C’è un’importante novità da considerare per una gestione eticamente, deontologicamente e giuridicamente corretta delle relazioni terapeutiche. Si tratta dell’obbligo di attuare il dettato normativo della Legge 22 dicembre 2017, n. 219. Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento (DAT). Alcuni codici deontologici già da tempo raccomandavano di prendere in considerazione e attenersi alle dichiarazioni/disposizioni/direttive lasciate da un malato in previsione di perdere la sua capacità decisionale (competence, in gergo bioetico). Ora c’è finalmente una legge ad hoc. Il termine muta, come si vede, a seconda del contesto internazionale e a seconda della cogenza e del potere vincolante attributo alle carte di autodeterminazione. Una direttiva è più forte di una semplice dichiarazione.
Si intendono dunque per Advance Directives (questo è il termine originario, sul piano internazionale) le richieste di un soggetto che, ancora perfettamente consapevole, esprime le sue preferenze in merito a situazioni di malattia in cui egli avrà perso coscienza (ad esempio la fase terminale di un cancro, una demenza irreversibile, uno stato vegetativo permanente) ed in cui tuttavia chiede già da ora che vengano egualmente rispettati i valori in cui crede.
Distinguiamo il tipo di preferenze. Le DAT si dividono storicamente in:
−Treatment Directives, fra i quali i famosi Living Wills, tradotti in italiano (male) come testamenti biologici o di vita, in cui una persona indica le cure che ella vorrebbe ricevere o non ricevere.
− e in Proxy Directives, in cui la persona identifica un rappresentante o fiduciario affinché questi prenda le decisioni che ella non sarà più in grado di assumere.
Attraverso seminari, corsi, lezioni, conferenze, cerchiamo − quali docenti universitari di bioetica − di preparare tutti gli attori in gioco (cittadini, pazienti, familiari, sanitari, amministratori, consulenti etici, counselor filosofici, psicologi clinici, cappellani ospedalieri) al delicato momento comunicativo e decisionale, in cui tali indicazioni previe verranno attualizzate, interpretate e realizzate. Il setting didattico prevede una esposizione teorica, un’analisi dei principi, una documentazione dei conflitti valoriali, un dibattito pluralistico, un’integrazione fra le discipline, una discussione su testi letterari e specialmente cinematografici, che sollecitano nei discenti/spettatori complesse reazioni di ordine emotivo e cognitivo.
Basta questo training? Noi crediamo di no. Almeno da trent’anni sosteniamo l’esigenza che una specifica figura professionale, il bioeticista clinico, agevoli il decision making di ordine clinico. Questo soggetto (il cui riconoscimento, istituzionalizzazione, formazione sono ancora ampiamente difformi e embrionali in Italia) dovrebbe possedere una sufficiente conoscenza degli aspetti tecnici e biomedici, un’allenata capacità di percepire ed approfondire i dilemmi morali in situazione clinica (senza interferire in modo direttivo nel ragionamento etico dei soggetti coinvolti, ma aiutandoli invece a portare a coerenza la loro personale visione del mondo), e infine qualità comunicative atte a sostenere empaticamente gli attori della decisione e ad elaborare le ragioni dell’inevitabile coinvolgimento affettivo, in cui egli stesso si verrà a trovare, trattandosi di permettere al paziente (che voglia riscrivere una DAT) o all’entourage (che si troverà ad eseguire un’indicazione anticipata) di riconoscere ed esprimere sentimenti delicati e dolorosi.
In tale direzione, a nostro avviso, andrebbero promosse sperimentazioni di servizi [o dipartimenti] di bioetica clinica nelle strutture sanitarie, fra le cui funzioni − volte in sinergia con il comitato di etica istituzionale − vi sarebbe appunto la consulenza etica nei confronti di operatori ed utenti, anche allo scopo di anticipare, pianificare o attuare (come nel caso delle DAT) decisioni cliniche impegnative e a volte controverse sul piano morale, deontologico e giuridico.
© Bioetica News Torino, Giugno 2019 - Riproduzione Vietata