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88 Maggio 2022
Speciale Il mondo giovanile nella società odierna tra Covid-19 e post Covid

L’esperienza scolastica e le riflessioni post-Covid-19


Sono trascorsi più di due anni dal primo lockdown, causa epidemia Covid-19. Febbraio 2020, le circolari nelle scuole comunicavano la chiusura di qualche giorno per il sopraggiungere di alcuni casi di Covid anche nel nostro Paese. In un primo momento, gli studenti al sentire che la scuola sarebbe rimasta chiusa per qualche giorno, non erano per nulla dispiaciuti, anzi felici di prolungare ancora di qualche giorno il rientro tra i banchi di scuola. Ma quel lockdown ha continuato il suo percorso, fino alla chiusura dell’anno scolastico, ossia fino a giugno 2020.

Agli inizi con le nuove regole restrittive

Docenti, alunni, dirigenti, operatori scolastici, famiglie, tutti impreparati a questo triste evento, ma ad ogni modo tutti pronti a rimboccarsi le maniche e darsi da fare, per affrontare al meglio questa imprevista situazione scolastica e non solo.

Gli alunni delle classi prime della Primaria, come avrebbero potuto scolarizzarsi e nello stesso tempo imparare quel codice linguistico così difficile da apprendere già in situazione normale, specialmente per quegli alunni che hanno necessità di un maggior tempo a disposizione, di spiegazioni ripetute, di continue conferme, di un supporto costante.

Gli alunni delle classi terze, un passaggio importante, dove si gettano quelle basi grammaticali, scientifiche e matematiche che saranno fondamentali per una continuità alla secondaria di I Grado. E come è stata dura collegarsi, guardarsi da quelle piccole finestrelle in cui apparivano appena quei volti tristi e pensosi dei compagni, e di un insegnante che cercava non solo di spiegare al meglio la lezione, ma di stare vicina a quei piccoli alunni, spaventati di quanto stava accadendo. Quando al primo lockdown si disse che con le mascherine e il distanziamento si poteva uscire, molti bambini provarono non solo tristezza, ma alcuni si spaventarono a vedere quella gente con i volti coperti, e senza più scambiare nessuna parola, perché ciascuno aveva timore di incontrare qualcuno che potesse contagiare.

Anche i ragazzi e le ragazze della Secondaria di I Grado, hanno vissuto un disagio non indifferente, privati di quella libertà che iniziavano a respirare nei primi giorni di scuola, ad uscire con i nuovi compagni, ad andare a scuola da soli, tutto sembrava così distante. Molti hanno vissuto non solo la privazione delle relazioni con i propri coetanei, le risate, gli scherzi, la complicità tra compagni, ma hanno vissuto anche un’ansia trasmessa da quei genitori, timorosi di ciò che non si conosceva.

Anche i giovani delle superiori avranno qualcosa da raccontare ai posteri, insieme agli alunni che uscivano dalla Secondaria di I Grado, sono considerati gli studenti degli esami sotto il Covid. Esami pensati proprio per loro, con delle “agevolazioni”, perché chi più chi meno i danni li hanno subiti tutti, e allora quel “nessuno resti indietro” è stato presente anche in questa fase della vita degli studenti.

Un’esperienza “nuova” anche per i docenti: la “Dad”

Insegnando religione e avendo diciotto classi, a differenza dei colleghi che hanno una, due classi, per noi docenti con diverse ‘testoline pensanti’ è molto più facile avere una panoramica della situazione, potremmo anche fare un’analisi del pre-covid e post-covid.

Forse dovremmo tutti interrogarci, per quanto abbiamo vissuto di così inatteso. Abbiamo compreso di quanto bisogna essere vicino ai più fragili, ai più deboli. Abbiamo compreso che la tecnologia non come gioco sterile, ma come strumento utile può diventare in modo oggettivo un bene di tutti. Abbiamo scoperto di quanto fossero bravi i nostri alunni nativi digitali ad intrattenersi attraverso un gioco con altri individui anche in uno spazio senza limiti, non per trarre una relazione umana, ma una connessione sterile, ma allo stesso tempo, così poco preparati tecnologicamente da collegarsi ad una lezione, o ancora peggio inviare un compito tramite Classroom.

Allora, ecco che la tecnologia viene ripensata come strumento a servizio dell’uomo, il digitale che facilita l’apprendimento, senza per questo cadere nella dipendenza e omologazione. Abbiamo sperimentato però che molti dei nostri studenti non hanno seguito le lezioni in Dad, non hanno restituito compiti, e non sempre per mancanza di dispositivi digitali o di una scarsa connessione, ma per una mancanza di conoscenze e competenze digitali; così com’è avvenuto per alcuni docenti, distanti dal mondo digitale, senza cogliere i segni dei tempi.

In questa situazione, il compito di noi insegnanti è stato proprio quello di far comprendere che l’intelligenza artificiale non deve rendere l’uomo schiavo del sistema, ma deve liberare i saperi, deve essere un facilitatore e non imprigionare l’uomo. Il digitale, dunque, un nuovo Habitat, ma i nostri alunni lo sanno abitare? E in questo caso mi verrebbe da pensare a qualche azione di cyberbullismo, o immagini diffuse sul web all’insaputa del malcapitato, che spesso non sono solo compagni di classe, ma qualche volta riguarda anche noi docenti, ma lì si apre un argomento che meriterebbe essere trattato a sé stante.

Malgrado i nostri alunni, fossero bravi in tutti quei giochi interattivi, nel momento in cui il digitale diventava un mezzo per poter continuare qualcosa che altrimenti sarebbe stato interrotto, hanno incontrato delle serie difficoltà e alcuni di loro sono rimasti indietro. Ho ascoltato genitori che lamentavano quel vedere i figli per ore seduti e incollati a quel monitor; genitori che pretendevano dei tempi maggiori per le lezioni, altri che pretendevano dei tempi ridotti, qualcuno di questi genitori non aveva neanche compreso che quando il proprio figlio/a continuava a rimanere incollato al monitor non era perché stava seguendo la lezione con l’insegnante, ma perché stava giocando con qualcuno, che magari non conosceva neppure, forse anche qualcuno che non era proprio un coetaneo.

I più fragili: tra solitudine e partecipazione

Oggi siamo giunti al punto che possiamo tirare le somme, possiamo affermare che molti dei nostri alunni sono stati tenaci e forti nel superare anche questo triste momento e andare avanti, per usare un termine più appropriato potremmo dire che sono stati resilienti, ma non per tutti è stato così. Ci siamo accorti che molti alunni, i più fragili, i più deboli, chi non aveva a casa qualcuno che li seguisse, chi non aveva uno stimolo ad andare avanti, è rimasto indietro, malgrado tutto il sapere organizzato a scuola per loro.

Interessante è stata l’iniziativa a ottobre del 2020, nella mia scuola ad esempio, ma vissuta anche in molte altre scuole; mentre le classi prime della Secondaria di I Grado rimanevano a scuola in presenza e le classi seconde e terze continuavano da casa, per gli alunni più fragili o con delle situazioni particolari di qualsiasi classe, veniva data loro la possibilità di continuare in presenza con dei piccoli gruppi di compagni della classe, che ruotavano, facevano a turno.

In questo modo, l’alunna/o che presentava delle difficoltà continuava ad essere seguita/o in presenza e non sentiva la sensazione di solitudine, o peggio ancora di abbandono, o la mancanza di relazioni umane, perché si continuava con dei compagni di classe, che a turno partecipavano a questo progetto, che non ha fatto bene solo all’alunna/o che presentava delle criticità, ma è stato anche costruttivo ed educativo per gli alunni che hanno partecipato a questo progetto.

Il Sars-CoV-2 disvela l’esistenza della povertà delle relazioni sociali

Sembra doveroso aprire una piccola parentesi, pochi mesi prima che cominciasse tutto questo marasma del Covid, pedagogisti e psicologi erano intenti ad occuparsi della fascia preadolescenti e adolescenti per delle gravi insufficienze linguistiche dovute all’uso smoderato della messaggistica che non tiene conto della grammatica italiana, per cui maiuscolo, minuscolo, accenti, virgole, tutto è in reset.

Così, nei temi, negli scritti scolastici viene fuori questo grande problema socioculturale. Ma ancora prima, già si avvertiva nei luoghi affollati, sui mezzi pubblici, quell’isolarsi dei giovani, pur essendo un gruppo di quattro, sei giovani, ciascuno era riverso, magari con una postura non molto salubre, sul proprio cellulare intento a giocare, a messaggiare, a chattare, avendo magari a fianco un’amica o un amico con cui avrebbe invece potuto confrontarsi, scambiare delle idee.

Ancora più grave, quando abbiamo assistito a delle giovani mamme dare il proprio cellulare in mano a dei bambini piccolissimi, parliamo di bambini anche al di sotto dei tre anni. In una intervista fatta personalmente, tempo fa, ad un grande pedagogista di fama nazionale, il prof. Daniele Novara, mi riferiva di quanto fosse pericoloso l’uso della tecnologia nei più piccoli, problemi che si riflettono poi in un futuro scolastico, talvolta causando anche un ritardo a livello linguistico, ma anche con problemi di concentrazione allo studio, difficoltà nell’apprendimento.      

È incredibile come il Magistero della Chiesa in un suo documento del 1988, affronta Il tema della condizione giovanile, e recita così: «Molti altri giovani vivono in un ambiente povero di relazioni e soffrono, pertanto di solitudine e di mancanza di affetto. È un fenomeno universale, malgrado le differenze fra le condizioni di vita nelle situazioni di oppressione, nello sradicamento delle bidonvilles e nelle fredde dimore del mondo prospero. Si nota, più che in altri tempi, la depressione dei giovani, e ciò testimonia senza dubbio la grande povertà di relazioni nella famiglia e nella società»1.

Questo avvalora ancora di più che la crisi dei rapporti sociali, delle relazioni umane nei nostri giovani era già presente, ma guardavamo al problema con occhi miopi.

Diciamo pure che il lockdown è stata la fase scatenante del rendersi conto che i nostri giovani stavano già vivendo delle relazioni in bilico, tra solitudine e false relazioni sociali. Nel momento in cui, non si può più andare a scuola, uscire a fare una semplice passeggiata, non si può più frequentare una palestra, andare a calcetto, assegnarsi i compiti a casa di un compagno/a, ecco allora ci si rende conto che stiamo perdendo qualcosa di importante.

 Gli alunni più fragili, gli alunni figli di situazioni difficili dal punto di vista familiare, sono proprio loro che hanno risentito maggiormente il colpo. I genitori non potranno mai risparmiare ai loro figli gli errori che potranno fare dalle esperienze vissute, ma quando i genitori sono presenti, i figli non erediteranno solo il senso del mondo, ma saranno pronti ad aprirsi alle esperienze del mondo. Purtroppo, all’esperienza del Covid non tutti siamo stati preparati a sapere affrontare le difficoltà che si sono presentate.

Le inattese reazioni dei giovani

C’è stato un periodo, mi riferisco a novembre del 2020 che l’atteggiamento di molti studenti mi ha molto meravigliata. Non riuscivo a percepire in loro delle emozioni, tutto ciò che veniva loro proposto aveva una reazione fuori dal comune.

Ricordo che nel periodo in cui ricorre la Giornata Internazionale per i diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, proposi alcune immagini di un film dedicato alla storia Iqbal Masih, attivista e simbolo per la lotta dei diritti dell’infanzia nel suo Paese, in Pakistan. Ucciso all’età di soli 12 anni, proprio per aver creato un ostacolo nella fabbricazione di tappeti dallo sfruttamento di minori.

 I loro volti erano spenti, quando gli anni addietro, altri loro coetanei alla visione delle medesime immagini erano emozionati, e chiedevano quel “perché” che rientra nella curiosità e nello stupore dei giovani. Invece, rimasi addirittura sorpresa, dalla risata di qualche alunno che malgrado le scene fossero drammatiche, loro non riuscivano a cogliere la drammaticità di quelle scene che facevano riferimento ad un avvenimento accaduto realmente, come se tutto fosse un gioco, un game-over dove poi tutto ricomincia da capo.  

Verissimo, quando accade qualcosa di grave stravolge le nostre vite, ci cambia come persone, ed è proprio in questi momenti che si pensa che bisogna invertire la rotta, per pensare ad un futuro. Così ricordo in un libro di Tiziano Terzani: «Il mondo non è più quello che conoscevamo, le nostre vite sono definitivamente cambiate. Forse questa è l’occasione per pensare diversamente da come abbiamo fatto finora2». Solo che Terzani non si riferiva alla presenza di un virus, ma stava riferendosi all’11 settembre del 2001, all’attentato delle Torri Gemelle.

Oggi, possiamo dire che quel Patto Educativo tra scuola e famiglia dovrebbe essere il punto di partenza per riportare i nostri alunni ad una vita “normale”, per ripristinare quel periodo di vita che è stato “sospeso”, ma ancora c’è molto da fare, perché si possa recuperare quanto abbiamo perduto in termini di relazioni umane, di esperienze che arricchiscono e sono l’ingrediente principale per la crescita degli alunni.

Quello che ho notato, sono mancati gli abbracci, quello scambio di piccole effusioni, la condivisione di un panino, le strette di mano, le gite scolastiche e tanto altro. All’inizio forse siamo stati più attenti noi docenti a far mantenere quelle “regole covid” per il bene della collettività scolastica, perché alcuni stentavano a comprendere che quell’abbraccio, quella condivisione di una penna, o di una merendina, poteva diventare pericolosa.

Col passare del tempo però, quasi tutti gli alunni hanno iniziato a convivere con queste “regole”, per cui anche dire ritornare alla normalità, sembra utopico, perché quanto abbiamo vissuto e perso in termini di relazioni umane, sarà difficile da recuperare, ma certamente non impossibile.

Come sono cambiate le abitudini

In merito all’aspetto emotivo di come affrontare il Covid, diversi alunni hanno mostrato timore, indossando sempre correttamente mascherina e igienizzante; altri, invece, più disinvolti, anzi oserei dire scocciati di dover indossare quella mascherina. Una piccolissima minoranza, ma presente, non appena usciva fuori un caso positivo nella classe, si assentavano anche loro, non perché stessero male, ma perché avevano timore di potersi contagiare, oggi anche questo aspetto sembra essere superato, nonostante i casi positivi seppur pochi, continuano a ripresentarsi un po’ in quasi tutte le classi.  

Molti alunni hanno smesso di praticare uno sport, sempre per il timore di contagio, talvolta motivato, ma alcune volte esagerato, perché abbiamo poi compreso che rispettando alcune regole anche se si è tutti insieme, si può ridurre anche il contagio. Paure vere, fobie, alunni estroversi, e altri introversi, direi che si possono gettare le basi per un’ampia letteratura in merito.

Dal punto di vista dell’apprendimento, in alcuni casi, l’aver portato a promozione, facendo avanzare anche di Grado scolastico, alunne/i che non avevano acquisito quelle competenze e conoscenze tali da poter affrontare quel grado di scuola superiore, o addirittura quel salto per andare all’Università, mi ha fatto sorgere degli interrogativi, mi sono chiesta se stavamo facendo il bene di quell’alunno/a. Coinvolta non solo come docente, ma come persona che fa parte di una società che deve progredire, e senza cultura si rischia una regressione socio-culturale, un fare dei passi indietro che non giovano né ai singoli alunni, protagonisti della promozione, né alla collettività.

È pur vero che in determinate situazioni, la bocciatura, può fare un ulteriore danno all’alunno/a. Allora, è preferibile decidere per una promozione, ma in altre situazioni forse sarebbe auspicabile fermare l’alunna/o e dargli un’altra possibilità, aiutarlo/a ancora per un altro anno. La scuola è bene ricordare tutti quanti ha a che fare con un capitale umano, non si hanno merci o prodotti vari, ma persone, ciascuno con la propria personalità, con i propri ritmi di apprendimento, con le proprie emozioni, con i propri valori e si tratta di persone che vanno aiutate, perché sono nella fase della crescita per poter diventare un giorno uomini e donne di questa società.

Di certo la storia ci insegna che ogni periodo buio, ha avuto la sua rinascita, la sua rivincita verso un’aurora, ma dal momento che tutto questo ha toccato l’essere umano nella sua sfera più intima, nella sua profondità, perché ciò avvenga dovrà tenere conto della soggettività di ciascuno, ciascuno con i suoi tempi. Per cui, ci sarà, chi avrà necessità di più tempo per prendere consapevolezza di ritornare a vivere senza più paure; qualcuno, invece è già tornato/a a sorridere e a cogliere quanto di più bello la vita può riservare a ciascuno di noi.     

Forse sarebbe il caso di ripensare all’insegnamento, una scuola che proceda tenendo conto di tutti, senza lasciare nessuno indietro, ma per questo senza frenare chi ha quella curiosità e quella voglia di un sapere molto vivace. Edgar Morin, parla dell’insegnante come colui che ha una Missione di trasmissione, capace di fornire una cultura, e allo stesso tempo: «…preparare le menti ad affrontare le incertezzeinsegnando l’umanità nella sua unità antropologica3».

Conclusione

In questi anni di Covid, ho potuto notare come molti alunni, anche quelli più bravi a livello didattico, siano fragili nell’affrontare le difficoltà che si presentano, le sfide della vita che interessano tutti gli individui, dai più piccoli ai più grandi. La scuola deve preparare non solo culturalmente, ma dando anche quegli strumenti che consentano agli alunni di saper trovare le strategie per superare anche gli ostacoli che talvolta la vita ci riserva, e molte volte ho incontrato dei giovani fragili, che si richiudono in loro stessi, che cadono in depressione anche per piccole cose.

Ultimamente mi occupo dello Sportello di Ascolto, affidando gli alunni che sentono la necessità di fare una chiacchierata, non con me, non ne ho le competenze, ma con la psicologa della scuola. E questa possibilità penso che sia molto importante per i nostri giovani, a volte non sempre riescono ad aprirsi con le persone a loro vicine, hanno paura di deludere, o di non essere compresi, per cui nel momento in cui trovano la persona con la quale si instaura una sorta di fiducia, un rispetto reciproco, anche quel semplice lasciarsi andare per quella mezz’ora, può risultare importante, magari le stesse cose dette non da un genitore, ma da una persona estranea, fanno sicuramente più effetto, e a volte quei problemi che sembravano insormontabili come d’improvviso svaniscono e si ritorna alla serenità.

Ritornando all’idea di ripensare all’insegnamento, dove a volte sembra di più non un’organizzazione dei saperi, ma un’organizzazione di finanze, forse bisognerebbe ripensare ai valori principali da trasmettere agli alunni, ad un sapere che metta insieme conoscenze, competenze, ma che entrambi possano essere la chiave per riuscire ad entrare nella società con senso di responsabilità e senso civico, per una società migliore.

Mi piace concludere con una citazione che racchiude quest’ultima parte di questo scritto, con un pensiero di un grande pedagogista: «meglio una testa ben fatta che una testa piena» (Michel Montaigne), citazione che ha tra l’altro ispirato per il suo libro Edgar Morin4.

Note

1 https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/ccatheduc/documents/rc_con_ccatheduc_doc_19880407_catholic-school_it.html 

2 Tiziano TERZANI, Lettere contro la guerra,  Longanesi &C., Milano 2002,  p.23

3 Edgar MORIN,  La testa ben fatta, . Raffaello Cortina Editore, Milano 2000

4 Idem, La testa ben fatta, op. cit.

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