Introduzione a cura di Enrico Larghero
La storia tra l’uomo e gli animali si perde nella notte dei tempi, a cominciare dalla preistoria. La Bibbia nella Genesi dedica sin dal primo Capitolo particolare attenzione a questo connubio, non solo nella Creazione, ma un posto di riguardo viene riservato agli animali anche nel Diluvio Universale laddove Noè costruisce l’Arca per preservare la specie umana e tutti gli esseri viventi.
L’origine della Pet Therapy risale invece agli albori del XX secolo, momento in cui tale modalità di cura iniziò ad assumere un’importanza più significativa, una vera e propria modalità terapeutica a disposizione della Medicina. Il termine fu coniato nel 1964 dallo psichiatra infantile Boris Levinson e si riferisce all’impiego degli animali da compagnia per curare specifiche malattie. I benefici sono tangibili e coprono una vasta gamma di quadri patologici, da quelli più sfumati quali l’ansia, lo stress e la depressione a quelli più gravi come l’autismo e la riabilitazione neurologica e post-traumatica.
Cani, gatti, asini, cavalli sono gli animali a cui si ricorre più frequentemente, ma svolgono egregiamente il loro compito anche i delfini. L’uomo contemporaneo dopo essersi allontanato dagli ecosistemi e dai suoi abitanti ha capito che, per ritrovare un equilibrio, deve ritornare alle origini.
È significativo a tal riguardo il numero di animali domestici registrati lo scorso anno in Italia. Dai dati del Censis risulta che il bel Paese è al primo posto in Europa. Oltre 30 milioni di animali sono presenti nelle nostre case. Circa 13 milioni di uccelli, 7,5 di gatti, 7 di cani, 1,8 di piccoli mammiferi (criceti e conigli) allietano la nostra vita. Questi numeri rafforzano ed amplificano il significato della Pet therapy e rappresentano in modo tangibile la ricerca di affetto in un mondo malato di solitudine.
Gli animali – ha scritto l’antropologo Konrad Lorenz – ci aiutano a ristabilire quell’immediato contatto con la sapiente realtà della natura che è andato perduto per l’uomo civilizzato.
Ogni epoca è stata caratterizzata da flussi epidemiologici che hanno fortemente influito sulla vita delle persone e sul loro sviluppo socio economico. L’epidemiologia infatti, così come i meccanismi di indagine dei social media più potenti, ha anche la funzione di mappare la società e promuovere risposte adeguate in funzione della mutevolezza dei bisogni.
Questo aspetto introduce alla necessità di prendere in considerazione strategie differenti e numerosi fattori, che nel percorso di cura, hanno il dovere di intervenire su diversi piani, con strumenti differenti ed in tempi scanditi dall’evoluzione della difficoltà di ogni singolo individuo. È evidente che il primo passo sia diagnostico che farmacologico, sia imprescindibile ed agisca sul controllo del sintomo e sulla sua causa. Ma non possiamo tralasciare l’impatto che ciascuna patologia grave o lieve che sia, esercita sull’organismo nel suo complesso andando, in alcuni casi, ad agire sulle aree psico-comportamentali della persona influenzandone la qualità di vita anche nel post acuzie. Ecco che, proprio in questa fase, la scelta della strategia di cura può avere un altissimo valore preventivo non solo sulle possibili ricadute, ma anche sui futuri bisogni assistenziali.
Quali doti ha un cavallo per far parte di un percorso di cura?
Iniziamo col ricordare che questi animali ci hanno affiancato nella storia per soddisfare esigenze primarie legate al cibo, alla sopravvivenza in guerra, alla possibilità di coltivare, agli spostamenti. Si sono dimostrati pazienti e generosi ed hanno accettato l’uomo, nonostante la sua natura di predatore fosse in netta contrapposizione con il loro essere prede. Questa differenza, così sostanziale, è oggi una delle peculiarità che rendono il cavallo un così incredibile aiuto nel percorso di cura.
Da tempo non si parla più di Ippoterapia, ma di Riabilitazione Equestre in seguito ad una riforma normativa del 2010, la quale ha definito che attività terapeutiche svolte in presenza dell’animale richiedessero un’équipe sanitaria specificamente formata in quelli che oggi si chiamano I.A.A. (Interventi Assistiti con Animali).
Per quali cure ci si può rivolgere alla riabilitazione equestre?
Il primo è quello neuromotorio. Dal punto di vista biomeccanico egli è un organismo perfetto. Una persona seduta su un cavallo al passo allena passivamente tutti gli apparati muscolo articolari, coinvolti nella camminata ed inoltre, ad ogni passo, sollecita l’apparato vestibolare in una sequenza ritmata di acquisizione e perdita di equilibrio. Diversi studi scientifici dimostrano come la combinazione di questi due fattori incida in modo significativo sul recupero della capacità di deambulazione.
Ci sono poi tutti gli aspetti legati alle disfunzioni psico-comportamentali sulle quali è doveroso intervenire precocemente in età evolutiva. Questa età rende difficile la comunicazione e la presa di coscienza dell’utilità della cura e dei sacrifici che questa comporta. Ecco che il cavallo, forte della sua intrinseca capacità di fascinazione, della sua mole e dell’ambiente nel quale vive diventa un prezioso strumento motivazionale.
Il cavallo pesa mediamente cinquecento chili, ma si lascia condurre. L’attività di guida, associato ad un altro compito operativo, determina una fissazione mnesica, potenzia il senso di autoefficacia e necessita di attenzione sostenuta e buoni tempi di reazione.
Nei disturbi dello spettro autistico e nelle disabilità che portano iperattivismo, il corpo dell’equide rappresenta poi un contenitore saldo e forte. Il bambino o il giovane adulto in sella è al tempo stesso fermo e mobile. Il cavallo lo contiene, ma ne soddisfa l’esigenza cinetica permettendo al sanitario di orientare la propria attenzione su altri aspetti riabilitativi specifici.
Complice l’ambiente nel quale il cavallo vive è poi possibile lavorare efficacemente sulle strategie visuo-spaziali e sulle altre funzioni esecutive. Lo sviluppo cognitivo del bambino cresce attraverso l’integrazione di informazioni apprese con modalità senso motorie che vengono progressivamente associate alla capacità di usare simultaneamente simboli e categorie di pensiero. L’ambiente equestre diventa un teatro per contribuire a dare un significato tangibile ai rapporti intra e interspecifici, alla sperimentazione del Sé, sostenuti da un “oggetto transizionale” di notevoli dimensioni, ad apprendere a riconoscere e gestire emozioni e comportamenti sociali.
Un lavoro particolarmente interessante svolto su alcune famiglie adottive ha dimostrato come in soli 14 incontri guidati, le dinamiche relazionali ed i modelli di attaccamento possano modificarsi positivamente, offrendo al nucleo una base esperienziale comune ed un contesto non giudicante nel quale individuare un equilibrio funzionale alla vita insieme. Un altro prezioso contesto di intervento se pensiamo alla difficoltà attuale dei genitori di offrire cornici valoriali e riferimenti solidi ai propri figli.
Infine, è noto, che senza una relazione di fiducia, senza una base sicura ed in assenza di un po’ di carisma, un curante abbia maggiori difficoltà a coinvolgere attivamente il paziente. Viene ora in mente un aiuto più efficace del cavallo?
Ringraziamo il direttore Alberto Riccadonna per la pubblicazione tratta da La Voce e il tempo, domenica 22 maggio 2022, pp. 27.
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