale di organi raggiunge i livelli più preoccupanti. Con un dato complessivo allarmante, secondo una recente stima dell’Organizzazione mondiale della sanità: almeno il 10% di tutti i trapianti di rene a livello mondiale sarebbe stato frutto di un traffico illegale. Un fenomeno che negli ultimi anni sta, però, anche cambiando volto. Il traffico di organi, infatti, oggi segue anche un’altra via: quella della Rete.

Una nuova carta geografica del traffico d’organi si sta delineando dopo il giro di vite da parte delle autorità di Paesi tradizionalmente colpiti dal fenomeno, come l’India. La Colombia, ad esempio, come segnalano alcuni esperti, è una delle nuove mete per quanto riguarda il “turismo d’organi” e la possibilità di traffico illegale per organi da trapianto, in particolare il rene: è stato infatti segnalato un aumento di annunci su Internet di cliniche colombiane per disponibilità di reni da trapiantare.

Le traiettorie del fenomeno, dunque, si sarebbero spostate verso nuovi Paesi come, appunto, la Colombia, ma anche il Pakistan e le Filippine. Non ci sono cifre esatte ma un numero significativo di europei, secondo gli esperti, si recherebbe in questi Paesi per trapianti illegali.

Oltre alla Colombia, anche in India la compravendita di organi viaggia sempre di più via Internet. Secondo dati recenti, sfruttando le comunità virtuali di incontro, molto popolari in India e tra gli indiani all’estero, migliaia di persone alimentano il traffico di organi. Negli anni scorsi, è stato calcolato che nel social network Orkut fossero almeno 35 le comunità nelle quali cercare e vendere soprattutto un rene.

(Fonte: «Il Manifesto»)

24. Aumenta la diffusione di tubercolosi in Sud Africa

21 gennaio 2014

Un gran numero di pazienti in Sud Africa con tubercolosi resistente ai farmaci (XDR -TBC) viene dimesso dagli ospedali diventando così un potenziale pericolo di diffusione dell’infezione a livello globale.

A rivelarlo è la rivista inglese «The Lancet»: «questi pazienti possono sopravvivere per mesi o addirittura anni», spiega uno degli autori dello studio, Keertan Dheda, dell’Università di Cape Town. «Abbiamo dimostrato per la prima volta che, contrariamente ai casi sporadici e isolati di fallimento del trattamento che vengono riscontarti nel resto del mondo, la resistenza ai farmaci è sempre più frequente fra i pazienti sudafricani».

L’équipe di Dheda ha esaminato 107 pazienti con XDR -TB provenienti da tre province del Sud Africa tra marzo 2008 e agosto 2012. Nonostante il trattamento intensivo con una media di otto farmaci diversi, i tre quarti (74%) sono morti cinque anni dopo. Soli 12 pazienti (11% del totale) ha avuto buoni risultati.

La scoperta più preoccupante, spiegano gli autori, è che poco meno della metà (42%) dei pazienti che sono risultati resistente ai trattamenti farmacologico è stato dimesso, quindi un potenziale pericolo di infezione per familiari e amici.

Dai dati di Dheda emerge che è accaduto proprio questo. «La scelta della autorità sanitarie sudafricane è assurda. Non ha senso far tornare queste persone in situazioni dove si vive in condizioni non salubri, con più famiglie in una piccola casa. Molti pazienti che non rispondono ai trattamenti vengono dimessi perché ci sono pochi posti letti disponibili e sono scarse le strutture residenziali idonee», spiega Dheda.

«Questo studio dovrebbe servire come campanello d’allarme sul controllo della tubercolosi globale. Sono assolutamente necessari importanti investimenti per lo sviluppo di farmaci e la messa a punto di nuove strategie diagnostiche», ha spiegato Max O’Donnell dell’Albert Einstein College of Medicine di New York.

Sempre dalle pagine di «The Lancet» arriva un’altra novità legata tubercolosi. Le cellule staminali del midollo osseo potrebbero aiutare a trattare efficacemente la tubercolosi resistente. Le prime prove dell’efficienza di questa strategia arrivano dai dati prodotti dall’équipe di Markus Maeurer del Karolinska University Hospital.

«Il nostro nuovo approccio che usa le cellule stromali del midollo osseo dei pazienti – ha spiegato a Maeurer – è sicuro e potrebbe aiutare a fronteggiare la risposta infiammatoria eccessiva dell’organismo, riparando e rigenerando i danni indotti dall’infiammazione ai tessuti polmonari e incrementando i tassi di guarigione».

È un piccolo passo avanti per arrivare a nuove strategie di cura per una malattia che ogni anno causa 1,3 milioni di morti, un pedaggio per una infezione che è seconda solo al HIV.

(Fonte: «Scienza in Rete»)

25. Non banalizzare l’aborto. Migliaia di persone in piazza a Parigi contro la revisione della legge del 1975

22 gennaio 2014

La Francia di nuovo in piazza. Questa volta per difendere la vita e far sentire la voce dell’associazionismo pro-life. Il 20 gennaio, infatti, in Assemblea nazionale è cominciato l’esame di un progetto di legge su “l’uguaglianza tra uomini e donne” che prevede al suo interno modifiche importanti all’attuale normativa sull’interruzione di gravidanza in vigore in Francia dal 1975. Migliaia di persone hanno dunque sfilato il 19 gennaio per le strade di Parigi. Hanno indossato i colori della bandiera spagnola – rosso e giallo – per rendere omaggio al governo Rajoy che, rendendo più restrittivo il progetto di legge sull’aborto varato nel 2010 dal precedente governo Zapatero, “ha dimostrato all’Europa che indietro si può tornare”.

I manifestanti erano 40mila secondo gli organizzatori della “Marche pour la vie” giunta quest’anno alla nona edizione. Al corteo erano presenti anche alcuni vescovi come l’arcivescovo di Avignone, Jean-Pierre Cattenoz, e mons. Marc Aillet, vescovo di Bayonne. La marcia per la vita ha addirittura ricevuto il plauso di Papa Francesco che ha inviato la sua benedizione sui manifestanti attraverso un messaggio al nunzio apostolico di Francia.

Il progetto di legge. L’Assemblea nazionale francese ha dunque avviato la discussione di un progetto di legge che prevede l’adozione di due emendamenti: il primo sopprime la nozione di “stato di difficoltà” della donna (“détresse”) per ricorrere all’aborto. Il termine verrebbe rimpiazzato con una espressione più neutra secondo la quale l’aborto può essere richiesto dalla donna che “non vuole proseguire una gravidanza”. L’altro provvedimento prevede di estendere e inasprire il reato a chi cerca di impedire alla donna il ricorso all’aborto non veicolando le informazioni utili sull’interruzione volontaria della gravidanza con una punizione che include la reclusione fino a due anni e 30mila euro di ammenda.

Secondo il governo, gli emendamenti sarebbero necessari per adeguare la legge vigente alla realtà della pratica di aborto in Francia. È Najat Vallaud-Belkacem, ministro dei diritti delle donne e portavoce del governo, a ricordare che il 35 per cento delle donne francesi ha fatto ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza nel corso della propria vita e che gli aborti compiuti in un anno in Francia sono stati 210mila a fronte di 810mila nascite.

La voce delle associazioni. In realtà sono stati forse proprio questi “numeri” a far scendere in campo associazioni pro-life e vescovi. In un comunicato diffuso al termine della Marche pour la vie, le associazioni chiedono il ritiro immediato dei due emendamenti contestanti al progetto di legge giunto in Parlamento. Si chiede anche «la presa di coscienza da parte dei poteri pubblici della realtà del dramma dell’aborto e la messa in opera di una vera politica di aiuto alle donne incinta in difficoltà che desiderano proseguire la gravidanza».

Commentando il successo di partecipazione che ha visto in piazza migliaia di manifestanti e delegazioni arrivate da tutta Europa, la portavoce della marcia, Cécile Edel, ha detto: “Nel conflitto che oppone il diritto del bambino concepito e il diritto della donne, gli sguardi si posano oggi finalmente sul più fragile: il bambino concepito e non ancora nato. I responsabili politici devono anzitutto guardare alla realtà: ci sono troppi aborti in Francia. La Spagna ci mostra un cammino di progresso”.

La parola dei vescovi. Nei giorni scorsi anche il “parlamentino” dei vescovi francesi aveva deplorato “la trasformazione profonda” della legislazione sull’aborto che si sta discutendo in Francia. «Penso – aveva detto monsignor Georges Pontier, arcivescovo di Marsiglia – che questo progetto di modifica della legge sull’interruzione volontaria di gravidanza, lungi dal permettere alle donne di sentirsi meno sole davanti alla loro responsabilità di fronte a una vita nascente, incita le donne stesse a non porsi alcun interrogativo circa l’eliminazione di un essere che portano in grembo». E aveva aggiunto: «Abortire non è mai un atto banale. Abortire non lascia indenni, non è l’eliminazione di un ammasso di cellule. E la donna in gravidanza sa bene di portare in grembo una vita umana».

(Fonte: «Sir Europa»)

26. L’inquinamento morde il cuore, a dispetto dei limiti europei

22 gennaio 2014

L’esposizione prolungata al particolato fine aumenta il rischio di attacchi cardiaci e angina, anche per valori ben al di sotto degli attuali limiti sanciti dall’Unione Europea, secondo uno studio su «British medical journal». Diversi trial hanno dimostrato gli effetti dell’inquinamento sulla mortalità, e la maggior parte di essi, quasi tutti statunitensi, sottolineano che la massa del particolato (P) più nocivo è fra 10 micron (PM10) e 2,5 micron (PM2, 5) di diametro. Le stime attuali indicano che il particolato atmosferico è responsabile di 3,2 milioni di morti nel mondo ogni anno, ma l’associazione tra esposizione a lungo termine all’inquinamento atmosferico e l’incidenza di eventi coronarici era finora controversa. Nonostante poche ricerche in Europa abbiano studiato il PM2,5 – in parte per la scarsa disponibilità dei dati di monitoraggio – emerge comunque anche nel nostro continente un’associazione significativa tra mortalità, biossido di azoto (NO2) e ossido di azoto (NOx). E, data la stretta correlazione nelle aree urbane tra NO2 , NOx e PM2,5 e traffico veicolare, l’interesse per gli effetti sulla salute del PM tra 2,5 e 10 micron è sempre maggiore.

Nell’Unione europea il limite per il PM2,5 è di 25 microgrammi per metro cubo (mcg/m3) di aria, di gran lunga superiore a quello statunitense di 12, e dei 10 suggeriti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Così, per fare chiarezza su quali siano i valori realmente nocivi alla salute un gruppo di ricercatori europei ha valutato l’esposizione standardizzata a PM 2,5-10, NO2, NOx correlata ai dati sanitari in Europa. L’obiettivo di Escape, European Study of Cohorts for Air Pollution Effects, svolto su oltre 360.000 residenti in città di grandi dimensioni in 13 Paesi europei e pubblicato su «The Lancet» a fine 2013 era di indagare l’associazione tra esposizione all’inquinamento e mortalità generale.

Ora, invece, lo scopo del gruppo europeo, coordinato dall’Università di Utrecht, Paesi Bassi, era di studiare l’effetto dell’esposizione a lungo termine agli inquinanti aerodispersi sugli eventi coronarici acuti, infarto e angina instabile, in 11 coorti di ESCAPE. Lo studio ha coinvolto oltre 100.000 persone senza malattie cardiache seguite in media per 11,5 anni, di cui 5.157 colpite da eventi coronarici nel follow-up. Dopo aver tenuto conto di diversi fattori di rischio tra cui comorbidità, fumo e fattori socio-economici, i ricercatori hanno scoperto che per un aumento di 5 mcg/m3 di PM2,5 le probabilità di eventi coronarici salgono del 13 per cento. Allo stesso modo, per un aumento di 10 mcg/m3 di PM10 il rischio di eventi coronarici sale del 12 per cento.

«Sono state rilevate associazioni positive significative sotto l’attuale limite europeo per il PM2,5 e sotto i 40 mcg/m3 per il PM10, mentre il rischio legato ad altri inquinanti come NO2 o NOx è positivo ma non significativo» scrivono i ricercatori, diretti da Giulia Cesaroni del Dipartimento di epidemiologia dell’Agenzia di Sanità Pubblica della Regione Lazio. «Questi risultati, assieme agli altri di ESCAPE, indicano la necessità di abbassare i limiti europei del particolato atmosferico per proteggere la salute pubblica».

E Michael Brauer con John Mancini, ricercatori all’University of British Columbia a Vancouver in Canada, commentano in un editoriale: «L’impatto dell’inquinamento impone il massimo sforzo per ridurre la morbilità e la mortalità di queste patologie in tutta Europa». Anche perché dalle misurazioni delle polveri sottili rilevate da ESCAPE si osserva nel vecchio continente un inquinamento crescente da nord a sud, con  l’Italia tra i Paesi più inquinati: Torino e Roma hanno totalizzato in media 46 e 36 mcg/m3 di PM10. Un’enormità rispetto ai valori di Oxford e Copenhagen, rispettivamente a 16 e 17 mcg/m3.

(Fonti: «Doctor 33» e «Città della Scienza e della Salute Torino»
Approfondimenti: http://www.bmj.com/content/348/bmj.f7412)

27. Trapianti, Nobel Usa propone vendita organi. Remuzzi: non del tutto infondato

22 gennaio 2014

Permettere per legge alle persone interessate di vendere un proprio rene, in un vero e proprio mercato con prezzi fissati dall’autorità pubblica? A formulare la proposta, in un’editoriale sul «Wall Street Journal» Gary Becker, recente premio Nobel per l’economia. Una proposta non così campata per aria secondo Giuseppe Remuzzi, Primario di Nefrologia e Dialisi degli Ospedali Riuniti di Bergamo. «Il problema è evidentemente complesso» spiega a DoctorNews «ma è già stato sollevato da tempo e non è del tutto infondato. Una regolamentazione per legge permetterebbe di ovviare all’attuale sproporzione tra disponibilità di organi e necessità degli stessi e alle conseguenti liste di attesa troppo lunghe. In sintesi si aiutano i poveri ma anche i malati». Ciò premesso non mancano gli aspetti discutibili come spiega il nefrologo. «Intanto organi provenienti da Paesi meno sviluppati aumenterebbero il rischio di infezione, perché ci sarebbe inevitabilmente meno controllo. Poi c’è il capitolo del diritto di mettere a rischio l’integrità del proprio corpo. Un punto se possibile ancora più complesso, ma per me non così indiscutibile. In fondo» sottolinea Remuzzi «ci sono molte attività nelle quali mettiamo a rischio consapevolmente la nostra integrità. Dovremmo proibirle?». Infine ci sono gli «aspetti morali», come li chiama l’esperto, legati al rischio di sfruttamento dei più poveri. «Il rischio c’è» conferma Remuzzi «ma il vero scandalo è la povertà non il fatto che si venda un rene. E forse gli sforzi si dovrebbero concentrare sull’eradicazione del problema. Anche perché la vendita di un organo non è certo risolutiva» conclude.

Marco Malagutti
(Fonte: «Doctor 33»)

28. Austria: diffusi risultati questionario vaticano sulla famiglia. Luci e ombre

22 gennaio 2014

Oltre 34mila risposte al questionario verso il Sinodo straordinario sulla famiglia: questo il risultato registrato dalla Chiesa cattolica austriaca. I principi più importanti, amore e fedeltà, matrimonio e famiglia, continuano a essere valori fondamentali per i cattolici austriaci e la religione riveste ancora un ruolo importante nelle famiglie, come dimostra il consenso ampio all’educazione cristiana dei bambini. Esistono tuttavia nette discrepanze tra dottrina della Chiesa e posizione dei cattolici, soprattutto nel campo del controllo del concepimento, dell’approccio con i separati risposati, dei rapporti prematrimoniali e, in misura minore, dell’omosessualità.

«Tutto verrà trasmesso così com’è» a Roma, ha promesso il card. Christoph Schönborn, presidente della Conferenza episcopale austriaca. «Percepisco dolore e speranza», ha dichiarato, in una prima presa di posizione sui dati raccolti. «Mi colpisce molto che così tanta gente abbia risposto, sebbene spesso la Chiesa venga criticata aspramente. Dalla serietà delle risposte date emerge un legame tra spirito critico e profonda preoccupazione per il futuro delle famiglie e dalle persone afflitte da problemi famigliari», ha affermato. Durante la visita ad limina a Roma tra il 27 e il 31 gennaio, i vescovi austriaci consegneranno le risposte alla Segreteria generale del Sinodo dei vescovi, informando personalmente Papa Francesco sui risultati.

(Fonte: «Sir»)

29. Rieducare al valore della vita: 41° Marcia per la Vita a Washington

22 gennaio 2014

Migliaia di persone hanno sfidato il 22 gennaio il gelo di Washington per partecipare alla 41° Marcia per la Vita. Famiglie, giovani, sacerdoti e religiosi, madri che hanno abortito e sopravvissuti all’aborto hanno marciato pacificamente attraverso la capitale Usa, invocando la fine dell’aborto legalizzato.

Iniziata nel 1974, la Marcia per la Vita si tiene ogni anno, in prossimità dell’anniversario della sentenza della Corte Suprema – nota come Roe vs. Wade – che dichiarava l’aborto legale negli Stati Uniti. Da allora, più di 57 milioni di bambini sono stati abortiti. Sebbene la pratica rimanga legale in tutti i 50 Stati americani, gli attivisti pro-life riferiscono di un declino del sostegno alla pratica abortiva a livello nazionale. «La crescita del movimento pro-life negli ultimi anni è stata fenomenale», ha dichiarato in un’intervista a Zenit, Lila Rose, fondatrice di Live Action.

Recenti sondaggi riportano che sempre più persone si identificano come pro-life, ha detto Rose, aggiungendo che, in particolare, si registra un trend crescente di donne e giovani a favore della vita. Inoltre, negli ultimi anni, il passaggio di una legislazione pro-life, come «il taglio senza precedenti ai fondi al gigante abortista Planned Parenthood», a livello statale e locale, è un positivo passo avanti verso la fine dell’aborto nel Paese.Nonostante questi progressi nella causa pro-life, comunque, Rose ha ricordato che c’è ancora molto da fare. «Non dimentichiamo che siamo nell’amministrazione Obama. È il presidente più abortista che abbiamo mai avuto, quindi il clima politico a livello federale è particolarmente ostile». Gli attivisti pro-life devono anche vedersela con il Mandato del Dipartimento di Sanità – noto come Obamacare – che «è un altro mezzo per forzare gli americani a finanziare l’aborto e la contraccezione».

«Dobbiamo disinnescare completamente il legame tra governo e industria abortiva», afferma Rose, aggiungendo che i fondi governativi per l’aborto vanno abrogati a livello federale.

«Dobbiamo essere inflessibili nel raggiungimento del nostro obiettivo di non finanziare Planned Parenthood. Non dobbiamo finanziare le pratiche abortive e non dobbiamo finanziare le pratiche contraccettive che siano anche abortive». «Ciò deve accadere. E ciò può accadere, anche con un presidente pro-aborto. Ci sono cose che possiamo e dobbiamo fare».

L’educazione è altrettanto fondamentale nelle cause pro-life, prosegue Rose, facendo notare che una delle iniziative di Live Action è l’educazione attraverso i media. «Dobbiamo essere instancabili nello smascherare l’industria abortiva negli Stati Uniti», ha detto. «Dobbiamo porla in evidenza di fronte ai media, di fronte al Parlamento, di fronte ai giovani, di fronte all’opinione pubblica».

«Dobbiamo compiere dichiarazioni propositive sul perché gli umani hanno dignità, perché hanno diritti, da dove questi diritti traggono origine. Dobbiamo educare la gente a comprendere perché è tuttora un’ingiustizia uccidere un bambino nel ventre materno e come questo rispetto per la vita umana vada esteso ad ogni persona, inclusi noi stessi».

Questa educazione, prosegue Rose, va promossa in modo da edificare «le fondamenta per un cambiamento duraturo». Va messo in chiaro che un bambino non nato “è un essere umano, con i suoi diritti, anche se è stato concepito dopo uno stupro, anche se sua madre non è in buona salute. Dobbiamo amarli entrambi e spiegare alla gente cosa significa”.

Mentre il movimento pro-life continua a fronteggiare queste sfide, Rose rimane ottimista. «La buona notizia è che il trend culturale è a nostro favore, grazie all’instancabile lavoro degli attivisti pro-life e di imprevisti alleati che stanno portando avanti il messaggio dell’umanità del bambino non nato».

Ann Schneible [Traduzione dall’inglese a cura di Luca Marcolivio]
(Fonte: «Zenit»)

30. Obiettivi europei su clima ed energia: ambiziosi o realisti?

23 gennaio 2014

Il 22 gennaio la Commissione Europea ha presentato la proposta sugli obiettivi in politica climatica ed energetica del prossimo decennio. Il documento, atteso da giorni, prevede che entro il 2030 le emissioni di gas serra vengano ridotte del 40%, il 27% dell’energia prodotta dal blocco europeo provenga da fonti rinnovabili e che vengano attuati “miglioramenti” nell’efficienza energetica a livello nazionale. I primi due obiettivi sono vincolanti, quindi obbligatori secondo la legislazione europea. Il target relativo all’efficienza energetica invece è “indicativo”: alcune fonti hanno ipotizzato un aumento del 25%, ma la questione verrà affrontata nei dettagli non prima del prossimo giugno, quando saranno valutati i risultati della direttiva precedente.

Rispetto agli obiettivi attuali (i famosi 20-20-20), le soglie da raggiungere sono più alte e soprattutto non verrebbero stabiliti obblighi nazionali specifici sulle rinnovabili, lasciando ai singoli Stati un margine di flessibilità per raggiungere l’obiettivo comunitario del 27%.

L’iter legislativo non è concluso: la proposta deve essere approvata dal Parlamento Europeo (con il primo voto in plenaria fissato a febbraio) e dal Consiglio (che dovrà discutere la proposta a marzo) prima di diventare legge.

La scelta di quali obiettivi dovrà adottare l’Unione Europea nei prossimi anni ha scatenato accesi contrasti tra le istituzioni europee, tra i Paesi membri e tra i gruppi che rappresentano settori industriali e produttivi. Il comitato parlamentare europeo sull’ambiente ha votato a favore di tre obiettivi vincolanti. I Paesi che sfruttano, o intendono sfruttare, risorse ad alte emissioni di gas serra (come la Polonia con il carbone e Regno Unito con lo shale gas) preferirebbero non dover rinunciare a fonti energetiche disponibili e a buon mercato, mentre gli stati che puntano verso una produzione di energia a basse emissioni di carbonio (tra gli altri, Germania, Francia e Italia) hanno fatto pressioni in senso opposto.

I rappresentanti delle compagnie che hanno investito sulle rinnovabili e sull’efficienza energetica hanno chiesto obiettivi chiari e vincolanti, facendo presente che in mancanza di una regolamentazione è difficile, se non impossibile, riavviare lo sviluppo economico verso fonti e tecnologie più “pulite”, ma nel breve periodo più costose di quelle basate sui combustibili fossili. Ovviamente tutti hanno le proprie ragioni e la proposta della Commissione, se sarà approvata, rappresenta un compromesso.

L’aggettivo dominante che ha accompagnato la presentazione del documento e le relative reazioni è stato “ambizioso”. I target proposti dalla Commissione Europea sono o non sono ambiziosi? In senso assoluto, la riduzione del 40% delle emissioni di gas serra entro il 2030 è una soglia alta rispetto agli obiettivi stabiliti a livello globale per mitigare i cambiamenti climatici. Forte di questa decisione, l’Unione Europea potrà presentarsi a testa alta ai prossimi negoziati sul clima che si terranno quest’anno a Lima e a Parigi nel 2015, quando dovrà essere negoziato un accordo globale vincolante sulla riduzione dei gas serra.

Dall’altra parte, uno studio varato dalla stessa Commissione Europea, pubblicato a dicembre, ha stabilito che le politiche in vigore, combinate con l’aumento del prezzo dei combustibili fossili previsto nei prossimi anni e con gli effetti dell’attuale crisi economica, porteranno già da sole a raggiungere ed a superare gli obiettivi per il 2020, con la prospettiva di arrivare ad una riduzione delle emissioni del 32% nel 2030 e del 44% nel 2050. Un’aspettativa insufficiente, considerato che l’obiettivo europeo per il 2050 è di ridurre le emissioni dell’80% rispetto ai livelli del 1990.

In una lettera aperta al presidente della Commissione Europea José Manuel Barroso, Kevin Anderson, ex direttore del Tyndall Center for Climate Change Research e professore presso l’università di Manchester, ha spiegato che «le emissioni globali oggi sono del 60 percento più alte rispetto al 1990. Da quando è stato pubblicato l’ultimo rapporto completo dell’IPCC (2007), sono state rilasciate nell’atmosfera 200 miliardi di tonnellate di anidride carbonica». Di conseguenza, lo sforzo di mitigazione richiesto nel 2013 è più impegnativo di quello che poteva essere ormai più di trenta anni fa. Secondo Anderson, l’obiettivo di riduzione coerente con l’impegno di mantenere l’aumento della temperatura globale entro i 2° sarebbe dell’80% nel 2030. Politicamente inaccettabile, ma scientificamente consistente.

Aurora D’Aprile
(Fonte: «Scienza in Rete»)
(Approfondimenti: http://ec.europa.eu/energy/doc/2030/com_2014_15_en.pdf)

31. Un lutto prematuro lascia ai bambini strascichi duraturi

23 gennaio 2014

L’esperienza traumatica di perdere un genitore o un fratello da bambini è associato a un aumento modesto, ma significativo di soffrire di psicosi nell’età adulta. Se poi la morte nel nucleo familiare ristretto avviene per suicidio, il rischio aumenta ancora. Lo rivela uno studio pubblicato sul «British Medical Journal» da un gruppo di ricercatori inglesi, americani e svedesi diretti da Kathryn Abel, del Centre for Women’s Mental Health dell’Università di Manchester.

Studi precedenti avevano già segnalato una correlazione tra il rischio di psicosi, specifiche caratteristiche genetiche e stile di vita, come pure tra lo stress sperimentato dalla gravida e lo sviluppo fetale, senza riuscire a fornire elementi conclusivi. Ora i ricercatori diretti da Kathryn Abel hanno preso in esame i nati in Svezia tra il 1973 e il 1985 incrociando i dati dell’istituto svedese di statistica e quelli del Ministero della salute e del welfare per verificare chi avesse subito la scomparsa di un parente stretto, con stratificazioni per età e causa della morte (comprendendo anche i lutti che avevano colpito la famiglia prima della nascita dell’interessato).

Sui 946.994 bambini presi in esame, esattamente un terzo (321.449, pari al 33%) avevano subito un lutto nel nucleo familiare ristretto entro i primi 13 anni di vita, quasi tutti per cause naturali. Tra questi, i più esposti al rischio di successiva psicosi sono apparsi i bimbi colpiti dal lutto nei primi tre anni dopo la nascita, con un picco nel caso di morte per suicidio.

(Fonte: «Doctor 33»)
(Aprofondimenti: http://www.bmj.com/content/348/bmj.f7679)

32. Austria. Strada sbarrata all’eutanasia

24 gennaio 2014

Il nuovo Governo federale austriaco ha incaricato una commissione parlamentare d’inchiesta e la commissione per la bioetica presso il cancellierato federale, affinché si occupi della possibilità di fissare nella Costituzione il divieto all’eutanasia. Da subito le associazioni cristiane hanno offerto il pieno sostegno all’accordo della coalizione di Governo per garantire l’accesso alle cure palliative e di fine-vita. Sulle prospettive e il dibattito in atto, non solo in Austria ma in tutta Europa, Massimo Lavena, per Sir Europa, ha interpellato Gerda Schaffelhofer, presidente della Kaö, Azione cattolica austriaca.

Come vede la scelta di legare alla Costituzione il divieto all’eutanasia?

«L’Azione cattolica austriaca sostiene ovviamente questo progetto del nuovo Governo. Il trattato di coalizione prevede che si garantisca l’accesso alle cure palliative e l’accompagnamento alla morte. La realizzazione di questi progetti costituirebbe un passo decisivo per difendere la dignità umana e i diritti dei malati incurabili e dei morenti in Austria. Finora, con la conferma del divieto dell’eutanasia e lo sviluppo dell’accompagnamento alla morte, l’Austria si è opposta con successo alla diminuzione della dignità della persona al termine della vita. Questo cammino è sostenuto sostanzialmente da cristiane e cristiani impegnati, ma vi si sono aggiunte anche molte persone di altre fedi o altre ideologie. Al contempo, va osservato che il cammino verso un inserimento effettivo del divieto nella Costituzione è ancora disseminato di numerosi ostacoli da rimuovere. Una volta che il Governo abbia concordato una proposta di legge, dovrà ottenere una maggioranza di due terzi in Parlamento. Qui occorrerà fare molta opera di convincimento presso i parlamentari, poiché gli oppositori di questi progetti si stanno mobilitando per ottenere esattamente il contrario, ossia l’introduzione dell’eutanasia attiva».

La morte dignitosa e l’assistenza palliativa: come convincere l’opinione pubblica che si può morire con dignità anche se si è malati?

«Il compianto arcivescovo di Vienna card. Franz König ha, a suo tempo, coniato questo detto straordinario: ‘Una persona deve morire tenendo la mano di un’altra persona e non a causa della mano di un’altra persona’. Questa frase mostra in cosa consiste l’accompagnamento alla morte, ossia, stare vicini e confortare un altro essere umano. Un ulteriore importante aspetto è dato dalle possibilità mediche della mitigazione del dolore. Per convincere l’opinione pubblica e la maggioranza della popolazione del fatto che l’accompagnamento alla morte e la medicina palliativa rappresentino una via migliore rispetto all’eutanasia attiva, occorrono provvedimenti in più settori. Innanzitutto i diversi media devono costantemente riportare la situazione del problema. Accanto all’informazione specifica occorre la testimonianza di personalità note e convincenti e di familiari. Altro ambito importante è quello della formazione di medici e personale infermieristico e occorre una consulenza sufficiente e qualificata per le persone coinvolte e i loro familiari. In tutti questi settori la Chiesa può svolgere un ruolo proattivo».

La scelta di non cadere nella tentazione dell’eutanasia ha unito i cristiani delle diverse confessioni: come presentare oggi un progetto di fede davanti alla cultura imperante dello “scarto”?

«Con il termine ‘cultura dello scarto’, Papa Francesco vuol dire che viviamo in un mondo in cui l’uomo non conosce alcun valore. Tutto ciò che non serve subito viene eliminato, perfino la vita umana che non mostri alcuna utilità. A Lampedusa, il Papa ha menzionato la ‘globalizzazione dell’indifferenza’. Secondo Francesco, tutto ciò trae origine dall’idea di un’autonomia assoluta, ossia libera da qualsiasi vincolo e rispetto, di ogni individuo. Ritengo che sempre più persone si oppongano a questo modo di vivere e non ci stancheremo mai di adoperarci per la dignità umana e il suo rispetto».

Vari Paesi d’Europa stanno seguendo logiche eutanasiche: quale deve essere la risposta dei cristiani?

«Se davvero l’Austria riuscisse a rendere costituzionale il divieto dell’eutanasia attiva e il diritto alla morte dignitosa, ciò rappresenterebbe un segnale chiaro per quei Paesi europei che consentono la morte a richiesta. Dal mio punto di vista è fondamentale che, a livello di istituzioni europee e particolarmente nel Parlamento Ue, venga fatta un’opera intensiva di persuasione contro l’eutanasia attiva, chiedendo anche che in tutta l’Europa si seguano gli sviluppi in questo settore con ricerche e studi. Ma il no all’uccisione conquisterà la maggioranza solo se nei singoli Paesi esisterà un sistema di hospice adeguato e buona qualità con relative cure palliative. Su questo devono adoperarsi le Chiese nei singoli Paesi»”.

(Fonte: «Sir»)

33. Medici Senza Frontiere rende noti suoi dati clinici per ricerca e azione umanitaria

24 gennaio 2014

Medici Senza Frontiere (MSF) avvia una nuova politica, improntata sulla condivisione dei propri dati medici, a vantaggio della ricerca per la salute pubblica. Verrà quindi consentito ai ricercatori l’accesso ai dati clinici e alla documentazione raccolta nell’ambito dei propri programmi medico-umanitari.

«Abbiamo il dovere di assicurare che i dati da noi raccolti possano essere utilizzati per il bene più ampio della salute pubblica – dichiara Leslie Shanks, membro del gruppo di lavoro MSF che ha contribuito a sviluppare la politica della condivisione dei dati – Tutto questo è particolarmente importante per le comunità da cui proviene la gran parte dei dati, molte delle quali sono popolazioni dimenticate o difficili da raggiungere a causa di conflitti o di barriere geografiche. Aprendo i dati all’utilizzo di altri esperti, speriamo di stimolare un miglioramento nelle pratiche mediche e umanitarie che potremmo non aver avuto le risorse o la capacità di sviluppare».

I precedenti sforzi di condivisione dei dati da parte di MSF hanno aiutato a validare protocolli di follow up clinico più breve per la malattia del sonno, e contribuito a definire raccomandazioni globali per il trattamento della tubercolosi multi-resistente ai farmaci (TB-MDR), che sono diventate la base per la revisione delle linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per questa malattia.

In un primo momento il progetto riguarderà i dati MSF relativi al trattamento di queste malattie, così come dell’HIV, che rappresentano la più ampia mole di dati clinici e documentali raccolti dall’organizzazione. L’archivio finale è ancora in fase di sviluppo, ma potranno essere inclusi tutti i dati considerati adeguati ai fini della politica di condivisione. MSF ha l’ambizione di arrivare a fornire un pieno e libero accesso ad alcune banche dati, ma la maggior parte dei dati verrà condivisa attraverso una procedura di accesso regolamentato. Poiché MSF lavora con popolazioni vulnerabili, questa procedura garantirà che la sicurezza degli individui e delle comunità coinvolte non venga compromessa.

Rendendo pubbliche le sue intenzioni, MSF spera di spingere altri attori umanitari a prendere in considerazione iniziative simili per la condivisione dei dati.

(Fonte: «Quotidiano Sanità»)

34. Da Facebook a Wikipedia. Il mondo del farmaco entra nei social media. Rapporto dell’IMS Institute

26 gennaio 2014

I social media e le tecnologie digitali approdano anche in ambito medico e sanitario: a chiedersi se la sanità è pronta ad affrontare questa sfida è l’IMS Institute for Healthcare Informatics, nel suo nuovo report ‘Engaging patients through social media: is healthcare ready for empowered and digitally demanding patients?’. L’IMS Institute for Healthcare Informatics, operante in vari Paesi, fornisce ‘decision makers’ ed esperti che predispongono linee di condotta politiche nell’intero settore della salute.

La versione completa del report, inclusa una descrizione dettagliata sulla metodologia, può essere trovata al sito www.theimsinstitute.org. Il report si basa sulla misura dell’impegno nell’ambito dei social media, attraverso uno specifico indice chiamato IMS Health Social Media Engagement Index, che rileva l’impatto di questi strumenti di comunicazione nell’uso dei medicinali, incluso il ruolo che le compagnie sanitarie giocano nell’acquisire queste piattaforme mediatiche come parte del loro business. Il rapporto include anche una nuova analisi sul ruolo di Wikipedia e sul suo collegamento con l’uso dei farmaci.

In particolare, questo esclusivo indice dell’IMS Institute misura la ‘portata’ a livello mediatico, in base al numero totale di individui che partecipano attraverso condivisioni, ‘likes’ o ‘re-tweets’; la ‘pertinenza’, che misura se il contenuto viene trovato utile e viene condiviso attraverso i social media, e poi il livello di interazione diretta intorno ad un argomento specifico.

Molte industrie farmaceutiche utilizzano sempre più questi strumenti per costruire un legame coi pazienti e col pubblico generale. «In maniera crescente, i pazienti si rivolgono ai social media come un ‘forum’ essenziale per ottenere e condividere informazioni relative alla loro salute», ha affermato Murray Aitken, Direttore Esecutivo dell’IMS Institute for Healthcare Informatics. «Questa tendenza da sola aumenta la necessità di contenuti pertinenti e accurati, cui il paziente possa avere accesso e che possano essere utilizzati durante il suo percorso. Occorre che gli operatori sanitari, le autorità di regolamentazione e tutti i produttori farmaceutici superino le loro reticenze e riconoscano il ruolo fondamentale che essi possono e dovrebbero giocare in qualità di partecipanti al dibattito sanitario».

Cosa è emerso dal report

Quasi la metà (23 su 50) dei maggiori produttori farmaceutici presi in considerazione presentano un certo livello di impegno collegato all’uso dei social media. Tra le società prese in considerazione dall’IMS Institute, il punteggio massimo dell’indice (IMS Health Social Media Engagement Index) viene raggiunto dalla Johnson & Johnson, con un totale di oltre 70 punti (nell’indice in media quasi 590 ‘likes’ per ciascun post). Nella classifica delle prime 10 industrie più ‘quotate’ rispetto a questo indice, i punteggi vanno da 25 a nove.

Inoltre, mentre i produttori attendono indicazioni rispetto ai requisiti, le agenzie regolatorie sono attive nei social media. Questi organismi utilizzano in maniera crescente il canale dei social media per raggiungere una più vasta audience in ambito sanitario. La Food & Drug Administration (FDA) degli Stati Uniti, che è molto presente su Facebook, si posiziona in alto nella classifica che misura il coinvolgimento sui social media e ha un punteggio dell’indice IMS più elevato rispetto a qualsiasi altra azienda farmaceutica. Rispetto alla presenza su Twitter, poi, l’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) è seconda solo alla FDA, con uno dei punteggi dell’indice più alti.

Dal report emerge inoltre che Wikipedia è la principale fonte di informazioni mediche, sia per il paziente che per il professionista del settore: le ‘top 100’ pagine inglesi sulla sanità sono state visitate, in media, 1,9 milioni di volte nello scorso anno. In un’analisi dei 50 principali articoli relativi a malattie specifiche, inoltre, l’IMS Institute ha rilevato una forte correlazione tra le visite alle pagine web e l’uso del farmaco, con raccolta di informazioni online durante il percorso del paziente. Il contenuto web su Wikipedia relativo ad argomenti sanitari è in costante modificazione ed è spesso supervisionato da gruppi ufficiali e spontanei. Almeno la metà di questi cambiamenti online sono collegati a informazioni specifiche dei pazienti.

Infine, tra i pochi fattori discriminanti nell’uso dei social media, c’è l’età dell’utente, mentre il sesso, l’educazione, il reddito e altri vantaggi sociali sono elementi lo sono in maniera minore. Il paziente più giovane, infatti, tende ad informarsi online prima di iniziare la terapia, mentre il paziente dai 50 anni in su tende ad iniziare il trattamento prima di ricercare informazioni sul web.

Viola Rita
(Fonte: «Quotidiano Sanità»

35. Usa. Contraccezione, effetto domino per il no della Corte a Obama

27 gennaio 2014

Dopo più di tre settimane di attesa e d’incertezza, le Piccole Sorelle dei poveri americane hanno ottenuto una vittoria legale di peso dalla Corte suprema Usa. L’ordine religioso non dovrà fornire copertura sanitaria per la contraccezione e l’aborto chimico ai suoi dipendenti, né chiedere alla sua assicurazione di farlo. Con questa decisione, la Corte ha esteso automaticamente lo stesso diritto alle centinaia di gruppi cattolici che si erano uniti alle Little Sisters nella loro causa contro il governo americano. La sentenza non è finale. I nove togati del massimo tribunale americano, come hanno precisato nel loro ordine, non hanno infatti voluto esprimere «la loro visione sui meriti della sfida legale». Si sono invece limitati ad estendere uno stop temporaneo all’entrata in vigore della riforma sanitaria, per le Little Sisters come per gli ordini religiosi analoghi che ne faranno richiesta con una semplice lettera.

In questo modo permettono alle suore di evitare milioni di dollari di multe mentre il loro caso percorre tutti i livelli dell’iter giudiziario, ora giunto in appello. Era stata la giudice suprema Sonia Sotomayor ad ordinare una prima sospensione del «mandato contraccettivo» imposto da Obamacare, con un pronunciamento d’urgenza arrivato in extremis alle dieci di sera del 31 dicembre scorso, due ore prima dell’entrata in vigore della riforma sanitaria. La lentezza con cui l’intero collegio del giudici supremi ha confermato la decisione della Sotomayor rivela una battaglia dietro le quinte sulla legittimità dell’obbligo per i datori di lavoro di concedere gratuitamente farmaci e metodi contraccettivi ed abortivi ai loro dipendenti, contenuto in Obamacare. E lascia intendere che la Corte sta già esaminando la costituzionalità della questione, come dovrà necessariamente fare nei prossimi mesi. Comunque si esprimano i giudici d’appello, infatti, il caso delle Piccole sorelle è destinato ad essere portato alla sua attenzione.

Inoltre la Corte ha già accettato di esaminare una richiesta di obiezione di coscienza mossa dai proprietari di due aziende a scopo di lucro che si sono appellati alla libertà di poter applicare i principi della loro fede cristiana. «Siamo molto felici», ha commentato il 26 gennaio a nome delle suore Mark Rienzi, l’avvocato dell’associazione legale Beckett Fund for Religous Liberty che le rappresenta pro-bono. Anche il presidente della Conferenza episcopale statunitense, Joseph Kurtz, ha accolto con sollievo la «protezione offerta dalla Corte a ministeri come quello della Little Sisters, il cui lavoro rappresenta quello che significa essere cattolici». Le religiose hanno 75 dipendenti che le aiutano ad operare una rete di case di riposo per anziani indigenti e senza un blocco degli obblighi di Obamacare nei loro confronti, avrebbero accumulato 100 dollari al giorno di multe per dipendente a partire dal primo gennaio. Ora per esserne esenti devono solo mandare una lettera al ministro per la Sanità e i Servizi sociali. Altre decine di gruppi hanno citato a giudizio l’Amministrazione Obama per lo stesso motivo, comprese alcune diocesi e l’Università cattolica americana di Notre Dame.

Elena Molinari
(Fonte: «Avvenire»)

36 . Choosing wisely prosegue. I 5 Interventi da evitare nella gestione del dolore

28 gennaio 2014

Dopo oncologi, psichiatri, dermatologi e altri specialisti, ora in Usa anche gli anestesisti dell’Asa (American society of anesthesiologists) e i terapisti del dolore dell’Aps (American pain society) si sono dotati di una propria “Top 5 list”, il noto elenco di procedure comunemente eseguite ma da evitare – perché spesso inutili, sempre costose e talvolta pericolose – stilate nell’ambito dell’iniziativa “Choosing wisely” (Scegliere saggiamente), varata dall’Abim (American board of internal medicine foundation).

Ecco i divieti per gli specialisti del dolore. 1) Non prescrivere analgesici oppioidi come terapia di prima linea nel trattamento del dolore cronico non oncologico. Considera prima una terapia multimodale, compresi trattamenti non farmacologici come terapie comportamentali e fisiche. Se indispensabili i farmaci, prova Fans o anticonvulsivanti prima degli oppioidi. 2) Non prescrivere oppioidi come terapia a lungo termine per trattare il dolore cronico non oncologico fin quando i rischi non siano stati discussi con il paziente, informandolo dei rischi, quale la dipendenza. Usa cautela nella coprescrizione di oppiacei e benzodiazepine. Valuta in modo proattivo e tratta, se indicato, effetti negativi frequenti quali stipsi e riduzione dei livelli sierici di testosterone o estrogeni. 3) Evita l’imaging – Rm, Tc o Rx – per lombalgia acuta senza indicazioni specifiche, specie nelle prime 6 settimane, in quanto non sono necessari nella maggior parte dei casi e possono anzi rivelare reperti casuali che distolgono l’attenzione dalla reale causa del dolore, aumentando il rischio di interventi chirurgici inutili. 4) Non usare la sedazione endovenosa (propofol, midazolam, o infusione di oppioidi a durata d’azione ultra-breve) per blocchi nervosi diagnostici e terapeutici, o iniezioni intrarticolari, come pratica abituale. In teoria le procedure diagnostiche dovrebbero essere effettuate con la sola anestesia locale. La sedazione endovenosa si può usare solo dopo analisi e discussione dei rischi, come l’interferenza con la valutazione degli effetti antidolorifici acuti della procedura e la possibilità di falsi positivi nella risposta. 5) Evita interventi irreversibili per il dolore non oncologico, come blocchi neurolitici chimici periferici o ablazione periferica con radiofrequenza, che, oltre a essere costosi, possono causare significativi rischi a lungo termine di debolezza, intorpidimento o aumento del dolore.

Arturo Zenorini
(Fonte: «Doctor 33»)

37. Pubblicato il palmarès della ricerca mondiale. Sei italiani nella lista dei “top 400”

28 gennaio 2014

Sei scienziati italiani, che continuano a fare ricerca nel nostro Paese, figurano nella prestigiosa ‘top 400’ della ricerca medica mondiale. L’annuncio, viene dalle pagine di «European Journal of Clinical Investigation»,che ha pubblicato questa classifica dei ‘cervelli’, basandosi su indici bibliometrici applicati a ‘Scopus’, il più ampio database di abstract e citazioni di letteratura scientifica peer reviewed.

Questa gigantesca banca dati comprende oltre 21 mila titoli (tra i quali, 20.000 riviste peer reviewed) appartenenti ad oltre 5.000 editori internazionali e 5,5 milioni di lavori congressuali. Contiene 50 milioni di voci (29 milioni di voci – l’84% delle quali abstract – da oggi al 1995; altre 21 milioni di voci di era pre-1996, risalenti indietro fino al 1823). In questo mare magnum della conoscenza scientifica mondiale sono presenti oltre 15 milioni di autori.

John P.A. Ioannidis della Stanford University School of Medicine (California) e colleghi hanno pubblicato su «European Journal of Clinical Investigation» una ricerca che ha preso in esame la lista degli autori che dal 1996 al 2011 hanno ottenuto un h-index maggiore di 20, contandone circa 150.000, circa l’1% del totale. All’interno di questa moltitudine di cervelli, gli autori hanno operato un’ulteriore scrematura, selezionando 532 nomi, appartenenti alla ‘top 400’ di quelli in assoluto più citati da altri lavori (> 25.142 citazioni) o alla ‘top 400’ di quelli con il più alto h-index (un vertiginoso > 76); infine Ioannidis ha selezionato i ricercatori da includere nella ‘top 400’ assoluta, basata sulla combinazione dell’indice di citazione e dell’h-index.

Lo scettro della ricerca mondiale spetta all’immenso Eugene Braunwald, il cardiologo più famoso di tutti i tempi, autore delle più importanti ricerche sulla cardiopatia ischemica e sullo scompenso cardiaco; praticamente l’uomo che ha maggiormente improntato il progresso medico in ambito cardiologico, nella seconda metà del secolo scorso.

Ma l’Italia non sta a guardare. Il secondo e il quarto posto assoluti sono occupati da due ‘cervelli’ italiani, purtroppo fuggiti negli Usa, i grandissimi Carlo Maria Croce e Napoleone Ferrara, entrambi in odore di Nobel, preziosi come quadri di Leonardo, per sempre persi dall’Italia. Ma per fortuna per leggere e imparare dalle loro ricerche, non è necessario mettersi in fila al Louvre. Il web ce li rende vicini.

E anche la ricerca italiana ‘in patria’ è molto ben rappresentata in questa lista d’onore, con 6 scienziati tra i primi 400 del mondo. Alberto Mantovani, immunologo di chiara fama e direttore scientifico dell’Istituto Clinico ‘Humanitas’ di Rozzano (Milano), che occupa addirittura il sesto posto assoluto della top 400; Alberto Zanchetti e Giuseppe Mancia, padri mondiali della ricerca sull’ipertensione e opinion leader indiscussi del settore; Antonio Colombo del San Raffaele di Milano, cardiologo interventista tra i più famosi del mondo; Giuseppe Remuzzi, celeberrimo nefrologo direttore del Dipartimento di Medicina e dei Trapianti dell’Azienda Ospedaliera ‘Papa Giovanni XXIII’ di Bergamo e coordinatore delle Ricerche presso l’Istituto Mario Negri di Bergamo; Vincenzo Di Marzo, esperto di fama mondiale nel sistema degli endocannabinoidi e direttore di Ricerca presso l’Istituto di Chimica Biomolecolare del CNR di Pozzuoli.

Lungi dall’essere un mero esercizio di bibliometria, il roster dei cervelli mondiali verrà utilizzato dagli autori dello studio per svolgere ricerche e sondaggi in merito a varie questioni, tipo ‘quali caratteri di un lavoro scientifico ne definiscono il maggior impatto’, ma anche questioni relative alla sponsorizzazione delle ricerche, alla condotta e alla pubblicazione delle ricerche stesse.

Questa lista d’onore potrà essere utilizzata come un ‘Linkedin’ degli scienziati al top, con endorsement di elevatissimo livello, per individuare candidati alle posizioni di revisore, di consigliere e dirigenziali.

Ma forse, la ricaduta più importante sarà quella di indirizzare i flussi dei fondi per la ricerca verso lidi sicuri, con serie garanzie di value for money. E l’Italia si presenta con tutte le carte in regola.

Maria Rita Montebelli
(Fonte: «Quotidiano Sanità»
(Approfondimenti: http://www.quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=8835307.pdf)

38. Curare con l’arte. Parte il progetto europeo Musa

28 gennaio 2014

Definire le competenze professionali per valorizzare attività artistiche sempre più importanti per i percorsi di cura, quali musicoterapia e clownterapia. È questo l’obiettivo del progetto europeo Musa – “MUSic performing and creative Arts professions involved in healthcare”, ideato e promosso dalla Fondazione Salesi, onlus impegnata nel mantenere e diffondere la più adeguata cultura assistenziale al bambino malato.

Il progetto Musa punta a definire standard normativi per queste professioni, che svolgono un’importante attività di ausilio alle attività clinico-assistenziali: «L’idea è nata nell’ambito dei nostri progetti di musicoterapia – ha spiegato Annarita Settimi Duca, direttrice della Fondazione Salesi -; abbiamo toccato con mano l’effetto benefico che queste attività hanno sui pazienti, nell’abbassare i livelli di stress e nel favorire il percorso di guarigione. Come Fondazione siamo sempre alla ricerca di nuove vie per migliorare la qualità di vita del bambino in ospedale e quando ricorriamo alle arti-terapie dobbiamo sapere a chi rivolgerci e a quali competenze fare riferimento. Il progetto Musa sarà fondamentale proprio per definire le professioni impiegate in attività come clownterapia, pet therapy e musicoterapia e costruire, insieme con gli operatori sanitari, un’alleanza terapeutica per potenziare i percorsi di cura».

Il progetto verrà cofinanziato dall’Unione europea; è stato infatti scelto, insieme con altri 18, tra i 200 pervenuti da tutta Europa nell’ambito del programma Leonardo per la formazione professionale in Europa. Le linee guida comunitarie puntano proprio a chiarire profili professionali che svolgono un ruolo importante, soprattutto in periodo di crisi, con l’obiettivo di favorire la mobilità professionale e la trasparenza delle qualifiche.

La Fondazione Salesi, in qualità di capofila, coordinerà le azioni previste in due anni di lavoro, tra cui: sviluppare una mappa per il riconoscimento delle professioni legate alle arti-terapie, produrre evidenze scientifiche sull’efficacia di tali terapie, creare un portale on line come piattaforma utile agli operatori coinvolti e diffondere la conoscenza delle arti-terapie sensibilizzando l’opinione pubblica.

Il partenariato è composto da soggetti che a livello internazionale hanno esperienze rilevanti in questo settore: l’Azienda Ospedaliero – universitaria Ospedali Riuniti di Ancona, l’Associazione italiana Professionisti della Musicoterapica di Firenze, la Latvia Music Therapy Association di Liepaja (Lettonia), la Facoltà di Pedagogia e Psicologia dell’Università di Bialystok (Polonia), la Yildirim Beyazit University di Ankara (Turchia) e il College Grŵp Llandrillo-Menai di Rhos on Sea (Regno Unito).

È previsto in marzo ad Ancona il primo meeting tra i partner del progetto.

(Fonte: «Quotidiano Sanità»)

39. Fda nuove linee guida per etichette sui prodotti alimentari

29 gennaio 2014

Dopo 20 anni, la Fda (che contrariamente all’Ema si occupa anche della sicurezza alimentare) rivede le norme relative ai valori nutrizionali riportati sulle etichette alimentari per riflettere l’evoluzione delle conoscenze in questo campo dai primi anni ‘90 a oggi. «Vent’anni fa al centro dell’attenzione si trovavano i grassi e i grassi indifferenziati» ricorda Michael Taylor, vicecommissario Fda per gli alimenti. «Poi gli operatori della salute si sono concentrati maggiormente sulle calorie e hanno avvertito la popolazione dei rischi derivanti dai grassi saturi e trans, piuttosto che dai grassi in toto». Ma c’è anche «la sensazione che le etichette non siano efficaci come dovrebbero» secondo Michael Jacobson, del Center for science in the public interest. «Vi si trovano almeno un paio di dozzine di sostanze con le quali la gente non ha familiarità». Inoltre negli Usa, in cui per le misure si utilizza il sistema metrico consuetudinario, l’espressione delle quantità in grammi (unità del sistema metrico decimale) non viene realmente compreso.

Dopo un lavoro decennale, l’Fda ha inviato le linee guida per le nuove etichette alla Casa Bianca, che per decidere probabilmente terrà conto dei suggerimenti che giungono da vari sostenitori della salute. Ecco le istanze principali: evidenziare maggiormente il contenuto calorico, segnalare la quantità di zuccheri aggiunti usando la dizione ‘cucchiaini da tè’ al posto di ‘grammi’ come unità di misura, nei prodotti su cui è scritto ‘farina integrale’ riportarne la reale percentuale (molti ne contengono scarsa quantità), avere informazioni più chiare sul valore nutrizionale per singola porzione nelle confezioni distinguendo etichette per porzione e per confezione, regolamentare non solo le informazioni sul retro della confezione ma anche sul fronte facilitando la lettura del contenuto di sostanze nutritive rilevanti per il consumatore.

Da citare infine alcuni dati del dipartimento Usa dell’agricoltura: il 42% dei lavoratori adulti nel 2009/10 ha sempre (o nella maggior parte dei casi) letto le etichette dei cibi (fino al 34% nei 2 anni precedenti). I più anziani sono i soggetti maggiormente attenti.

Arturo Zenorini
(Fonte: «Farmacista 33»)

40. Decisioni surrogate: per un anziano su due decide qualcun altro

29 gennaio 2014

A richiedere assistenza decisionale da parte di familiari o altri aventi diritto è quasi la metà dei ricoverati in ospedale sopra i 65 anni, la cui salute è troppo compromessa per prendere decisioni indipendenti. Queste, almeno, sono le conclusioni di uno studio su «Jama Internal Medicine» dell’Istituto Regenstrief e dell’Indiana University Center for Aging Research. «La stragrande maggioranza dei decisori sono figli o coniugi, e alcuni pazienti hanno addirittura due o più persone che decidono per loro» dice Alexia Torke, professore associato di medicina all’Indiana University School of Medicine, rilevando che più di 13 milioni di anziani vengono ricoverati ogni anno negli Stati Uniti, numero destinato ad aumentare con l’invecchiamento della popolazione. E ciò significa che ogni anno milioni di surrogati dovranno prendere importanti decisioni al posto degli anziani ricoverati.

Ma quali decisioni? Per esempio se proseguire il sostegno vitale, se rianimarlo in caso di arresto cardiaco, in che modo curarlo e se istituzionalizzarlo o meno alla dimissione. Prosegue Torke: «Molti degli anziani stanno in terapia intensiva, ma la maggior parte di loro sono degenti in medicina generale, dimostrando che l’assistenza decisionale è necessaria in tutti i reparti.

I ricercatori hanno seguito 1.083 adulti anziani ricoverati in due grandi ospedali urbani, accertando che quando la cura richiedeva importanti decisioni mediche che il paziente non poteva prendere per demenza, delirio o di altri deterioramenti cognitivi, i medici si rivolgevano a decisori sostitutivi, spesso familiari o in altri casi persone designate in precedenza dal paziente con atto legale. «Ma la presenza di un surrogato richiede ai medici modifiche importanti nel modo di procedere e comunicare: molti trattano i familiari come visitatori piuttosto che come membri del team sanitario del paziente» osserva la ricercatrice. E in un editoriale di commento Yael Schenker, internista all’Università di Pittsburgh, in Pennsylvania, aggiunge: «I surrogati hanno spesso difficoltà a contattare il personale ospedaliero per ottenere le informazioni necessarie alle loro decisioni. E i medici segnalano altrettanto spesso che decidere assieme con i familiari o gli aventi diritto è altamente stressante». E conclude: «Questi risultati non sono solo uno stimolo a sviluppare strategie per supportare l’assistenza decisionale in ospedale, ma anche un importante primo passo per affrontare le dinamiche che tali decisioni implicano».

(Fonte: «Doctor 33»)
(Approfondimenti: http://archinte.jamanetwork.com/article.aspx?articleid=1813221)

41. Medscape mette a nudo i camici bianchi Usa

29 gennaio 2014

Quanti sono i medici obesi? E quanto sono felici? Sono sposati o single? Chi va in burnout? O, ancora, quanta vacanza fanno all’anno? Le risposte a queste e a molte altre domande sono nel Rapporto Medscape 2014, un sondaggio che alza il sipario sulla vita dei dottori pubblicato da uno dei più noti siti internet americani per medici. Per mettere a nudo pregi e difetti dei suoi lettori, Medscape ha intervistato fra ottobre e dicembre 2013 ben 31.399 medici statunitensi di 25 diverse specialità. Dice Ronald Viggiani, internista e direttore editoriale di Medscape: «La nostra indagine prova a sviscerare la vita dei medici fuori dalla professione: idee politiche e spirituali, salute, stato civile, risparmi e felicità fuori dal lavoro».

L’anno scorso, il rapporto Medscape si è occupato di burnout. Quest’anno, invece, il portale web era interessato allo stile di vita: cosa e dove mangiano, l’uso di integratori, la medicina complementare e alternativa. E in generale la salute dei dottori è buona, specie tra oculisti e dermatologi. In fondo alla classifica, invece, ci sono gli intensivisti, seguiti a ruota da cardiologi, internisti, nefrologi, psichiatri, e reumatologi.

Nonostante la buona salute, una spina nel fianco dei medici è il sovrappeso: anche se solo l’8% degli intervistati ammette l’obesità, ben il 34% riferisce dei chili di troppo. I più grassi sono i chirurghi generali seguiti dai medici di famiglia, gastroenterologi, intensivisti e pneumologi. Viceversa, dermatologi, oculisti, chirurghi plastici e allergologi tendono a essere i più magri, e le donne più dei maschi. Ma essere in forma vuol dire dieta sana, e i medici non fanno eccezione: chi è sovrappeso è anche più propenso a consumare una dieta a base di carboidrati, carne, grassi, ristoranti o fast food. A farlo è il 44%o dei medici grassi, mentre il 62% dei magri o normopeso segue una dieta sana con frutta e verdura. E, sorpresa, solo il 16% dei medici sovrappeso oppure obesi era a dieta per limitare le calorie.

Però bevono poco: quasi metà dei medici dichiara meno di una bevanda alcolica la settimana, e circa un terzo non beve affatto. Diffusi, invece, gli integratori alimentari: più del 60% dei medici oltre i 45 anni li usa, e quasi la metà dei più giovani. I più comuni sono i multivitaminici, seguiti da vitamina D, calcio e acidi grassi omega-3. Ma nonostante integratori, poco alcol e dieta sana anche i medici hanno le loro magagne, prime fra tutte mal di schiena, dolori articolari e artrite.

E, chi lo direbbe, oltre un terzo dei dottori si cura con la medicina alternativa o complementare consultando chiropratici, osteopati o agopunturisti. Ma una volta rimessi in sesto, quando vanno in vacanza? Ad andarci più spesso, quattro settimane l’anno, sono anestesisti e radiologi, mentre diabetologi ed endocrinologi sono i meno vacanzieri. Ma in gran parte, circa il 60% degli intervistati, sono felici a casa propria, specie dermatologi e oculisti. Viceversa, solo il 40% dei medici lo è sul lavoro.

Felici e felicemente sposati, sembra: tre quarti di chi ha risposto al sondaggio è coniugato, e solo una volta; i risposati sono il 15% dei maschi e il 10% delle donne; il 5% è single e meno del 10% è divorziato. L’indagine – consultabile online – include molte altre domande su spiritualità, risparmi, burnout e volontariato.

(Fonte: «Doctor 33»)
(Approfondimenti: http://www.medscape.com/sites/public/lifestyle/2014)

42. «Usa, grave errore legalizzare la Cannabis»

29 gennaio 2014

«Cosa penso di ciò che sta avvenendo in Uruguay e negli Stati del Colorado e di Washington? Che la decisione di rendere libera la vendita della marijuana costituisca una rottura della solidarietà internazionale e degli accordi sottoscritti fra le 193 nazioni che fanno parte dell’Onu. E lo dirò nel prossimo incontro delle Nazioni Unite di marzo a Vienna quando presenterò a tutti i governi il rapporto annuale dell’organismo che presiedo…». Belga, 66 anni, Raymond Yans ha trascorso le ultime tre decadi a occuparsi di narcotici sotto il profilo giuridico e diplomatico. Dal 2012 è presidente dell’International narcotics control board (Incb), organismo «indipendente», stabilito dalla Convenzione sulle droghe del 1961 e al quale è demandato il compito di vigilare sull’applicazione dei trattati sovranazionali sui narcotici: «Ne controlliamo il rispetto. E quei trattati già disciplinano un uso minimo “legale”, sotto stretto controllo medico, di alcuni narcotici. Che è però cosa ben diversa da un’apertura alla vendita generalizzata su cui qualcuno insiste…».

Dunque, lei è contrario alla cosiddetta «legalizzazione»…

L’Incb non dà valutazioni scientifiche. Ma non posso non ricordare come l’Organizzazione mondiale della Sanità non abbia emesso alcun parere per dire che la cannabis non è dannosa. E ho qui con me una recente dichiarazione dell’American society of addiction medicine, emessa dopo le dichiarazioni del presidente Obama. E sa cosa scrivono?

No, presidente Yans. Cosa?

Che la marijuana è una droga che intossica, inficia la memoria, crea danni motori e respiratori, soprattutto ai più giovani. Inoltre crea dipendenza. Usarla è una roulette russa: pochi ne escono illesi, tutti gli altri no. Pertanto, politiche pubbliche che sostengano la prevenzione e le terapie per le dipendenze dovrebbero essere la corretta base d’azione per una malattia cronica che, solo negli Usa, riguarda 23 milioni di americani. E ciò implica che le suddette sostanze non debbano essere rese più facilmente disponibili o “propagandate” come meno dannose di ciò che effettivamente sono. Ciò non vuol dire che l’assuntore debba essere messo in cella: deve essere aiutato e curato, non è un criminale.

È stato in Uruguay dopo la decisione del Parlamento?

Gli Usa cercano di rispondere alle nostre sollecitazioni, provando a trovare scuse ammissibili, ma che per noi non sono tali. L’Uruguay invece non dialoga. Non ha neppure consentito a noi dell’Incb di visitare ufficialmente il Paese. Noi li abbiamo invitati a Vienna e non sono venuti. Volevamo fare una missione a Montevideo: all’inizio era stata accettata, ma poi è stata cancellata per ragioni politiche. Mi hanno detto: se lei interviene in Parlamento, potrebbe influenzare i deputati nelle loro scelte.

Lei lo avrebbe fatto?

No di certo, ma avrei ricordato loro quali sono le convenzioni in materia. Come si fa a ignorarle, senza tener conto delle ripercussioni a livello mondiale? Mettiamo che uno Stato legalizzi la cannabis, cosa si potrà dire ad altri come Libano, Turchia, Libia, Nigeria o altri Paesi africani, dove coltivarla è illegale? Le regole internazionali si cambiano insieme, non con fughe in avanti. Se uno o più Paesi vogliono farlo, ne discutano nell’Assemblea generale del 2016. Ma dubito che sia una posizione condivisa.

C’è chi, anche in Italia, sostiene: la legalizzazione delle droghe toglierebbe profitti a mafie e narco-cartelli. Cosa ne pensa?

Davvero qualcuno crede questo? Le mafie venderebbero lo stesso, magari ai minori o ai soggetti deboli ai quali la legge lo vieta. O venderebbero a prezzi più bassi, come accade col traffico delle sigarette. Le mafie non si fermano così.

Vincenzo R. Spagnolo
(Fonte: «Avvenire»)

43. Cure palliative. Ne avrebbero bisogno ogni anno 40 milioni di persone. Ma a riceverle è meno del 10%. L’Atlante OMS e WPCA

29 gennaio 2014

Meno del 10% delle persone che ne hanno bisogno sta attualmente ricevendo cure palliative: si tratta della situazione fotografata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità insieme al Worldwide Palliative Care Alliance (WPCA) – una rete globale per lo sviluppo di hospice e cure palliative – nel documento intitolato «Global Atlas of Palliative Care at the End of Life».

Questo tipo di cure comprende il supporto del paziente con malattia grave a livello avanzato (terminale), sia a livello fisico che emozionale e psico-sociale, ed inoltre il supporto ai membri della famiglia che assistono il malato.  Circa un terzo di chi ha bisogno di queste cure soffre di cancro. Tra le altre malattie, poi, ci sono quelle che colpiscono il cuore, polmone, fegato, rene, cervello o malattie che possono essere mortali incluse HIV e tubercolosi resistente a farmaci.  Le stime parlano di 20 milioni di pazienti alla fine della vita che necessitano ogni anno di cure palliative, di cui il 6% sono bambini. E il numero di chi le richiede raddoppia, arrivando a circa 40 milioni, se si considerano anche i pazienti che potrebbero trarre beneficio dalle cure palliative in una fase iniziale della loro malattia.

Nel 2011, solo circa tre milioni di pazienti hanno ricevuto cure palliative. Anche se questa assistenza viene fornita soprattutto in Paesi ad alto reddito, quasi l’80% della necessità globale relativa ad essa proviene da Paesi a basso e medio reddito. E poi, soltanto in 20 Paesi al mondo le cure palliative sono ben integrate nel sistema sanitario.

«L’Atlante dimostra che la grande maggioranza della necessità globale di cure di fine vita è associata a malattie non trasmissibili come il cancro, malattie cardiache, ictus e malattie polmonari», spiega Oleg Chestnov, OMS Assistant Director-General for Noncommunicable Diseases and Mental Health. «Mentre noi aumentiamo gli sforzi per ridurre il peso degli attuali maggiori agenti mortali nel mondo, dobbiamo anche alleviare le sofferenze di chi ha malattie progressive che non rispondono ai trattamenti».

Al fine di raggiungere una copertura sanitaria totale, questo Atlante (il documento Atlas), dunque, richiama tutti i Paesi del mondo affinché includano le cure palliative come componente essenziale di qualsiasi sistema sanitario moderno. Tale inclusione comporta anche di affrontare i seguenti ostacoli: la mancanza di politiche che riconoscano le cure palliative e la necessità di questa assistenza, sia alla fine della vita che durante la progressione della malattia; la mancanza di risorse per implementare i servizi, compreso l’accesso a farmaci essenziali, in particolare antidolorifici; la mancanza di conoscenza degli operatori sanitari, dei volontari e anche del pubblico sui benefici delle cure palliative.

«I nostri sforzi per espandere le cure palliative devono indirizzarsi ad offrire sollievo dalla sofferenza e ai benefici delle cure palliative a chi ha risorse minime», aggiunge David Praill, Co-Presidente del WPCA. La scorsa settimana, il Comitato esecutivo dell’OMS ha invitato i Paesi a rafforzare le cure palliative e ad integrarle nei loro sistemi sanitari. Si prevede che la 67a Assemblea Mondiale della Sanità discuterà il tema nel prossimo maggio 2014.

L’importanza delle cure palliative è stata sottolineata dal Piano d’Azione Globale dell’OMS per la prevenzione e il controllo delle malattie non trasmissibili 2013 – 2020 e dal più recente elenco di farmaci essenziali dell’OMS che include una sezione specifica sui medicinali per le cure palliative.

Viola Rita
(Fonte: «Quotidiano Sanità»)
(Approfondimenti: http://www.who.int/nmh/Global_Atlas_of_Palliative_Care.pdf?ua=1)

44. Belgio, 38 pediatri seminano dubbi sull’eutanasia ai minori

31 gennaio 2014

È davvero necessario estendere la legge sull’eutanasia ai minori? È davvero così urgente e drammatica la situazione in Belgio per prendere una decisione così delicata e prenderla dopo pochi giorni di discussione? E i minori sono in grado di scegliere per se stessi l’opzione ultima dell’eutanasia? Sono molti gli interrogativi che restano senza una risposta “politica”. E a porli non sono i membri di un determinato schieramento politico ma i pediatri. Per la precisione, un gruppo di 38 medici che ogni giorno lavorano a fianco dei bimbi malati. Sono loro a prendere la parola con una lettera-appello dal titolo “Fine-vita dei bambini: una legge inutile e precipitosa”. La Commissione Giustizia della Camera ha approvato l’estensione dell’eutanasia ai bambini ed entro 15 giorni il testo (già approvato in dicembre in Senato) sarà votato in seduta plenaria alla Camera.

Le obiezioni. Quattro le principali osservazioni che i medici sottopongono all’opinione pubblica. La prima è che “questa legge non risponde ad alcuna reale esigenza”. “La maggior parte delle équipe mediche, che hanno in cura bambini in fase terminale, a domicilio o in ospedale, devono ammettere che non si sono mai trovati nella loro pratica davanti a una domanda di eutanasia spontanea e volontaria espressa da un minore”. La seconda osservazione parte dal presupposto che i pediatri si dicono assolutamente contrari a ogni forma di accanimento terapeutico e a tutte quelle pratiche terapeutiche volte a “prolungare inutilmente la vita”. Ciò che viene contestato è poi la modalità con cui la Camera e il Senato in Belgio stanno portando avanti la legge e, cioè, “troppo rapidamente” e rifiutando tutte le domande di audizione presentate da pediatri ed esperti. Questa fretta – a parere dei pediatri – rischia di generare nell’opinione pubblica “l’impressione che la situazione nel nostro Paese sia drammatica e che, pertanto, occorre agire con urgenza”. Ma – assicurano i pediatri – non è assolutamente così.

La capacità di scegliere del minore. Il punto fondamentale della questione rimanda sicuramente al minore e alla sua capacità effettiva di scegliere per sé la soluzione migliore. Secondo i medici, dare facoltà al minore di optare per l’eutanasia rischia di rendere la situazione della sua malattia ancora più difficile e complessa di quanto non lo sia già. I pediatri mettono in guardia dalla possibilità che il minore possa in qualche modo cedere all’eutanasia per venire incontro ai suoi genitori che “consciamente o inconsciamente possono incoraggiarlo a farla finita”. “Non è incongruo pensare – proseguono i pediatri – che un bambino dotato di una sensibilità particolare percepisca l’opzione dell’eutanasia come una soluzione o addirittura un dovere soprattutto se sente che i suoi genitori non sopportano più di vederlo soffrire”. Anche qui l’interrogativo è puntuale: come giudicare e chi valuta la reale capacità di discernimento e giudizio del minore? “Si tratta – sentenziano i pediatri – di una valutazione largamente soggettiva e soggetta a varie influenze”.

Anche i parlamentari del Consiglio d’Europa e i vescovi. Sulla questione sono scesi in campo anche un gruppo di 58 parlamentari del Consiglio d’Europa di diversi Paesi e schieramenti politici. Hanno presentato una dichiarazione scritta (n. 567) che – si specifica nel preambolo – non impegna l’intero Consiglio d’Europa. Ciò che viene contestato alla legge belga è presupporre “in maniera erronea che i bambini sono capaci di dare un consenso informato all’eutanasia e che possono comprendere il significato grave e le conseguenze complesse associate a una tale decisione”. I parlamentari ritengono, inoltre, che l’attuale legge “sostiene l’opinione inaccettabile secondo cui una vita possa essere indegna di essere vissuta rimettendo così in discussione la base stessa di un società civilizzata”.

I vescovi del Paese sono da tempo impegnati a contrastare la legge in una battaglia condivisa anche dai leader delle altre religioni che in maniera del tutto straordinaria hanno fatto sentire nei mesi scorsi la loro voce sottoscrivendo una dichiarazione congiunta. Sono previste invece per il 6 e l’8 febbraio una serie di Veglie di preghiera a Bruxelles, Lovanio e Basse-Wavre. In un appello rivolto a “tutti gli uomini e le donne di buona volontà”, con queste parole si è espresso l’arcivescovo di Malines-Bruxelles monsignor André-Joseph Léonard: “Osiamo dire ai nostri concittadini: ‘Non è mai troppo tardi. È questo il momento!’. Scuotiamo le nostre coscienze e con rispetto anche quella dei nostri fratelli e sorelle in umanità. È giunto il momento di agire. Contiamo su di voi!”.

Maria Chiara Biagioni

(Fonte: «Sir»)

© Bioetica News Torino, Febbraio 2014 - Riproduzione Vietata