Il lutto, il dolore, i rimpianti. La storia di Era mio figlio, ultima sfida cinematografica del regista israeliano Savi Gabizon, segue Daniel (interpretato da Richard Gere), un ricco newyorkese che scopre di essere il padre di un figlio mai conosciuto solo dopo la tragica morte di quest’ultimo. Inizia così un viaggio per scoprire chi fosse realmente suo figlio, ricostruendo la sua vita attraverso i racconti di amici, compagni di college e la sua professoressa di francese (Diane Kruger).
Gere offre una performance solida e convincente, dando profondità al personaggio di un padre in lutto che cerca di riappropriarsi del tempo perduto. La sua interpretazione intensa è il cuore del film, capace di trasmettere il tormento e la crescente ossessione di Daniel nel ricostruire la memoria del figlio. Molto buona anche la regia, che indugia spesso su suggestivi primi piani dell’attore statunitense, cogliendone le note capacità interpretative.
Nonostante le tante note positive, il film presenta anche delle criticità. Il tono generale è incerto, oscillando tra il dramma e inserti umoristici e onirici che talvolta confondono lo spettatore. Inoltre, alcuni personaggi, come quello interpretato da Diane Kruger, soffrono di una scrittura poco realistica, che impedisce un’immedesimazione completa da parte del pubblico. Un vero peccato, dato l’enorme talento drammatico dell’attrice tedesca, che poteva forse essere sfruttato meglio.
Alcune scelte narrative sono state descritte spesso come azzardate e poco riuscite, soprattutto in alcune sequenze oniriche e drammatiche che possono sembrare un po’ troppo sopra le righe e poco credibili. Si tratta a ogni modo di un film che, nonostante le sue imperfezioni, riesce a offrire un ritratto intenso e doloroso del lutto e della ricerca di una connessione con un figlio perduto. La performance di Richard Gere è un punto di forza, mentre la regia di Gabizon cerca coraggiosamente di esplorare nuove strade per raccontare l’elaborazione del lutto, anche se con risultati altalenanti.
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