“Non si può, infatti, pensare la vita fisica come qualcosa da conservare a tutti i costi – ciò che è impossibile –, ma come qualcosa da vivere giungendo alla libera accettazione del senso dell’esistenza corporea». Ciò non toglie che «riconoscere l’impossibilità di guarire nella prospettiva prossima della morte, non significa, tuttavia, la fine dell’agire medico e infermieristico. Esercitare la responsabilità nei confronti della persona malata, significa assicurarne la cura fino alla fine». È una fine che il credente ha la grazia di riconoscere come un nuovo inizio perché – come ricorda ancora l’Exultet pasquale – «Cristo ha distrutto la morte e dagli inferi risorge vittorioso». La Pasqua ormai vicina ci renda sempre più consapevoli del senso del vivere e del morire e rinnovi la nostra disponibilità a riconoscere personalmente e a testimoniare realisticamente l’esigenza di operare, con la dovuta sensibilità e coscienza, accanto a chi si prepara a entrare nell’eternità gloriosa”.
Giuseppe Zeppegno
Nella veglia pasquale risuona il canto dell’Exultet: «Esulti il coro degli angeli, esulti l’assemblea celeste: un inno di gloria saluti il trionfo del Signore risorto. Gioisca la terra inondata da così grande splendore; la luce del Re eterno ha vinto le tenebre del mondo. Gioisca la madre Chiesa, splendente della gloria del suo Signore». È un canto di lode che manifesta la grandezza dell’amore oblativo di Dio per l’umanità. Ricorda che la Trinità, permeata dall’amore, per sua natura ha bisogno di comunicarsi al di fuori di sé. La creazione è il segno visibile di questa comunicazione d’amore. L’apice dell’Amore Trinitario si ha però nella kenosis del Figlio. Egli si abbassa alla nostra natura umana, pur rimanendo Dio, e si fa prossimo ad ogni uomo guarendo e sanando tutti. Accetta infine il supplizio della croce. Passando da morte a vita e tornando al Padre, non con la sola natura divina, ma anche con la natura umana, restituisce all’umanità la possibilità di fare esperienza della salvezza eterna, in conformità all’antico progetto divino che il peccato dell’uomo aveva negato. È una salvezza che solo la misericordia di Dio può concedere e che l’umanità può accogliere nella misura in cui si rende disponibile a liberarsi dalla tentazione gnostica che porta a confidare solo nell’impegno e nel raziocinio umano. È una tentazione presente in molti ambiti della vita comune. Non ne è esente l’agire bioetico dove, grazie agli sviluppi tecno-scientifici, impera in molti una improbabile sindrome onnipotente che fa pensare che la vita sia totalmente asservita al potere umano. La pensano così i transumanisti che sostituiscono alla medicina dei bisogni, la medicina dei desideri che non previene e non cura, ma si propone di potenziare le funzioni normali per aumentare o trasformare le qualità morfologiche umane con l’ausilio delle tecniche convergenti che impongono il ripensamento dei confini tra salute e malattia, normale e patologico, vita biologica e artificiale.
La pensano così anche tanti operatori sanitari che faticano ad accettare il limite umano e fluttuano tra due poli contrapposti. Alcuni mirano all’abbandono terapeutico, ipotizzando la possibilità di farsi promotori del suicidio assistito e financo dell’eutanasia. Altri, sedicenti difensori della vita ad ogni costo, sono pervasi dall’ostinazione a infondere terapie invasive anche all’approssimarsi ormai certa della morte. Manca la capacità di attuare quel sano realismo, quel giusto mezzo, che in tempi a noi molto lontani, l’etica medica aveva già individuato come strada maestra per una sana ed equilibrata presa di distanza dal curare compulsivo e dall’inopportuna resa assistenziale. Possiamo quindi tornare a quei saggi pronunciamenti che riconoscevano il valore della cura, ma sapevano anche evitare gli eccessi nella consapevolezza che la vita terrena non è il tutto dell’uomo e che, quando le condizioni cliniche rendono manifesta la prossimità dell’exitus, la distanasia, cioè la morte difficile e travagliata di chi è costretto a trattamenti futili, inefficaci, destinati unicamente a prolungare il processo di morte, è da evitarsi, mentre è doverosa la desistenza terapeutica che non abbandona il malato, ma, attraverso le cure palliative, l’avvolge di tutte le attenzioni necessarie affinché, controllati i sintomi, possa vivere l’ultimo tratto della sua esistenza il più serenamente possibile. Uno di questi autori antichi, che vale la pena di valorizzare anche oggi, è il teologo domenicano Francisco de Vitoria (1483-1546). Nel testo Relectiones Theologicae, pubblicato postumo (Lugduni, 1586), sostenne l’obbligo morale d’offrire al malato un’adeguata alimentazione e idratazione fino a quando l’assunzione di cibi e bevande è possibile senza eccessivo sforzo. Precisò che non vige l’obbligo morale di cercare tutti i mezzi medicinali, ci si può lecitamente accontentare di quelli comuni astenendosi dal dilapidare il patrimonio per sottoporsi a una terapia troppo esosa. Asserì che l’obbligatorietà dei mezzi deve essere messa in relazione con l’oggettiva ordinarietà e le soggettive possibilità del singolo (secundum proportionem status), la proporzionata speranza di un beneficio (spes salutis), l’assenza di rischi eccessivi (media communia et facilia). Sono classificati pertanto straordinari e non obbliganti, i mezzi la cui applicazione provoca gravi oneri fisici e morali (quaedam impossibilitas): eccessivi dolori (ingens dolor), costi elevati (sumptus extraordinarius), evidenti sforzi e timori applicativi (summus labor et vehemens horror).
Queste convinzioni hanno accompagnato, senza tentennamenti, la plurisecolare riflessione morale cattolica in materia. Ne è prova l’ultima lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede che pone a tema la cura delle persone che affrontano le fasi critiche e terminali della vita. è la Samaritanus bonus, pubblicata nel 2020. Il documento sostiene che «la medicina deve accettare il limite della morte come parte della condizione umana. Arriva un momento nel quale non c’è che da riconoscere l’impossibilità di intervenire con terapie specifiche su una malattia, che si presenta in breve tempo come mortale. È un fatto drammatico, che si deve comunicare al malato con grande umanità e anche con fiduciosa apertura alla prospettiva soprannaturale, consapevoli dell’angoscia che la morte genera, soprattutto in una cultura che la nasconde. Non si può, infatti, pensare la vita fisica come qualcosa da conservare a tutti i costi – ciò che è impossibile –, ma come qualcosa da vivere giungendo alla libera accettazione del senso dell’esistenza corporea». Ciò non toglie che «riconoscere l’impossibilità di guarire nella prospettiva prossima della morte, non significa, tuttavia, la fine dell’agire medico e infermieristico. Esercitare la responsabilità nei confronti della persona malata, significa assicurarne la cura fino alla fine». È una fine che il credente ha la grazia di riconoscere come un nuovo inizio perché – come ricorda ancora l’Exultet pasquale – «Cristo ha distrutto la morte e dagli inferi risorge vittorioso». La Pasqua ormai vicina ci renda sempre più consapevoli del senso del vivere e del morire e rinnovi la nostra disponibilità a riconoscere personalmente e a testimoniare realisticamente l’esigenza di operare, con la dovuta sensibilità e coscienza, accanto a chi si prepara a entrare nell’eternità gloriosa.
© Bioetica News Torino, Marzo 2024 - Riproduzione Vietata