1 – Putin: bimbi russi solo agli italiani
1 dicembre 2013
Solo gli italiani ormai possono adottare gli orfani russi. Parola di Pavel Astakhov, l’incaricato del Cremlino per i diritti dell’infanzia, che il 30 novembre ha dichiarato che soltanto i cittadini del nostro Paese possono ancora avere il diritto, secondo la legge di Mosca, ad accogliere nelle loro famiglie i bambini russi: «Non riconosce i matrimoni omosessuali, ed è l’unico Stato ad avere con noi un accordo bilaterale sull’adozione, e a rispettarlo».
L’altro Paese con il quale è pronto un accordo è la Francia, ma non è stato ratificato e le prospettive della sua entrata in vigore non sono chiare, in quanto nel frattempo Parigi ha permesso i matrimoni gay, mentre la Russia, con un voto della Duma nel giugno scorso, ha vietato l’adozione dei piccoli russi in Paesi dove potrebbero venire affidati a coppie omosessuali. «Con l’Italia invece non c’è bisogno di rivedere l’accordo», ha commentato Astakhov. Italiani brava gente, e quello che agli occhi di molti è segno di arretratezza, agli occhi dei russi è una virtù.
La virata moralizzatrice e conservatrice della Russia al terzo mandato di Putin, dove ormai si parla di introdurre l’ortodossia come religione di Stato e una legge proibisce la «propaganda gay» con la scusa di tutelare i minori, salva solo l’Italia. I media russi hanno commentato positivamente l’incontro di Putin con Papa Francesco al Vaticano, enfatizzando la difesa dei valori tradizionali che hanno in comune.
A fare le spese di questa nuova politica sono gli orfani russi. Nel 2012 2.600 bambini sono stati adottati da genitori stranieri, di cui 762 da italiani, al primo posto nella classifica. Al secondo c’erano gli americani, con 646 bambini, che sarebbero stati di più se un anno fa non fosse stata varata la «legge di Dima Yakovlev», il bambino morto negli Usa e servito da pretesto per bandire le adozioni Oltreoceano, dove prosperano, secondo Astakhov, «la pedofilia, la violenza, gli abusi, come da nessun’altra parte». Che in realtà il bando sulle adozioni negli Usa fosse una ripicca per l’«atto Magnitsky» con il quale il Congresso Usa introduceva sanzioni contro i funzionari russi ritenuti responsabili della morte in carcere dell’avvocato anti-corruzione Serghei Magnitsky, non lo nascondevano tanto nemmeno a Mosca.
La nuova stretta nelle adozioni internazionali è dovuta, probabilmente, anche al fatto che 23 delle famiglie americane rimaste senza figli si sono rivolte al Tribunale dei diritti umani a Strasburgo, chiedendo notizie dei bambini. Informazioni che la parte russa si rifiuta di fornire, sostenendo che sono stati quasi tutti affidati a genitori russi. Secondo i media locali, non è proprio così: si trattava di bimbi gravemente malati, molti dei quali non potevano essere curati in Russia, e uno di loro, affetto da una grave patologia cardiaca, sarebbe morto, mentre gli altri attendono ancora un’adozione. Che probabilmente non arriverà mai: nonostante Astakhov vanti un’impennata di adozioni nazionali, più di 6 mila nel 2012, i russi normalmente non vogliono bambini malati o ritardati e non prendono quasi mai quelli sopra i 4-5 anni, quando fingere che siano figli naturali diventa impossibile.
L’unica speranza di questi bimbi, a questo punto, restano gli italiani. Per poco: Astakhov proclama come obiettivo la chiusura totale delle adozioni internazionali, in nome dell’orgoglio russo e per evitare che i piccoli russi corrano il rischio di finire nell’Occidente depravato, dove l’omosessualità non è considerata una vergogna da nascondere (in attesa che torni a essere un reato, visto che più della metà dei russi è favorevole a rimettere i gay in carcere come ai tempi sovietici). In Siberia a Kemerovo hanno appena bandito tutte le adozioni estere, ed è probabile che l’iniziativa si diffonda presto ad altre regioni russe.
Anna Zafesova
(Fonte: «La Stampa»)
2 – La Croazia dice no alle nozze tra omosessuali
2 dicembre 2013
I croati dicono no alle nozze omosessuali. Il 1° dicembre il Paese, la cui popolazione è in larghissima maggioranza di religione cattolica, ha deciso in un referendum di inserire nella propria Costituzione la definizione del matrimonio come un’unione esclusivamente tra “un uomo e una donna”. La consultazione è stata disertata dalla maggioranza dei 3,8 milioni di elettori, alle urne si è recato solo il 37,86%. Una forte maggioranza, il 65,77%, si è espressa a favore del “sì “al quesito in cui si chiedeva: «Vuoi definire il matrimonio come l’unione tra un uomo e una donna?». Contro questa modifica costituzionale si è schierato invece il 33,62% dei votanti, secondo i dati diffusi la sera del 1° dicembre dalla Commissione elettorale sulla base del 99 per cento delle schede scrutinate.
È la prima volta in un Paese dell’Unione Europea che l’istituto giuridico del matrimonio alle coppie eterosessuali è oggetto di consultazione. La Croazia è 28-esimo Stato della Ue dallo scorso primo luglio, 4,4 milioni di abitanti che per il 90 per cento si professano cattolici. I valori tradizionali hanno prevalso contro gli appelli del governo, del presidente della Repubblica, di una larga parte dei media e del mondo accademico che nelle scorse settimane hanno invitato i croati a non avallare questa forma di discriminazione e di divisione tra famiglie di primo e secondo grado.
L’iniziativa è stata promossa dal collettivo conservatore “In nome della famiglia”, legato alla Chiesa cattolica croata, sostenuto dalla destra nazionalista all’opposizione e capace di raccogliere oltre 750 mila firme in difesa della «sola unione che consenta la procreazione», come ha dichiarato il cardinale Josip Bozanic. Inserendo la definizione del matrimonio nella Carta fondamentale, i promotori intendono prevenire futuri tentativi di legalizzare le nozze gay attraverso modifiche al diritto di famiglia, che non richiedono la maggioranza dei due terzi in Parlamento.
Con questa modifica della Costituzione la Croazia si unisce alla Lettonia, Lituania, Polonia, Ungheria e Bulgaria, i cinque Paesi dell’Ue che hanno già una definizione esclusivamente eterosessuale del matrimonio nelle rispettive Costituzioni.
Resta però l’ombra della legittimità democratica del referendum, il cui tasso di affluenza è stato bassissimo, fatto che però non ne compromette la validità, con risultati vincolanti, dato che non era richiesto nessun quorum. Ma il fatto che a un referendum di una così larga portata, con un potere costituzionale, abbia votato solo il 37,86 per cento dei 3,8 milioni di aventi diritto, suscita comunque qualche dubbio. Inoltre, la Corte costituzionale croata ha spiegato che la «definizione del matrimonio come un’unione tra un uomo e una donna» non incide sulla definizione della famiglia e che l’esito del referendum «non può in nessun modo limitare uno sviluppo futuro della regolamentazione legislativa delle unioni civili tra le persone dello stesso sesso».
La coalizione di centro-sinistra guidata dal premier Zoran Milanovic, che non ha mai proposto le nozze ma si prepara ad estendere alle unioni civili omosessuali i diritti delle coppie etero sposate, si era schierata contro il referendum. «Un’espressione di omofobia, un voto triste e insensato. Non dovremmo essere coinvolti in decisioni che invadono lo spazio intimo della famiglia», ha detto Milanovic, preoccupato che il voto costituisca un precedente per legittimare altre consultazioni potenzialmente lesive dei diritti delle minoranze, prima fra tutte quella serba.
Proprio ieri scadevano i termini di raccolta firme per il referendum sostenuto dai nazionalisti contro il bilinguismo, dopo gli scontri dei mesi scorsi sulle iscrizioni in caratteri sia latini che cirillici a Vukovar, la città martire rasa al suolo nel 1991 dall’armata popolare jugoslava e dai paramilitari serbi. «Una nazione si giudica dall’atteggiamento che assume nei confronti delle minoranze», ha dichiarato con amarezza il presidente Ivo Josipovic.
Le associazioni mettono in guardia dall’utilizzo dello strumento democratico del referendum a danno di un principio fondamentale come la tutela dei diritti umani e civili. Bruxelles, entrata recentemente in rotta di collisione con Zagabria per una legge sull’estradizione infine modificata, non ha preso posizione sul voto. La questione dei matrimoni omosessuali è di competenza dei singoli Stati. In Croazia il primo Gay Pride si svolse tra duri scontri nel 2002.
Monica Ricci Sargentini
(Fonte: «Corriere della Sera»)
3 – I cittadini europei e la scienza: nuova indagine Eurobarometro
3 dicembre 2013
I cittadini europei riconoscono l’importanza di scienza e tecnologia, ma reclamano maggiori garanzie e una migliore informazione. Questo è il sunto di una recente indagine Eurobarometro che dimostra che oltre tre quarti (77%) della popolazione europea pensa che scienza e tecnologia svolgano un ruolo positivo nella società, ma è preoccupata per possibili rischi a danno di ambiente e salute. Per questo motivo, secondo il campione di cittadini europei consultati, la ricerca dovrebbe essere condotta garantendo più attenzione i principi etici (76%), la rappresentanza di genere (84%) e il dibattito pubblico (55%).
Sono oltre 27 mila le persone di ogni strato sociale e gruppo demografico intervistate la scorsa primavera in tutta Europa. Le opinioni raccolte non si discostano sensibilmente dall’indagine condotta sullo stesso tema nel 2010. Già allora quasi l’80% dei cittadini dichiarava di essere interessato alle scoperte scientifiche e al progresso tecnologico. Molti, però, esprimevano già preoccupazione in merito ai rischi posti dalle nuove tecnologie e al potere che la scienza conferisce agli scienziati. Più del 70% degli europei auspicava che aumentassero i finanziamenti concessi dalla UE e il 65% riteneva che i governi dovessero fare di più per stimolare l’interesse dei giovani verso le materie scientifiche.
Oggi l’interesse generale della popolazione per lo sviluppo di scienza e tecnologia appare piuttosto diffuso (53%), ma il 58% degli intervistati ritiene che si debba fare ancora di più. Le principali fonti di informazione restano televisione (65%), quotidiani (33%), internet (32%) e riviste (26%). I Paesi scandinavi si confermano quelli a più alta scolarizzazione scientifica e con una maggiore quota di cittadini impiegati nel settore tecnologico. In generale, tuttavia, meno della metà (47%) degli intervistati dell’Unione ha una formazione tecnico-scientifica.
Le risposte del campione italiano, confrontate con quelle rilevate da simili sondaggi, nel 2010 ma soprattutto nel 2005, offrono un quadro particolarmente interessante e spunti di riflessione che dovrebbero guidare scelte programmatiche più lungimiranti. Nel 2005 l’Italia era tristemente in testa alla classifica europea per alcuni aspetti del sondaggio: era il Paese più superstizioso e fra quelli che riteneva che il proprio governo dovesse investire di più in scienza e tecnologia. Allora il nostro Paese era anche uno degli Stati meno preoccupati dall’etica della scienza e i suoi cittadini si distinguevano rispetto alla media europea per la bassa percentuale (10%) di lettori di articoli su temi scientifici.
Ancora oggi, rispetto alla media europea, gli italiani dimostrano minore fiducia nel ruolo positivo che scienza e tecnologia svolgono nella società. Anche se la necessità di prevedere misure a livello europeo per garantire l’eticità dell’operato dei ricercatori e un accesso equo al settore per entrambi i sessi sono temi avvertiti dagli italiani, sorprendentemente, il 34% degli interpellati nel nostro Paese ritiene che, in nome di una nuova scoperta scientifica, sia plausibile violare diritti fondamentali. La differenza di genere è un altro ambito su cui riflettere, in Italia.
A informarsi con regolarità su scienza e tecnologia sono il 40% degli uomini e il 29% delle donne, nonostante l’interesse dichiarato per la materia sia quasi identico fra i due sessi (53% vs. 50%). Inoltre, un background di formazione scientifica appare più comune fra le donne (54% vs. 47%), eppure sono ancora gli uomini a risultare maggiormente impiegati nel settore. Del resto, nei Paesi Ocse le donne ottengono più della metà delle lauree universitarie, ma rappresentano solo il 30% di quelle scientifiche e tecnologiche. Non stupisce, invece, che una caratteristica piuttosto diffusa e uniformemente condivisa attraverso gli anni e i Paesi sia il livello di fiducia nei confronti dei diversi attori coinvolti nel settore.
Le categorie che riscuotono meno fiducia fra i cittadini restano gli industriali, i politici e gli intellettuali. Al contrario, il 66% degli interpellati fa affidamento in coloro che fanno ricerca, soprattutto se impiegati nel settore pubblico, presso laboratori universitari, perché ritenuti più responsabili e più adatti a comunicare con la società.
I risultati dell’indagine, oggi, sono utili soprattutto in vista dell’avvio del prossimo programma europeo su ricerca e innovazione (Horizon 2020), che partirà nel 2014 investendo oltre 80 miliardi di euro in temi di impatto diretto sulla vita dei cittadini, come salute pubblica, trasporti, sicurezza alimentare ed energetica.
Uno dei suoi principali obiettivi sarà avvicinare alla scienza e alla tecnologia le nuove generazioni per incrementare l’ingresso nel mercato delle professioni di questo settore, con particolare attenzione alle donne, tuttora poco rappresentate.
(Fonte: «Scienza in Rete»)
(Approfondimenti: http://ec.europa.eu/public_opinion/archives/ebs/ebs_401_fact_it_en.pdf)
4 – Malattie mentali, solo un paziente su tre si cura
4 dicembre 2013
Le malattie che colpiscono il cervello sono caratterizzate da un impatto economico enorme, 798 miliardi di euro in Europa, e da un paradosso: dei circa 164 milioni di cittadini europei colpiti (il 38,2% della popolazione), soltanto uno su tre riceve la terapia e i farmaci necessari. Lo stigma che si associa a queste patologie appare come il principale responsabile del fatto che tanti pazienti non vengono curati ed è proprio per combatterlo che è stata attivata l’iniziativa “ConcretaMente: i progressi della ricerca sfidano i disturbi del cervello”, un ciclo di incontri per sensibilizzare e informare i cittadini sull’accesso alle cure organizzato dall’Università di Milano che col patrocinio dello European Brain Council.
«Le malattie mentali e neurologiche – spiega Giorgio Raccagni dell’Università di Milano – sono molto diverse tra loro, ma accomunate da una più o meno scarsa attenzione dovuta alla poca conoscenza e alla convinzione che molte di esse non siano in alcun modo curabili. Lo stigma è esso stesso una malattia, la paura della diagnosi e dell’eventuale inguaribilità riduce l’accesso del malato alle cure». Eppure, i disturbi mentali sono oggi diagnosticabili precocemente, tutti curabili e a volte guaribili, assicura il presidente della Società italiana di psichiatria Claudio Mencacci, «e lo saranno sempre di più in futuro, grazie soprattutto alla tempestività del trattamento, permettendo a molti malati di avere una buona qualità di vita e un buon inserimento sociale».
Anche per le patologie neurologiche, una diagnosi precoce può fare la differenza, a partire dall’Alzheimer: «È la forma più comune di demenza e colpisce circa 36 milioni di persone nel mondo. Il numero è destinato a crescere e a toccare i 66 milioni entro il 2030. I limiti attuali nell’approccio alla malattia sono legati ai tempi della diagnosi, – conferma Carlo Ferrarese, segretario della Società italiana di neurologia – che in genere avviene quando è ormai compromesso più del 70% del corredo neuronale, riducendo al minimo i margini di successo della terapia».
Renato Torlaschi
(Fonte: «Doctor 33»)
5 – Poche informazioni sull’abuso di sostanze tra i medici
5 dicembre 2013
Quasi l’uno per cento degli specializzandi in anestesiologia tra il 1975 e il 2009 aveva disturbi da uso di sostanze (Sud) durante l’attività clinica. E il rischio di recidiva durante il follow-up era alto, indicando una futura persistenza del rischio anche a lungo termine.
Parola di David Warner, ricercatore del Dipartimento di anestesiologia della Mayo Clinic di Rochester, Minnesota, e coordinatore di uno studio pubblicato da «Jama». «L’abuso di sostanze è un disturbo che colpisce anche i medici. Specie gli anestesisti, a causa del facile accesso a composti potenti come gli oppioidi endovena o gli anestetici ipnotici», spiega il ricercatore. Ciononostante, le informazioni sull’epidemiologia dei disturbi da uso di sostanze tra medici e anestesisti restano limitate. «E le poche disponibili, per la scarsità di studi, alimentano infinite discussioni su come fare prevenzione e terapia», riprende Warner, che per chiarire l’argomento ha esaminato con i colleghi l’incidenza e gli esiti tra gli oltre 44 mila specializzandi in anestesiologia formati negli Stati Uniti tra il 1975 e il 2009 e seguiti al termine del programma formativo fino a dicembre 2010.
«I casi confermati sono stati 384, pari allo 0,86% del totale, con un picco di incidenza a partire dal 2003» dice l’anestesista. Tra le sostanze più spesso usate c’erano gli oppiacei endovenosi, l’alcool, marijuana o cocaina, gli ipnotici e gli oppioidi per via orale. Ma ciò che più colpisce sono i 28 medici morti durante la formazione, tutti decessi collegati a disturbi da uso di sostanze. E non finisce qui: i ricercatori stimano che il 43% dei sopravvissuti abbia avuto almeno una recidiva a lungo termine, cioè entro 30 anni dall’episodio iniziale.
«Questi risultati danno un’idea della diffusione del fenomeno che, a giudicare dal tasso di recidiva e dai dati dopo il 2003 sembra essere in aumento», dice Warner. E conclude: «Tuttavia, data la mancanza di informazioni sulle altre specialità mediche e chirurgiche, è difficile determinare se i disturbi da uso di sostanze sono di particolare interesse solo per gli anestesisti o sono un problema medico con radici più profonde».
(Fonte: «Doctor 33»)
(Approfondimenti: http://jama.jamanetwork.com/article.aspx?articleid=1787405)
6 – Protezione dei minori e prevenzione degli abusi: il Papa istituisce una Commissione
5 dicembre 2013
Con la voce profonda che lo contraddistingue, il cardinale Sean O’Malley ha scosso la routine di un ordinario giovedì vaticano con una notizia bomba: Papa Francesco costituirà una Commissione per la protezione dei minori e la prevenzione dei casi di abusi sessuali. In un briefing in Sala Stampa vaticana, il cappuccino arcivescovo di Boston, membro del C-8, ha dichiarato che il Pontefice «continuando con decisione sulla linea intrapresa da Benedetto XVI, e accogliendo una proposta del Consiglio di Cardinali, ha deciso di costituire una specifica Commissione per la protezione dei fanciulli, con la finalità di consigliarlo circa l’impegno della Santa Sede nella protezione dei bambini e nell’attenzione pastorale per le vittime degli abusi».
Ancora non si hanno informazioni dettagliate sulla identità e sul numero dei membri che comporranno la Commissione. Composizione e competenze – ha detto O’Malley – «verranno indicate prossimamente con maggiore dettaglio dal Santo Padre, con documento appropriato». Sarà comunque una Commissione internazionale, di cui faranno parte diversi esperti.
Quello che già si conosce, invece, è il duro lavoro che il team dovrà affrontare e la grande responsabilità che ricoprirà nel sanare una delle più gravi ferite della Chiesa del nostro tempo. Innanzitutto, la Commissione dovrà riferire al Papa circa lo stato attuale dei programmi per la protezione dell’infanzia, poi formulare suggerimenti per nuove iniziative da parte della Curia, in collaborazione con vescovi, conferenze episcopali, superiori religiosi e conferenze di superiori religiosi.
Sarà inoltre chiamata a proporre, di volta in volta, nomi di persone adatte per l’attuazione di questa nuova iniziativa. Sono inclusi quindi laici, religiosi, religiose, sacerdoti, l’importante è che siano competenti su temi come: la sicurezza dei fanciulli, i rapporti con le vittime, la salute mentale, l’applicazione delle leggi e via dicendo.
Fra le possibili responsabilità della Commissione – ha indicato poi il cardinale – ci saranno “le linee guida per la protezione dei bambini”, quindi “sviluppo e estensione di norme, procedure e strategie per la protezione dei bambini e la prevenzione di abusi sui minori”. Sua prerogativa anche l’attuazione di “programmi di formazione per bambini, genitori e tutti coloro che lavorano con minori, di catechisti”. Come pure “la formazione di seminaristi e quella permanente dei sacerdoti”. A ciò si aggiungono: protocolli per la sicurezza dell’ambiente, codici di condotta professionale, attestazione di idoneità al ministero sacerdotale, screening e controllo della fedina penale, stato dell’azione delle richieste di valutazione psichiatrica. Insomma, massimo controllo e rigidità. L’argomento, d’altronde, è troppo scottante e delicato per sottovalutare o tralasciare qualsiasi aspetto.
Compito della Commissione, ha proseguito poi l’arcivescovo di Boston, sarà anche promuovere la cooperazione con le autorità civili, la segnalazione dei reati, l’attenzione alle leggi civili e interessarsi delle comunicazioni riguardanti il clero dichiarato colpevole. Ai giornalisti che domandavano se l’istituzione di questo organismo sopperisse o comunque si aggiungesse al lavoro svolto in questi anni dalla Santa Sede – in primis dalla Congregazione per la Dottrina della Fede – contro pedofilia e abusi sessuali, il cardinale ha risposto: «Non conosco tutte le attività svolte dalla Santa Sede in questi anni, ma credo che finora l’enfasi sia stata data più ai processi giuridici che alla parte pastorale».
Tra le priorità dell’agenda della Commissione c’è infatti il fornire una “pastorale in supporto delle vittime e dei familiari”, che includa assistenza spirituale e servizi di salute mentale. Magari collaborando con esperti nella ricerca e nello sviluppo della prevenzione degli abusi sui minori, in ambito psicologico, sociologico e giudiziario.
La proposta del Consiglio dei cardinali, accolta prontamente da Papa Francesco, è poi che il team collabori con vescovi e superiori religiosi, in modo da facilitare l’ottimizzazione della procedura, l’attuazione di leggi e linee guida, il rapporto con i fedeli e con i mezzi di comunicazione. Pertanto sono previsti anche incontri con le vittime e la supervisione e il recupero dei chierici colpevoli di abusi.
«I cardinali sono entusiasti», ha affermato O’Malley. Tra le critiche sollevate dai giornalisti forse un’eccessiva burocratizzazione della questione: quanto potranno dei corsi di formazione aiutare a prevenire un problema che, in fin dei conti, è una malattia psicologica? Il cappuccino ha tagliato corto: «“La nostra esperienza negli Stati Uniti ci ha detto il contrario».
Al termine del briefing, il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi, ha ricordato che si conclude il 5 dicembre la seconda tornata delle riunioni del C-8. I lavori proseguiranno nel pomeriggio sempre esaminando, una dopo l’altra, le diverse Congregazioni della Curia Romana.
Il prossimo incontro del Consiglio degli otto, ha riferito inoltre Lombardi, sarà sempre di tre giorni: 17, 18 e 19 febbraio. La scelta delle date è dettata dalla volontà di non lasciare “tempi morti” con il periodo successivo ricco di avvenimenti. Le riunioni dei cardinali precederanno infatti il Concistoro del Collegio cardinalizio previsto il 20 e 21 dello stesso mese, il Concistoro per la creazione di nuovi cardinali del 22 e la grande concelebrazione in Vaticano con i nuovi cardinali del 23. Infine, nei giorni 24 e 25 febbraio fissato anche il Consiglio del Sinodo.
Salvatore Cernuzio
(Fonte: «Zenit»)
7 – L’inquinamento dell’aria uccide molto al di sotto dei limiti di qualità dell’aria imposti dall’Unione Europea
9 dicembre 2013
Per la prima volta viene dimostrato che l’esposizione prolungata alle polveri prodotte dagli scarichi di veicoli, dalle industrie e dagli impianti di riscaldamento, anche al di sotto degli attuali limiti permessi dalle leggi in vigore in Italia e nell’Unione Europea, può essere più nociva e mortale di quanto si pensava finora.
Un nuovo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista internazionale «Lancet», ha esaminato 360.000 residenti in grandi città di 13 Paesi europei. Lo studio stima che per ogni aumento nella media annuale di esposizione a particolato fine (le particelle di diametro inferiore a 2,5 micron, PM 2.5) di 5 µg/m3 ci sia un aumento del rischio di morire per cause non accidentali del 7%.
Una differenza di 5 µg/m3 può essere quella che c’è tra un posto con molto traffico e uno non influenzato dal traffico in una città. I risultati dello studio possono essere utilizzati per le valutazioni di impatto sulla salute, finora basate solo su stime prodotte da studi condotti prevalentemente in Nord America.
I ricercatori hanno utilizzato i dati dello studio ESCAPE (European Study of Cohorts for Air Pollution Effects, coordinato dalla Università di Utrecht in Olanda), che ha unito i dati di 22 studi longitudinali europei, per un totale di 367.251 persone analizzate. Le concentrazioni medie annuali degli inquinanti (ossidi di azoto e particolato) sono state stimate alla residenza dei soggetti utilizzando modelli di regressione land-use. Sono state raccolte informazioni sull’intensità di traffico della strada della residenza e sul carico totale di traffico nei 100 metri attorno alla residenza. I soggetti in studio sono stati seguiti per circa 14 anni e 29.076 sono morti per cause non accidentali.
In Italia, lo studio è stato condotto a Torino dal Centro per l’Epidemiologia e la Prevenzione oncologica in Piemonte della Città della Salute e della Scienza – Università di Torino (coordinato dalla dottoressa Claudia Galassi), a Roma (Dipartimento di Epidemiologia del Lazio) ed a Varese (Fondazione IRCCS Istituto Nazionale Tumori di Milano) ed ha coinvolto circa 31.000 persone. Hanno collaborato allo studio numerosi enti, tra cui le Agenzie ambientali dell’Emilia-Romagna e del Piemonte. I risultati mostrano che il particolato fine è l’inquinante più dannoso, anche per concentrazioni sotto i limiti consentiti dall’attuale legislazione europea.
L’associazione tra esposizione prolungata a particolato e mortalità esiste anche tenendo conto di diversi fattori individuali come l’abitudine al fumo, lo stato socio-economico, l’attività fisica, il livello di istruzione e l’indice di massa corporea.
Secondo gli autori della ricerca «i risultati suggeriscono un effetto del particolato anche per concentrazioni al di sotto dell’attuale limite annuale europeo di 25 µg/m3 per il PM2,5. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) propone del resto come Linea Guida 10 µg/m3 ed i suddetti risultati supportano l’idea che avvicinandoci a questo target si potrebbero raggiungere grandi benefici per la salute delle persone».
Sullo stesso numero di «Lancet», in un editoriale di presentazione, si afferma: «Nonostante i grandi miglioramenti della qualità dell’aria negli ultimi 50 anni, i dati di Beelen e colleghi mostrano che gli effetti dell’inquinamento dell’aria sulla salute continuano. Questi dati, insieme ai risultati di altri grandi studi, suggeriscono quanto siano necessarie ulteriori politiche per ridurre l’inquinamento e, quindi, la morbosità e la mortalità in Europa. Come raccomandato dall’OMS, una priorità urgente dovrebbe essere quella di avviarsi verso i valori indicati dalle Linee Guida della qualità dell’aria dell’OMS, che sono più restrittive.»
(Fonte: «Città della Scienza e della Salute – Torino»)
8 – Chi tenta di uccidersi da giovane ha bisogno di cure a lungo termine
9 dicembre 2013
I suicidi aumentano con la recessione, e molti giovani sotto i 24 anni che tentano di uccidersi sembrano avere un rischio maggiore di disturbi mentali e di problemi sociali nella mezza età, secondo uno studio pubblicato su «Jama psychiatry» coordinato da Sidra Goldman-Mellor, epidemiologa della University of North Carolina a Chapel Hill.
«Dall’inizio della crisi economica, che nel 2007 ha colpito Stati Uniti ed Europa, il comportamento suicidario è aumentato», ricorda la ricercatrice. E questo è di particolare importanza tra i giovani, che non solo hanno un tasso di tentati suicidi tre volte superiore rispetto agli adulti over 30, ma anche maggiori probabilità di sopravvivere. Secondo i Centers for disease control and prevention, ci sono 25 tentativi per ogni suicidio completato, e un’ondata suicidaria nelle popolazioni alle prese con una grave recessione potrebbe avere forti implicazioni sociali e sanitarie specie tra i giovani. Così i ricercatori hanno seguito nel tempo 1.037 ragazzi, di cui 91 avevano tentato il suicidio, che prendevano parte al Dunedin multidisciplinary health and development study, uno studio osservazionale in corso in Nuova Zelanda.
«I partecipanti, nati tra il 1972 e il 1973, sono stati seguiti con colloqui e valutazioni della salute fisica e mentale fino all’età di 38 anni» spiega Goldman-Mellor. E i dati raccolti dimostrano che, rispetto a chi non lo ha fatto, i giovani che hanno tentato il suicidio avevano più probabilità di avere persistenti disturbi della salute mentale come depressione, dipendenza da sostanze e ulteriori tentativi di suicidio, anche avvicinandosi alla mezza età. Ma non è tutto: secondo i ricercatori il comportamento suicidario aumenta il rischio di cattiva salute fisica, di comportamenti violenti, di disoccupazione e necessità di supporto sociale.
«In un’epoca di stress economico e scarse risorse finanziarie, i giovani che tentano di uccidersi sono un obiettivo importante per interventi di prevenzione secondaria che prevedono un supporto sociale e sanitario a lungo termine», conclude l’epidemiologa.
(Fonte: «Doctor 33»)
(Approfondimenti: http://archpsyc.jamanetwork.com/article.aspx?articleID=1784715)
9 – Il Rapporto Estrela respinto per la seconda volta
10 dicembre 2013)
Per la seconda volta in meno di due mesi, il rapporto su «Salute e diritti sessuali e riproduttivi» è stato respinto dal Parlamento Europeo. Il provvedimento, avanzato dall’eurodeputata socialista portoghese Edite Estrela, raccomandava a tutti Paesi dell’Unione Europea l’inclusione dell’aborto tra i diritti umani e la sua disponibilità in tutti i Sistemi sanitari nazionali europei.
Sollecitava inoltre la legalizzazione dell’aborto in Paesi come la Polonia, l’Irlanda e Malta. Se fosse passato, il rapporto Estrela avrebbe precluso gli aiuti finanziari a Paesi extracomunitari dove l’aborto non fosse legale e avrebbe messo seriamente a repentaglio il diritto all’obiezione di coscienza dei medici ed infermieri anti-abortisti.Il rapporto Estrela, infine, avrebbe introdotto l’educazione sessuale scolastica fin dalla prima infanzia, introducendo persino i bambini sotto i 6 anni alla pratica della masturbazione. Un grave intralcio, dunque, alla libertà educativa delle famiglie.
Contro il provvedimento si è schierata una petizione promossa da CitizenGO, appoggiata dal Forum delle Associazioni Familiari, dal Movimento per la Vita e da altre associazioni pro-life, e approvata dall’Europarlamento, con il consenso dei Popolari, dei Conservatori e del gruppo euroscettico dell’EFD, con 337 voti favorevoli e 324 contrari.
L’onorevole Carlo Casini, presidente della Commissione Affari Costituzionali dell’Europarlamento, ha definito l’esito del voto come un «segnale positivo». In una dichiarazione rilasciata all’agenzia SIR, Casini ha detto: «La maggioranza dell’Europarlamento ha mostrato anche la insopportabilità di certe posizioni che si ripresentano a scadenze fisse», sempre puntualmente lesive dei valori della vita, della famiglia e della libertà di educazione. L’eurodeputato ha inoltre aggiunto che «alla luce di questo voto, anche la possibilità che in futuro l’iniziativa dei cittadini Uno di noi (della quale Casini è il coordinatore per l’Italia, ndr) abbia un sostegno ampio in emiciclo è più solida».
Soddisfazione è stata espressa anche da Francesco Belletti, presidente del Forum delle Associazioni Familiari, secondo il quale il Rapporto Estrela presentava «una serie di proposte e linee guida inammissibili» e costituiva «un’intromissione, aberrante nei contenuti, in argomenti e tematiche di stretta competenza dei singoli Stati membri e non delle istituzioni europee». In un comunicato Belletti sottolinea i «fortissimi dubbi anche procedurali» in merito alla ripresentazione del provvedimento, già bocciato dall’assemblea lo scorso 23 ottobre ma reiterato dalla Commissione Diritti della donna con una forzatura senza precedenti delle procedure del Parlamento».
Il presidente del Forum Famiglie ha definito il voto del 9 dicembre «una grande vittoria dei cittadini dell’Ue che in questi giorni avevano levato la loro voce attraverso mozioni e pressioni sui parlamentari. Per una volta questa voce è stata più forte di quella delle lobby che sostenevano la relazione». Sull’esito del voto, secondo Belletti, hanno influito sia il “prezioso lavoro” svolto dalla Federazione europea delle associazioni familiari (FAFCE) presso le istituzioni dell’Unione Europea, sia la campagna di Uno di Noi, che ha rappresentato «un segnale netto della volontà popolare degli europei sui temi legati al diritto alla vita».
Il secondo respingimento del Rapporto Estrela al Parlamento Europeo è stato accolto da Paola Ricci Sindoni, presidente di Scienza & Vita, come un segno di «“quel favor vitae che in troppi vorrebbero negare». Anche per Ricci Sindoni, Uno di Noi è stato un ottimo volano per il risultato del 9 dicembre, in cui l’Europarlamento ha dato «un segnale forte e inequivocabile nei confronti di un testo dai contenuti inaccettabili e fortemente ideologizzato».
Luca Marcolivio
(Fonte: «Zenit»)
10 – Etica e scienza in Cina
10 dicembre 2013
L’inchiesta che «Science» ha pubblicato nelle scorse settimane ha documentato ciò che era noto da tempo: in Cina c’è un florido commercio di articoli scientifici. C’è chi è disposto a pagare anche 10.000 dollari per apporre la sua firma in calce a un report da pubblicare su una rivista internazionale con peer review.
E ci sono vere e proprie agenzie che tirano le fila di questo commercio. Inoltre, come sostiene il giornalista scientifico free lance Shi-min Fang, vincitore nel 2012 del Maddox Prize, sulla rivista di divulgazione inglese «New Scientist», tra i ricercatori cinesi è molto in uso il plagio ed esagerare le proprie qualifiche accademiche. Insomma, il Paese del Dragone non brilla per la sua integrità scientifica.
La questione non va sottovalutata, perché la Cina è la potenza scientifica emergente. Prima al mondo, ormai, per numero di ricercatori (1,5 milioni). Seconda, dopo gli Stati Uniti, sia per investimenti assoluti in ricerca e sviluppo (R&S) che per numero di articoli scientifici pubblicati (ci riferiamo all’anno 2012). Tuttavia lo scandalo del commercio cinese di articoli scientifici e il più grande fenomeno del plagio non vanno neppure sopravvalutati. Proprio perché quello della scienza cinese è un mondo in rapidissima crescita. Con una competitività altissima.
Per forza di cose i sistemi di controllo non riescono a tener dietro a quella che possiamo considerare una delle più spettacolari espansioni della ricerca scientifica in un singolo Paese che la storia recente (e non solo recente) abbia mai conosciuto.
La Cina investe sempre di più in ricerca scientifica:
Sono oltre venti anni che gli investimenti cinesi in R&S crescono al ritmo, medio, del 20% annuo.
E proprio in ottobre il governo cinese ha annunciato, con soddisfazione, che ormai questi investimenti ammontano al 2,0% del Prodotto interno lordo. In altre parole, la Cina ha superato l’Europa anche per intensità di investimenti. E ora minaccia la performance americana. Pechino è intenzionata a raggiungere il 3,0% di investimenti in R&S entro il 2020. Forse ci riuscirà anche prima.
Sempre nelle scorse settimane, il rapporto Global Innovation 1000 documentava anche l’accelerazione dell’industria cinese, i cui investimenti in R&S, nel 2013, sono aumentati del 35,8%, contro il 4,5% dell’Europa e l’8,5% del Nord America. Negli ultimi cinque anni la fetta cinese nella torta mondiale degli investimenti industriali in R&S è passata dallo 0,4% (anno 2008) al 3,2% (anno 2013). Tra le 1.000 aziende che investono di più al mondo, quelle cinesi sono ormai 75. Erano 50 nel 2012. Tutti questi dati ci dicono che la Cina intende trasformarsi velocemente sia in uno dei poli della ricerca scientifica di base sia in un’economia fondata sulla conoscenza. E che il tentativo, gigantesco, è supportato da una politica organica e coerente.
Naturalmente non mancano i punti critici. La qualità della ricerca accademica cinese non è ancora paragonabile a quella europea e americana. La capacità di innovazione delle industrie è ancora limitata. Ma la derivata – la velocità di cambiamento – nella giusta direzione è sia per l’una che per l’altra elevatissima. Anche sul piano etico le tendenza è verso la convergenza con Europa e Stati Uniti.
Nell’editoriale a commento dell’inchiesta sul commercio degli articoli scientifici, intitolato «Research Integrity in China», firmato su «Science», Wei Yang – presidente della National Natural Science Foundation of China e professore presso l’Istituto di Meccanica Applicata dell’Università Zhejiang di Hangzhou – sostiene che nel suo Paese sta crescendo la consapevolezza dell’importanza dell’etica scientifica sia nella stessa comunità dei ricercatori, sia nelle autorità politiche e anche sui mezzi di comunicazione di massa. E che tale consapevolezza avrebbe portato, negli ultimi 14 anni, a una diminuzione del 70% dell’intensità di frodi scientifiche.
Se ancora oggi il numero assoluto di casi di misconduct è elevato, è perché aumentato il numero di ricercatori cinesi (passati da 400.000 a 1.500.000 negli ultimi venti anni) ed è aumentato il numero di articoli firmati da ricercatori cinesi: da poco più di 20.000 nel 1999 a quasi 200.000 nel 2012. Sebbene lo sviluppo della scienza e della tecnologia fosse una di quelle “quattro modernizzazioni” indicate da Deng Xiaoping alla fine degli anni ‘70 che hanno generato il “rinascimento cinese”, è solo a partire dal 2000 che è iniziato “il grande salto” della ricerca scientifica – e, in particolare, dello sviluppo tecnologico in Cina. Si tratta di un’espansione a tutto tondo e senza precedenti.
Il numero di ragazzi che si iscrivono all’università, per esempio, è passato dall’11% del 2000 al 35% del 2008. Su 140 milioni di studenti universitari nel mondo, 25 ormai sono cinesi. Tra il 2000 e 2008 il numero di laureati per anno in Cina è passato da 1,7 a 7 milioni. Il 39% degli studenti cinesi si iscrivono a facoltà scientifiche, contro il 5% degli studenti americani. E il numero dei laureati tra la popolazione in età da lavoro (più di 100 milioni ormai) ha raggiunto una percentuale (26%) ormai pari a quella europea.
Nel medesimo tempo il numero di giovani cinesi che in un anno vanno all’estero per studiare in università straniere è salito a oltre 280.000 unità: tredici volte più che nel 1999. Ormai i cinesi che studiano all’estero sono 1,3 milioni: manco a dirlo, il più alto numero al mondo di giovani che studiano fuori dai confini nazionali.
Nell’anno 2000 gli investimenti cinesi in R&S non andavano oltre lo 0,8% del prodotto interno lordo. Nel 2013 hanno raggiunto il 2,0%. Nel 2006 è stato lanciato il Piano Nazionale di Medio e Lungo Termine per lo Sviluppo della Scienza e della Tecnologia 2006-2020, il cui obiettivo è quello fondare l’economia cinese sulla produzione di beni ad alta tecnologia: passando da una quota parte della produzione hi-tech dal 30% del 2006 al 60% del 2020. Tutte queste cifre non per offrire un’immagine trionfalistica della scienza e dell’economia cinese (che continua a essere quella che cresce di più al mondo). Ma per contestualizzare i risultati dell’inchiesta di «Science».
La Cina ha molte carte in regola per raggiungere gli standard etici (causa mancanza di democrazia, non tutte) della scienza europea e nordamericana. Se giocherà bene queste sue carte, la transizione da Paese in via di sviluppo a massima potenza economia e tecnoscientifica mondiale si consumerà nell’arco di appena due generazioni. Se non le giocherà bene, rischia di compromettere una parte importante del suo (e di conseguenza, del nostro) futuro.
Pietro Greco
(Fonte: «Scienza in Rete»
(Approfondimenti: http://www.booz.com/global/home/what-we-think/global-innovation-1000; http://www.sciencemag.org/content/342/6162/1019)
11 – Rapporto Van Thuân: la crisi giuridica produce leggi contro la vita umana
12 dicembre 2013
Il Rapporto annuale dell’Osservatorio Van Thuân sulla dottrina sociale della Chiesa nel mondo è ormai un appuntamento atteso. Siamo già arrivati alla quinta edizione, dal 12 dicembre è infatti in libreria, per le edizioni Cantagalli, il Quinto Rapporto, dedicato alla “crisi giuridica”. L’Osservatorio ogni anno mette insieme le molte tessere di un mosaico mondiale e dà il quadro generale, l’analisi di casi particolari e le indicazioni di prospettiva su cosa bolle in pentola nei settori che stanno a cuore alla dottrina sociale della Chiesa.
Nel Rapporto troviamo la cronaca dai cinque continenti (la parte più consistente), l’analisi dell’attività della Santa Sede, la sintesi delle principali crisi economiche e finanziarie, l’evoluzione della legislazione in campo biopolitico, il magistero sociale del Papa, cosa si è fatto e cosa non si è fatto per la giustizia e la pace. Troviamo anche, alla fine, una cronaca molto minuziosa dei principali avvenimenti legati alla dottrina sociale della Chiesa. Una piccola summa, in altre parole, per chi voglia tenersi aggiornato.
Ma soprattutto una visione, una prospettiva, il punto della navigazione: dove siamo, dove dovremmo essere e dove stiamo andando. È questo il valore aggiunto del Rapporto, che non è solo una cronaca ma una cronaca ragionata, secondo lo stile dell’Osservatorio che lo produce e che, fondato nel 2004 dal vescovo Giampaolo Crepaldi, costituisce un punto di vista continuato e, appunto, ragionato, sulla dottrina sociale della Chiesa.
Ecco perché al centro del Rapporto c’è il tema dell’anno, approfondito dallo studio dell’anno. Questo quinto Rapporto indica la dinamica emergente e maggiormente degna di attenzione nella crisi giuridica ovvero, come si legge nel titolo, nell’ingiustizia legale. A documentare questa tendenza non c’è solo lo studio di Gianluca Guerzoni, ma anche una sintesi introduttiva e poi una vasta documentazione e cronaca.
Si parla molto di crisi economica e anche di crisi etica, ma assai poco di crisi giuridica, ossia di come venga meno il diritto e ad esso vengano sostituite le norme, prive però di riferimento alla legge. Nel mirino del Rapporto ci sono le Corti internazionali di giustizia, che emettono sentenze arrogandosi il diritto di ridefinire cosa significhi persona, vita, procreazione. Esse impongono agli Stati una legislazione in contrasto con la natura umana. Nel mirino poi ci sono anche i giudici ordinari, che si fanno legislatori, demolendo le leggi a suon di sentenze. I confini tra potere legislativo e giurisprudenza delle corti internazionali e dei giudici ordinari sono molto incerti oggi in tutto il mondo.
Il principale timore espresso dal Rapporto riguarda la tenuta delle Carte costituzionali, che sempre di più diventano terreno non di convergenza ma di conflitto. Agli Stati è spesso imposta una legislazione contro la natura umana, che viola però altrettanto spesso la Costituzione di quei Paesi. Il diritto internazionale e delle genti si snatura e si contrappone a quello degli Stati. Il Rapporto teme che si arrivi a dover fare obiezione di coscienza alla propria Costituzione, il che lacererebbe in modo pericoloso la convivenza civile e politica. Si profila una battaglia culturale sulle Carte costituzionali che lascia smarriti i cittadini.
Il Rapporto dell’anno scorso era incentrato sulla “Colonizzazione della natura umana”, ossia su come l’ideologia del gender di origine occidentale fosse esportata anche nei Paesi emergenti. Il Rapporto di quest’anno amplia l’orizzonte e mette in evidenza come la colonizzazione della natura umana si avvalga di una profonda crisi giuridica. Nel mondo ci sono molte situazioni di anomia, ossia di sospensione della legge, che il Rapporto documenta: corruzione e lotte tribali, impedimento alla libertà di coscienza e conflitti territoriali. Ma alla base di queste debolezze giuridiche c’è l’ingiustizia legale nel campo della vita e della famiglia, proprio per il venir meno del concetto stesso di “legge”.
Stefano Fontana
(Fonte: «Sir»)
12 – Unicef, un bambino su 3 ufficialmente non esiste: nel mondo sono 230 milioni i piccoli “fantasmi”
13 dicembre 2013
Nel giorno del 67° anniversario dell’UNICEF, l’organizzazione lancia un rapporto secondo il quale circa 230 milioni di bambini sotto i 5 anni non sono stati mai registrati alla nascita: 1 su 3 nel mondo. «La registrazione alla nascita è più di un semplice diritto. È come la società ti riconosce per la prima volta e come riconosce l’identità e l’esistenza di ogni bambino», ha dichiarato Geeta Rao Gupta, Vice Direttore generale dell’UNICEF. «La registrazione alla nascita è anche la chiave per garantire che i bambini non vengano dimenticati, che non vengano negati loro i diritti o esclusi dai progressi della propria nazione».
I 10 Paesi con i tassi più bassi di registrazioni. Il nuovo rapporto, «Every Child’s Birth Right: Inequities and trends in birth registration», raccoglie analisi statistiche di 161 Paesi, gli ultimi dati e le ultime stime disponibili per Paese sulla registrazione alla nascita. A livello globale nel 2012, solo circa il 60% di tutti i neonati è stato registrato alla nascita. Il tasso varia significativamente a seconda della regione, con livelli più bassi in Asia Meridionale e in Africa sub sahariana. I 10 Paesi con i tassi più bassi di registrazione alla nascita sono: Somalia (3%), Liberia (4%), Etiopia (7%), Zambia (14%), Ciad (16%), Repubblica Unita della Tanzania (16%), Yemen (17%), Guinea Bissau (24%), Pakistan (27%) e Repubblica Democratica del Congo (28%).
Tra i registrati 1 bambino su 7 non ha certificato. Anche quando i bambini sono registrati, molti non hanno traccia della loro registrazione. In Africa Orientale e Meridionale, per esempio, solo circa la metà dei bambini registrati ha il certificato di nascita. Nel mondo, 1 bambino registrato su 7 non ha il certificato di nascita. In molti Paesi, questo è dovuto a tasse onerose. In altri, invece, il certificato di nascita non viene emesso e nessun documento di registrazione è disponibile per la famiglia. I bambini non registrati alla nascita o senza documenti di identificazione sono spesso esclusi dall’accesso all’istruzione, cure sanitarie e sicurezza sociale. Se un bambino viene separato dalla sua famiglia durante un disastro naturale, conflitti o a causa di sfruttamento, la riunificazione è molto più difficile a causa della mancanza di documentazione ufficiale.
Il sintomo delle disuguaglianze. «La registrazione alla nascita – e il relativo certificato – è fondamentale per garantire a un bambino il suo pieno sviluppo», ha detto Rao Gupta. «Tutti i bambini nascono con un potenziale enorme. Se la società non riesce a contarli tutti, e perfino a non riconoscere la loro esistenza, sono più vulnerabili a subire abusi e ad essere abbandonati. È inevitabile che il loro potenziale diminuirà sensibilmente». La registrazione alla nascita, come componente essenziale del registro civile di un Paese, rafforza anche la qualità delle statistiche sulla vita, aiutando la programmazione e l’efficienza del governo.
Secondo l’UNICEF, la mancata registrazione di un bambino alla nascita è sintomo di disuguaglianze e disparità nelle società. I bambini più colpiti da questa disuguaglianze comprendono i bambini di determinati gruppi etnici e religiosi, i bambini che vivono in aree rurali o remote, i bambini figli di famiglie povere o bambini le cui madri non hanno ricevuto istruzione.
I programmi di sostegno. I programmi necessitano di identificare le ragioni per cui le famiglie non registrano i bambini, incluse tasse elevate, la non conoscenza di leggi o processi importanti, barriere culturali, e la paura di ulteriori discriminazioni o marginalizzazioni. L’UNICEF sta utilizzando approcci innovativi per supportare i governi e le comunità nel rafforzare i loro sistemi civili e di registrazione alla nascita. In Kosovo per esempio, l’UNICEF Innovations Lab ha sviluppato un sistema di identificazione e di segnalazione delle nascite non registrate efficiente, efficace e a basso costo, basato su una piattaforma di RapidSMS per telefoni cellulari. In Uganda, il governo – con il supporto dell’UNICEF e del settore privato – sta implementando una soluzione MobileVRS che usa la tecnologia dei telefoni cellulari per completare le procedure di registrazione in pochi minuti, un processo che normalmente richiede mesi.
(Fonte: «La Repubblica»)
13 – Anziani sani ma stanchi di vivere: è lecito suicidio assistito?
17 dicembre 2013
Chi pensa sia giusto che, oltre ai malati gravi, i medici aiutino a morire anche gli anziani sani ma stanchi di vivere? Secondo una ricerca sul «Journal of Medical Ethics», una persona su cinque è di questa opinione. E una su tre pensa che ai grandi anziani dovrebbe essere data una pillola per porre fine alla loro vita, se è ciò che desiderano. «I risultati vengono da un sondaggio svolto su circa duemila individui in Olanda, dove il suicidio medicalmente assistito è legale dal 2002», precisa Natasja Raijmakers, ricercatrice al Dipartimento di sanità pubblica dell’University Medical Center Rotterdam.
«La popolazione mondiale invecchia, e le cure mediche per le persone anziane sono sempre più importanti. Ma anche le migliori terapie non impediscono che in alcuni di loro l’invecchiamento coincida con una perdita del senso della vita tale da desiderare la morte», prosegue la ricercatrice. E secondo studi precedenti questo è il caso del 5-25% delle persone anziane. Spesso la richiesta ha radici nelle patologie croniche e nell’insopportabile disabilità che ne deriva. Ma altre volte chi vuole morire non è malato ma si sente solo, inutile, non più socialmente coinvolto. Insomma, è stanco di vivere. E qui sta la domanda: i medici olandesi possono oggi aiutare i pazienti a morire solo se la richiesta è volontaria e se il paziente è affetto da malattie senza prospettive di miglioramento. Dovrebbero farlo anche con un anziano stanco di vivere?
Raijmakers e colleghi l’hanno chiesto a 1.960 adulti olandesi tra 18 e 95 anni scelti a caso. Oltre metà, il 57%, pensava che tutti dovrebbero avere il diritto all’eutanasia, e una percentuale simile, il 53%, riteneva che ognuno ha il diritto di decidere quando vivere o morire. Ma a far riflettere è un altro dato: il 21% degli intervistati crede che il medico debba aiutare a morire non solo i malati gravi, ma anche gli anziani sani che non vogliono più stare al mondo.
«Nonostante sia una minoranza, una quota consistente degli intervistati pensa che il suicidio medicalmente assistito sia lecito anche nelle persone anziane stanche di vivere. E questo significa che l’argomento va preso seriamente nel dibattito sulle decisioni di fine vita», conclude la ricercatrice.
(Fonte: «Doctor33»)
(Approfondimenti:http://jme.bmj.com/content/early/2013/11/29/medethics-2012-101304.abstract)
14 – Autolesionismo in carcere: una frequenza che preoccupa
18 dicembre 2013
Episodi di autolesionismo si verificano in uno su quattro detenuti nelle carceri inglesi e gallesi, con le donne quattro volte più inclini a farsi del male rispetto ai maschi, secondo il più grande studio svolto sull’argomento, appena pubblicato su «The Lancet».
Coordinata da Keith Hawton, ricercatore all’Università di Oxford nel Regno Unito, la ricerca ha esaminato la prevalenza di autolesionismo tra gli ospiti degli istituti di pena in Inghilterra e Galles tra il 2004 e il 2009, per un totale di 139.195 episodi di autolesionismo verificatisi in 26.510 detenuti. «Nonostante la riduzione dei tassi di suicidio nel periodo di studio, l’autolesionismo in carcere non è diminuito, attestandosi tra 20.000 e 25.000 episodi l’anno, con le donne protagoniste di metà degli incidenti», sottolinea il ricercatore.
La tendenza a procurarsi ferite era dieci volte superiore nelle detenute femmine rispetto ai maschi, con il 20-24% delle donne con autolesioni rispetto al 5-6% degli uomini, e circa 30 volte maggiore di quella della popolazione generale del Regno Unito, ferma allo 0,6%. Anche i tassi di recidiva sono stati a dir poco sorprendenti. «Se una donna iniziava a procurarsi ferite, poteva riprovarci anche otto volte l’anno, e ci sono state 102 detenute, oltre a due maschi, in cui le recidive sono state addirittura più di cento all’anno», prosegue Hawton, elencando i fattori di rischio più frequenti in entrambi i sessi: i giovani sotto i 20 anni, i bianchi, gli incensurati e i condannati a vita. Cui si aggiunge, tra le donne, l’aver commesso reati violenti.
«Le ferite da taglio sono i metodi più comuni, seguiti da tentativi di avvelenamento, overdose e deglutizione di corpi estranei tra uomini e ragazzi o autostrangolamento tra donne e ragazze», dice il ricercatore, puntualizzando che la tendenza all’autolesionismo in carcere è un importante elemento predisponente al suicidio, specie tra i maschi. E in un editoriale Andrew Forrester, del Kings College di Londra, commenta: «Servono ulteriori ricerche per capire come sia possibile ridurre il preoccupante tasso di autolesionismo nelle carceri. Non solo come fattore di rischio di suicidio, ma come espressione di un disagio tra i detenuti che non può essere ignorato e che va governato».
(Fonte: «Doctor 33»)
(Approfondimenti: http://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(13)62118-2/fulltext)
15 – Ambiente. Commissione UE approva nuove misure. Obiettivo: evitare 58 mila morti, risparmiare 40 mld l’anno e creare nuovi posti di lavoro
18 dicembre 2013
Il prezzo da pagare a causa della cattiva qualità dell’aria è superiore, in termini di vite umane, a quello dovuto agli incidenti stradali, rendendola quindi la principale causa ambientale di decessi prematuri nell’UE. La cattiva qualità dell’aria ha un impatto anche sulla qualità della vita, in quanto causa asma e problemi respiratori.
La Commissione UE risponde proponendo nuove misure per ridurre l’inquinamento atmosferico, adottate il 18 dicembre. Il pacchetto di politiche in materia di aria pulita rappresenta un aggiornamento della legislazione esistente e riduce ulteriormente i limiti delle emissioni nocive provenienti dall’industria, dal traffico, dagli impianti energetici e dall’agricoltura, proponendosi di limitarne l’impatto sulla salute umana e sull’ambiente. L’inquinamento atmosferico provoca anche la perdita di giorni lavorativi ed elevate spese sanitarie; chi ne risente in modo particolare sono i gruppi più vulnerabili: i bambini, le persone anziane e chi soffre di asma.
L’inquinamento provoca, inoltre, danni agli ecosistemi: basti pensare a quelli dovuti all’eccesso di azoto (eutrofizzazione) e alle piogge acide. I costi diretti per la società derivanti dall’inquinamento atmosferico comprendono i danni alle colture e agli edifici e ammontano a circa 23 miliardi di euro all’anno. I benefici per la salute derivanti dall’attuazione del pacchetto “aria pulita” sono pari a circa 40 miliardi di euro all’anno, cioè oltre dodici volte i costi per la riduzione dell’inquinamento che si stima possano raggiungere 3,4 miliardi di euro all’anno nel 2030.
Janez Potocnik, Commissario responsabile per l’Ambiente, ha dichiarato: «L’aria che respiriamo oggi è molto più pulita di quella dei decenni passati, ma l’inquinamento atmosferico continua a essere un ‘killer invisibile’ che impedisce a molte persone di vivere appieno una vita attiva. Le azioni che proponiamo consentiranno di dimezzare il numero di decessi prematuri dovuti all’inquinamento atmosferico, aumentare la protezione offerta ai gruppi vulnerabili – che ne hanno più bisogno – e migliorare la qualità di vita di tutti i cittadini europei. Queste azioni rappresentano anche una buona notizia per la natura e per gli ecosistemi fragili, e danno inoltre impulso all’industria delle tecnologie pulite, che è un importante motore di crescita per l’Europa».
Il Commissario europeo responsabile per la Salute, Tonio Borg, ha aggiunto: «Accolgo con estrema soddisfazione l’adozione del pacchetto “aria pulita”, che mette l’Europa sulla buona strada per ottenere – a lungo termine – aria pulita per tutti. La nuove politiche in materia di aria pulita permetteranno ai cittadini europei di vivere più a lungo e di avere una vita più sana: diminuirà il numero dei bambini con problemi d’asma o altri problemi respiratori, meno persone si ammaleranno di cancro, malattie respiratorie croniche o cardiovascolari; infine, meno persone moriranno per malattie causate dall’inquinamento atmosferico».
Il pacchetto adottato il 18 dicembre comprende diversi elementi, tra cui:
– un nuovo programma aria pulita per l’Europa, con misure intese a garantire il conseguimento a breve termine degli obiettivi esistenti e, per il periodo fino al 2030, il raggiungimento di nuovi obiettivi per la qualità dell’aria. Il pacchetto include anche misure di sostegno per ridurre l’inquinamento atmosferico, con particolare riguardo al miglioramento della qualità dell’aria in città, per sostenere la ricerca e l’innovazione e per promuovere la cooperazione internazionale;
– la revisione della direttiva sui limiti nazionali di emissione, che comprende limiti nazionali più rigorosi per i sei inquinanti principali, e una proposta per una nuova direttiva intesa a ridurre l’inquinamento da impianti di combustione di medie dimensioni, quali impianti che forniscono energia a edifici appartenenti a uno stesso isolato o a edifici di grandi dimensioni, nonché piccoli impianti industriali.
Rispetto a uno scenario invariato da oggi al 2030, si stima che il pacchetto “aria pulita” possa: evitare 58 000 decessi prematuri; salvare dall’inquinamento da azoto una superficie di ecosistemi pari a 123 000 km² (equivalente a più della metà della superficie della Romania); salvare dall’inquinamento da azoto una superficie di zone protette Natura 2000 pari a 56 000 km² (superiore a quella della Croazia); salvare dall’acidificazione una superficie di ecosistemi forestali equivalente a 19 000 km².
I vantaggi per la salute, da soli, consentirebbero alla società di risparmiare dai 40 ai 140 miliardi di euro in esternalità e si otterrebbero benefici diretti nell’ordine di circa 3 miliardi di euro grazie all’incremento di produttività della manodopera, a minori costi sanitari, all’aumento delle rese agricole e a minori danni agli edifici. La proposta contribuirà anche a creare l’equivalente di circa 100 000 ulteriori posti di lavoro, perché grazie al minor numero di giorni lavorativi persi si registrerà un incremento in termini di produttività e competitività; si stima che la proposta avrà un impatto netto positivo sulla crescita economica.
La proposta è basata sulle conclusioni derivanti da una revisione approfondita della politica esistente dell’UE in materia di qualità dell’aria. Fa seguito ad ampie consultazioni che hanno riscontrato un sostegno diffuso a favore di un’azione a livello di Unione europea in questo settore.
(Fonte: «Quotidiano Sanità»)
(Approfondimenti: http://www.quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=566643.pdf)
16 – Dal meteorite russo alle cellule staminali, la top ten degli eventi scientifici 2013 di «Nature»
18 dicembre 2013
Il meteorite esploso sulla città russa di Chelyabinsk e un altro evento naturale e altrettanto inaspettato, il tifone Haiyan che ha devastato le Filippine causando migliaia di vittime, sono entrati nella top-ten degli avvenimenti scientifici dell’anno stilata dalla rivista «Nature». Non è l’unica particolarità di questa classifica, che accanto ai contributi scientifici comprende i risultati raggiunti grazie all’impegno sociale dei ricercatori. Hanno conquistato un posto nella classifica anche il “ritorno” della clonazione e la scoperta di un “fratello” della Terra fuori dal Sistema Solare.
Oltre ad essere stata un evento inatteso e spettacolare, l’esplosione del meteorite di Chelyabinsk è un campanello di allarme che costringe a rivedere i modelli teorici sulla probabilità di impatto dei meteoriti sulla Terra. Lo ha rivelato la sua analisi, condotta da Viktor Grokhovsky. Il tifone Haiyan è stato invece l’occasione per considerare le conseguenze dei cambiamenti climatici e «Nature» riconosce il merito di avere sollevato il problema al diplomatico filippino Naderev Sano.
Fra i personaggi segnalati da «Nature» per l’impegno sociale c’è Tania Simoncelli, dell’Unione americana per le libertà civili (Aclu), che è stata in prima fila nella battaglia che ha portato a cancellare la possibilità di brevettare i geni umani. Hanno meritato una citazione anche il direttore del Laboratorio di riferimento per l’influenza aviaria in Cina, Hualan Chen, che ha aiutato a contenere la diffusione del virus H7N9, e l’antropologa Kathryn Clancy, dell’Università dell’Illinois, che attraverso il suo blog ha portato alla luce le inquietanti aggressioni sessuali nei campus universitari americani.
Tra le scoperte entrate nella top-ten c’è quella di Kepler 78/b, il pianeta più simile alla Terra mai scoperto, individuato dal “cacciatore di pianeti”, Michel Mayor, dell’università di Ginevra. C’è anche la nuova tecnica che ha dimostrato come sia possibile ottenere cellule staminali simili a quelle embrionale utilizzando la clonazione terapeutica. L’ha messa a punto Shoukhrat Mitalipov, dell’Università dell’Oregon. Ancora nella biologia, Feng Zhang, Massachusetts Institute of Technology (Mit), ha scoperto come tagliare la molecola del Dna utilizzando un meccanismo analogo a quello con cui i batteri si difendono dai virus.
Ad aprire la possibilità di curare i bambini nati con il virus Hiv è stata Deborah Persaud, dell’ospedale pediatrico dell’Università Johns Hopkins. Infine Henry Snaith, dell’Università britannica di Oxford, ha aperto la strada per ottenere celle solari molto efficienti e a basso costo.
Guardando al 2014, «Nature» indica cinque ricercatori da tenere d’occhio: il nuovo presidente del Consiglio Europeo della Ricerca, Jean-Pierre Bourguignon; Masayo Takahashi, del centro Riken, che prevede di utilizzare le cellule staminali contro la degenerazione maculare; il presidente dell’Agenzia spaziale indiana (Isro), Koppillil Radhakrishnan, che in settembre prevede il lancio di una sonda nell’orbita di Marte; Chris Field, co-presidente della prossima conferenza sul clima; Gordon Sanghera, direttore della società Oxford Nanopore, che potrebbe rivoluzionare il sequenziamento del Dna.
(Fonte: «Il Fatto Quotidiano»)
17 – Troppe illusioni in provetta: oltre i 37 anni pochi successi
19 dicembre 2013
Diventare madri è un gioco da ragazze. Lo asserisce uno studio scientifico (il primo di questa portata) dell’Università scozzese di Aberdeen, pubblicato sul numero di dicembre della prestigiosa rivista «Plos One», nel quale si analizzano i dati di 121 mila donne che si sono sottoposte a fecondazione in vitro in Gran Bretagna fra il 2000 e il 2007. L’età chiave sono i 37 anni: se prima di allora il 25% delle donne è rimasto incinta, il risultato è crollato fino al 2% per le donne fra i 45 e i 50 anni. Inoltre, le aspiranti madri fra i 38 e i 39 anni hanno il 43% di possibilità in più di perdere il bambino di quelle sotto i 34. La provetta, quindi, funziona poco, e quasi unicamente quando si è giovani. In realtà queste cifre non dovrebbero costituire nulla di nuovo, in particolare nel Regno Unito.
Secondo i dati del 2010 della Hfea, l’authority britannica per la fertilità, la percentuale di successo passa dal 32.2% fra le minori di 35 anni al 13,6% fra le quarantenni. Valutazione tanto condivisa a livello sanitario che il limite di età per farsi rimborsare il trattamento in Gran Bretagna è fissato a 39 anni. In Italia – dove sul limite di età si discusse parecchio, e dove pure i risultati attestano la qualità dei centri e delle norme che li governano – nel 2011, su oltre 56 mila cicli di fecondazione iniziati, sono state ottenute poco meno di 11 mila gravidanze, il 19,5% (dati dell’ultima relazione del Ministero della Salute al Parlamento, luglio 2013).
Circa il 30% delle donne rimaste incinta con la provetta aveva meno di 34 anni, circa il 25% fra i 35 e i 39, il 15% fra i 40 e i 42 e meno del 7% oltre i 43 anni, età nella quale raddoppia anche il rischio di dover interrompere il ciclo prima dell’impianto dell’embrione. A fronte di quel 15% di successi, in Italia oltre il 40% dei trattamenti è effettuato su donne fra i 35 e i 37 anni.
L’andamento della curva della fertilità femminile è noto alle madri che si disperavano per figlie 29enni zitelle, e ai ginecologi che sostengono che dopo i 37 anni le ovaie perdono oltre l’80% degli ovociti. Dove non arriva la saggezza popolare, e nemmeno la medicina, potrebbero illuminare gli studi di marketing: quale azienda concentra i suoi sforzi pubblicitari sui contraccettivi destinati alle over 40? Eppure le campagne di informazione (e molti sforzi politici) puntano sul diritto a ottenere un figlio a ogni età e a qualunque prezzo, persino senza alcun legame biologico, piuttosto che sulla possibilità di adottare un bambino.
Avocare a una provetta il compito di renderci madri non è una garanzia di successo, ma in gran parte dei casi un doloroso e costosissimo viaggio a vuoto, privo di una ragionevole proporzione fra spesa, sofferenza e risultato. Reclamizzata sulla pelle delle donne, perché, anche se fa male, la questione è una sola: per quante pillole e ormoni si possano assumere, quante ore si possano dedicare al fitness, quanti alchimisti dell’utero si possano visitare, ancora non esiste il modo per fare obbedire il corpo alla ricerca dell’eterna giovinezza.
Valentina Fizzotti
(Fonte: «Avvenire»)
18 – Da Angelina Jolie a Choosing Wisely, i fatti in Medicina del 2013
20 dicembre 2013
Per molti il 2013 è stato l’anno di Angelina Jolie, e della dichiarazione pubblica affidata alle pagine del «New York Times» con cui ha spiegato la propria scelta di sottoporsi a una mastectomia bilaterale profilattica alla luce dei risultati dei test genetici, e della familiarità. Il dibattito che ne è seguito ha portato alla ribalta la necessità della medicina predittiva di mettere nel giusto risalto le preferenze individuali di ciascun paziente, e di assicurarsi che conosca e comprenda a fondo la propria situazione – con tutte le incertezze del caso – prima di fare una scelta.
Tra le altre novità del 2013 per la clinica spicca senz’altro l’iniziativa «Choosing Wisely» portata avanti da ben 17 associazioni mediche americane per ridurre il ricorso a esami, prescrizioni e procedure inutili e quindi potenzialmente dannosi, in particolare su pazienti asintomatici (spesso indistinguibili dalle persone sane). Partita nel 2012, la campagna ha prodotto nel corso del 2013 ben 90 raccomandazioni “a non fare”, tra cui per esempio l’invito a non effettuare l’ecocardiogramma sotto stress ai pazienti asintomatici che secondo i test hanno un basso rischio di malattia coronarica o la tomografia computerizzata nei bambini con traumi cranici minori. Dopo lunghi decenni in cui la sanità americana si è distinta per un pregiudizio a favore del fare, il 2013 ha registrato anche la presa di posizione della Joint commission contro 5 terapie usate a sproposito o in eccesso, con effetti negativi sulla salute dei pazienti e sulla qualità delle cure: antibiotici contro il raffreddore, ma anche trasfusioni, tubi timpanostomici per l’otite media nei bambini, induzione anticipata del travaglio (in assenza di indicazioni mediche) e stent cardiaci.
Un’altra novità importante è senz’altro la pubblicazione della quinta edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, il Dsm-5, discusso a lungo e infine da molti accolto con la preoccupazione che possa addirittura accentuare la tendenza, già in atto, che porta a dare una diagnosi psichiatrica anche a persone fondamentalmente sane. Molte, accese critiche ha suscitato anche la pubblicazione, in novembre, delle nuove linee guida preparate congiuntamente da American heart association e American college of cardiology sulla prevenzione cardiovascolare, basate su un algoritmo per il calcolo del rischio che potrebbe finire per promuovere l’uso delle statine anche in fasce di popolazione in cui i rischi potrebbero essere superiori ai benefici.
Nella direzione della medicalizzazione – anche in questo caso non senza forti critiche – è andata anche l’American medical association con la decisione, votata in giugno al congresso annuale, di definire l’obesità una malattia in sé, che richiede interventi per migliorare la terapia e la prevenzione. In questo senso, la decisione di Tom Hanks di rendere pubblica la propria diagnosi di diabete di tipo 2 ha contribuito a veicolare il messaggio importante che si può essere vittima di questa malattia pur avendo un peso normale e uno stile di vita sano.
(Fonte: «Doctor 33»)
(Approfondimenti: http://www.choosingwisely.org/doctor-patient-lists/)
19 – Tumori, gli esperti frenano “sull’effetto Jolie”: «Corsa al test Dna può essere pericolosa»
27 dicembre 2013
È stato battezzato “l’effetto Angelina Jolie”. La rivelazione a maggio dell’attrice di essersi sottoposta a mastectomia con la rimozione di entrambi i seni, dopo aver scoperto di avere il gene ‘difettoso’, il Brca1. Ora però dagli Stati Uniti gli esperti della Preventive services task force mettono in guardia contro l’abuso di test che possono anche causare danni. Vogliono fermare la corsa delle donne ai controlli per scoprire la presenza di una mutazione genetica legata al tumore al seno o all’ovaio. Screening che possono dare risultati fuorvianti e portare a cure e interventi inutili.
La Preventive services task force ha pubblicato su «Annals of Medicine Journal» le conclusioni di una ricerca che ha svelato come questi controlli, se non sono non strettamente necessari, “possono essere potenzialmente pericolosi”.
“Controlli solo se necessari”. Negli Stati Uniti, ma anche in Italia, le dichiarazioni della diva hanno portato a un rapido incremento delle richieste di analisi. Controlli a tappeto che la Preventive services task force sconsiglia. Va fermata «una consulenza genetica di routine o il test Brca per le donne la cui storia familiare non è associata a un aumento del rischio di mutazioni nei geni Brca1 o Brca2». Secondo gli scienziati del Preventive services task force, non è sufficiente aver avuto un familiare con un cancro al seno per sottoporsi al test. Le mutazione del ‘Brca’ infatti non sono così comuni e sono responsabili solo di circa il 5% dei tumori al seno e del 10-15% di quelli ovarici.
I rischi. «Il test – aggiungono gli esperti – ha un vantaggio moderato per le pazienti che rientrano nei criteri stabiliti e sono positive alla mutazione, ma potrebbe essere dannoso per la maggioranza della popolazione che non rientra in questi parametri. Esami diagnostici inutili e soprattutto terapie farmacologiche usate per ridurre il rischio di carcinoma della mammella possono danneggiare la salute delle donne sane. Alle cure con farmaci, ad esempio, è stato associato un aumento, ad esempio, del rischio di coaguli di sangue».
Farmaci e cure inutili. Cosa fare allora se c’è stato un caso in famiglia? Va valutato con il proprio medico se lo screening è necessario, analizzando con attenzione tutti i pro e i contro. Lo specialista deve prendere in esame la storia genetica del paziente e in caso consultare centri altamente specializzati. «Il problema – spiegano gli esperti Usa – è che oggi molte pazienti che non hanno una storia familiare associata alla malattia possono essere danneggiate dal test. Anche perché spesso questi screening sono inconcludenti e danno risultati ambigui. Un problema che può portare le pazienti sane a sottoporsi a pesanti cure farmacologiche se non addirittura alla mastectomia, come Angelina Jolie».
Test con risultati poco chiari. Fra i problemi più diffusi c’è il fatto stesso che screening di questo tipo non sono facili da effettuare.«A volte il risultato del test genetico è molto difficile da interpretare. È facile dare una lettura sbagliata del risultato. E la maggior parte delle volte lo screening non dà né un risultato positivo, né uno negativo», spiega la dottoressa Virginia Moyer, presidente del Preventive Services Task Force e vice presidente dell’American Board of Pediatrics.
I dati. Le mutazioni del gene BRCA1 e BRCA2, presente solo nel 2-3% delle donne, può portare quintuplicare le probabilità di ammalarsi di tumore al seno e far salire del 40% le probabilità di avere un cancro all’ovaio. Ma ogni volta va considerata con attenzione la familiarità del paziente. Anche perché, come spiega, Nortin Hadler, docente di Medicina alla University of North Carolina at Chapel Hill, «non è chiaro se la presenza del gene, senza una storia familiare ‘a rischio’, può portare al tumore». Quindi anche Hadler invita alla prudenza: «Lo screening va fatto solo dopo un’attenta valutazione e in casi specifici»”.
(Fonte: «La Repubblica»)
20 – Cina, stop a figlio unico e campi di lavoro
28 dicembre 2013
Il 28 dicembre il Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo, massimo organo legislativo cinese, ha di fatto formalizzato l’abolizione del sistema dei campi di lavoro (i laojiao) per i detenuti senza processo e l’allentamento della legge del figlio unico.
Entrambe le novità erano state già decise a novembre dal comitato centrale del Partito comunista cinese e rappresentano una novità di rilievo: anche se non mancano i chiaroscuri e i contorni non sono chiari, come rilevano con qualche scetticismo alcuni difensori dei diritti umani.
Il sistema della “rieducazione attraverso il lavoro” di maoista memoria viene abolito, come spiega l’agenzia «Nuova Cina», con conseguente liberazione degli internati, ma i reati (contestati senza processo) restano validi. Secondo stime, in Cina ci sarebbero 260 campi di lavoro che ospitano 160.000 detenuti, anche se in molti pensano che le cifre siano maggiori. Nei campi possono essere rinchiusi fino a 4 anni (anche se in alcuni casi le detenzioni vengono poi prolungate) persone accusate di droga o reati legati alla prostituzione, ma anche dissidenti politici o religiosi fermati sotto vari pretesti e mai condannati da una Corte. Molti osservatori ritengono che gli attuali laojiao, nati negli Anni 50 del secolo scorso, diverranno in realtà qualcos’altro, come centri di riabilitazione per tossicodipendenti, cosa che maschererebbe di fatto un nuovo laojiao.
La legge sul figlio unico non viene invece abolita, ma allentata. Rispetto al testo attuale (già soggetto a deroghe), la riforma prevede il permesso del secondo bambino, limitatamente ai centri urbani, per le coppie nelle quali uno dei due coniugi sia figlio unico, mentre oggi tale ‘privilegio’ è riservato alle coppie composte da due figli unici. Secondo i dati ufficiali, dal 1980, quando la norma entrò in vigore, si è impedita la nascita di almeno 400 milioni di cinesi.
(Fonte: «Avvenire»)
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