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10 Giugno 2013
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Notizie dal Mondo

1. CO2 a 400 ppm: mai così elevata da 3 milioni di anni

6 maggio 2013

Nelle ultime settimane, per la prima volta nella storia dell’umanità, la concentrazione atmosferica di biossido di carbonio (CO2) ha raggiunto la soglia delle 400 parti per milione (ppm), misurate all’osservatorio del Mauna Loa (Hawaii), e l’incremento procede a un tasso di 2-3 ppm/anno a causa delle ingenti emissioni dovute alle attività umane (33,5 Gigatonnellate di CO2 emesse globalmente nel 2010, secondo GlobalCarbonProject).
A tal proposito, proponiamo qui di seguito l’articolo «Effetto serra, vicini al punto di non ritorno» di Luca Mercalli, apparso su «La Stampa» il 6 maggio 2013:
«Quattrocento parti per milione di biossido di carbonio (CO2) nell’atmosfera terrestre. Sembra un’informazione priva di interesse, e invece costituisce un dato epocale. È la simbolica soglia toccata, per la prima volta da almeno 3 milioni di anni, dalla concentrazione di questo gas a effetto serra, il più importante tra quelli artificialmente incrementati da un’umanità sempre più vorace di combustibili fossili. Come dire che su un milione di molecole d’aria che respiriamo, 400 sono di CO2, un livello non certo tossico per il nostro organismo – lo diviene oltre circa 5000 parti per milione (ppm) – ma per il sensibile clima terrestre sì, soprattutto se a controllarlo sono le energivore attività umane in un pericoloso esperimento globale ormai sfuggito di mano.
Secondo le indagini geochimiche, l’ultima volta che si erano toccati livelli comparabili era durante il Pliocene, tra circa 3 e 5 milioni di anni fa, quando la nostra specie non era ancora comparsa, la Terra era più calda di 2-3 gradi rispetto a oggi, i livelli marini più elevati di 25 metri. Uno scenario che suggerisce ciò che potrebbe diventare il clima terrestre nei prossimi decenni, e ce ne sarebbe abbastanza da metterci in crisi, come da 40 anni ammoniscono climatologi e biologi.
Nulla di nuovo per il pianeta, ma per la specie umana sì. E tanto più che l’attuale presenza di CO2 nell’aria non è certo stabilizzata qui: nonostante i timidi tentativi internazionali di riduzione delle emissioni serra, continua a crescere ormai di quasi 3 ppm all’anno e rischia di proiettarci verso un riscaldamento atmosferico e una degradazione ambientale senza precedenti.
Peraltro la soglia ritenuta di sicurezza dagli scienziati, da non superare per scongiurare cambiamenti climatici irreversibili, è quella di 350 ppm, già raggiunta nel 1986, e l’attuale superamento delle 400 ppm rappresenta dunque l’ulteriore campanello di un allarme, troppo poco ascoltato, che suona ormai da decenni.
Le misure più utilizzate della concentrazione atmosferica di biossido di carbonio provengono dall’osservatorio del Monte Mauna Loa, a quota 3400 metri nelle Hawaii, e sono attive fin dal 1958. Là, in mezzo al Pacifico, lontano dalle grandi aree urbane di emissione, si trovano infatti le condizioni ideali per analizzare campioni d’aria rappresentativi dell’atmosfera globale, dato che le molecole di CO2, avendo una permanenza di oltre un secolo, hanno tutto il tempo di diffondersi omogeneamente a scala planetaria.
Cinquantacinque anni fa, in un’epoca in cui solo pochi pionieri delle scienze del clima parlavano di effetto serra, fu Charles David Keeling, dottorando al California Institute of Technology, insieme a Roger Revelle, oceanografo e direttore della Scripps Institution of Oceanography a San Diego, a portare avanti la battaglia per avviare e mantenere quelle misure continuative a lungo termine, tra difficoltà logistiche e finanziamenti a singhiozzo. All’inizio della loro avventura scientifica la concentrazione di biossido di carbonio era di 316 parti per milione, già in aumento rispetto alle 280 dell’era preindustriale, ma chissà se immaginavano la drastica impennata che ci ha portati fin qui.
La crescente “curva di Keeling”, così è stato battezzato il grafico del CO2 a Mauna Loa dal 1958 a oggi, è uno dei simboli più evidenti della capacità umana di alterare l’ambiente, e se ne può seguire l’andamento giorno per giorno su http://keelingcurve.ucsd.edu. La sua tipica fluttuazione stagionale, una sorta di “respiro della Terra”, dovuta alla temporanea cattura di CO2 da parte della fotosintesi delle grandi foreste boreali, farà sì che tra qualche giorno la linea inizierà ad abbassarsi, fino a ottobre, di qualche parte per milione, ma la tendenza non cambia: in assenza di provvedimenti per la riduzione delle emissioni serra, l’umanità si sta pericolosamente affacciando su un territorio ignoto e, nonostante tutto, troppo presa dal confrontare ogni giorno gli isterici cambiamenti dello spread e degli indici di Borsa, sta incautamente sottovalutando indicatori fisici ben più rilevanti per le generazioni a venire e la conservazione della specie».
(Fonte: www.nimbus.it)
(Approfondimenti: http://www.wmo.int/pages/mediacentre/news/documents/400ppm.final.pdf)

2.  Eutanasia, appello dei medici belgi: «Sta portando alla banalizzazione della morte

7 maggio 2013

«Avevamo predetto che la legge sull’eutanasia del maggio 2002 ci avrebbe portato alla rovina, facendoci rinunciare al comandamento “Non uccidere”. Ora ne abbiamo la conferma: l’opinione pubblica e i responsabili della politica, con la collaborazione dei media, vogliono estendere la legge sull’eutanasia ai minori e alle persone dementi». Comincia così il comunicato della Società medica belga di San Luca sulla proposta di estensione della legge sull’eutanasia, allo studio nel Parlamento belga.
In Belgio l’eutanasia è legale da 11 anni. Oggi solo persone maggiorenni possono farne richiesta, ma se la legge sarà modificata come sembra, anche un minore, «se reputato in grado di giudicare ragionevolmente nei suoi interessi», potrà richiedere l’eutanasia. Se ha meno di 16 anni, è necessaria l’autorizzazione dei genitori. Se ha già compiuto i 16 anni, è obbligatorio avere il parere dei genitori, che però non è vincolante.
In dieci anni di applicazione della legge, fa notare l’appello della Società medica temendo gli abusi, «neanche un caso è stato ritenuto non conforme alla esigenze della legge». Questo non perché non siano avvenuti casi in teoria illegali, «ma a causa di una interpretazione molle della legge». «Se un ragazzo con un diabete di tipo 1 si trovasse un domani a pensare che la qualità della sua vita è diventata insufficiente», scrivono i medici, con le modifiche alla legge potrebbe richiedere l’eutanasia. Sarebbe sufficiente affermare che la sofferenza causata dall’essere malato è diventata «insopportabile», nient’altro.
«La nozione di qualità della vita – denunciano i medici – è estremamente soggettiva» e la legge sull’eutanasia in Belgio sta portando alla «banalizzazione della morte». Parole confermate da un fervido sostenitore dell’eutanasia belga come Dominique Biarent, capo della terapia intensiva all’Ospedale universitario per minori Queen Fabiola di Bruxelles, che ha dichiarato all’Afp: «L’eutanasia viene già portata a termine anche su pazienti più giovani dei 18 anni, lo sanno tutti. Per questo bisogna affrontare la realtà, i dottori hanno bisogno di un quadro legale per agire».
In Belgio l’eutanasia, introdotta nel 2002 solo per pochi casi estremi, è del tutto fuori controllo. I casi sono quintuplicati e le maglie della legge vengono continuamente allargate, senza però che il testo della legge sia modificato. Oggi, dopo 11 anni, le morti sono aumentate in modo esponenziale e l’eutanasia è stata estesa così tanto che due fratelli gemelli sono stati uccisi perché temevano di diventare ciechi. Anche chi soffre in modo “insopportabile” può richiedere l’eutanasia e, siccome per i due fratelli la nuova condizione sarebbe stata un “dolore insopportabile”, e poiché la sofferenza è stata definita criterio soggettivo, è stato permesso loro di morire.
Tre studi recenti hanno dimostrato che il 32% di tutti i casi di eutanasia sono stati portati a termine senza l’esplicita (e per legge necessaria) richiesta del paziente; che il 47% di tutti i casi di eutanasia non sono stati riportati e che anche le infermiere hanno somministrato la “cura” ai pazienti, mentre la legge prescrive che a farlo debbano essere solo i medici. Nonostante questo, nessun dottore è mai stato perseguito in questi anni.
LEONE GROTTI
(Fonte: http://www.tempi.it)

3. New Delhi ammette: oltre 2.600 vittime dei test sui farmaci

9 maggio 2013

Il governo indiano alla fine ha dovuto ammettere. Ha dovuto rivelare i numeri, le statistiche sugli effetti negativi dei farmaci sui suoi “cittadini-cavia”. E ha puntato il dito ancora una volta contro le case farmaceutiche straniere, ma lo scandalo coinvolge anche la sua potente industria del farmaco, ormai tra le maggiori al mondo.
La nota con cui, a fine aprile, l’esecutivo di New Delhi ha comunicato ufficialmente alla Corte suprema che «fino a 2.644 persone» potrebbero essere state vittime di sperimentazione clinica di nuovi farmaci negli ultimi sette anni, solleva nuovamente una questione sentita e drammatica, che proprio in questi tempi si intreccia con le controverse iniziative di produzione locale di farmaci prima coperti da brevetti internazionali ora disconosciuti dalla giurisprudenza locale.
Sotto accusa sperimentazioni registrate dal 2005 al 2012 che hanno riguardato 57.303 indiani, di cui 39.022 avrebbero completato i test clinici. Su di essi – secondo i dati presentati alla suprema istanza giudiziaria dal ministero per la Sanità e il Benessere familiare – sarebbero stati testati 475 nuovi prodotti, di cui soltanto 17 infine approvati per la commercializzazione in India. «I casi di morti dovute a eventi negativi avversi durante le sperimentazioni nel periodo in questione furono 2.644 e tra questi anche 80 casi di decesso attribuibili con certezza ai test clinici – conferma il ministro per la Sanità, Keshav Desiraju, nel suo rapporto alla Corte Suprema –. Circa 11.972 eventi negativi gravi (esclusi decessi) sono stati altresì registrati nel periodo dal primo gennaio 2005 al 30 giugno 2012, di cui 506 con certezza connessi con la sperimentazione».
Il 3 gennaio scorso, la Corte aveva criticato il governo per la sua insensibilità e aveva chiesto al ministro della Sanità di controllare l’applicazione del meccanismo di selezione e controllo per la sperimentazione umana. Davanti al rischio concreto che i giudici decretassero la sospensione di ogni test, il vice-procuratore generale ha garantito che il ministro avrebbe personalmente vigilato sull’attuazione di un più stretto rispetto delle indicazioni del Comitato permanente parlamentare. Un provvedimento che ha tolto il governo dall’imbarazzo, ma che non è servito a fermare le accuse di gruppi della società civile.
In particolare, quelle dell’Organizzazione non governativa Swasthya Adhikar Manch (Forum per il diritto alla salute), che aveva minacciato di portare davanti alla Corte l’accusa che i cittadini indiani sono utilizzati alla stregua di cavie dalle aziende farmaceutiche straniere con una qualche forma di connivenza delle autorità. I dati mostrerebbero però responsabilità non solo di multinazionali, ma anche di aziende locali. Nel 2005 era stata cancellata la legge approvata solo un anno prima, che obbligava le case farmaceutiche ad ottenere l’attestazione di sicurezza ufficiale nel Paese d’origine per prodotti da testare successivamente in India.
«Nell’ultimo quarantennio sono state approvate per la commercializzazione in India 900 diverse molecole medicinali di varie categorie, di cui solo sette scoperte e approvate nel Paese, il resto scoperte e sviluppate altrove, dopo complessi procedimenti di ricerca e di sviluppo, inclusi test sugli esseri umani», ha ricordato significativamente il ministro per la Sanità indiano.
Gli attivisti additano come responsabili di decessi e di abusi della legge soprattutto le aziende straniere autorizzate ad operare in India secondo protocolli severi sulla carta, ma che ad esempio lasciano ampio spazio ad incertezze sulla reale coscienza della scelta di sottoporsi ai test, dato il contesto di povertà, emarginazione e scarsa educazione da cui proviene la maggior parte dei volontari, a volte anche sotto la spinta di gravi problemi di salute. Interessi delle case produttrici, di strutture ospedaliere e di operatori sanitari rendono spesso opache le sperimentazioni e discutibili i risultati.
STEFANO VECCHIA
(Fonte: Avvenire)

4. Caso Angelina Jolie, molte variabili poche certezze

14 maggio 2013

La famosa attrice Angelina Jolie, icona hollywodiana di bellezza e prestanza fisica, ha informato i media di essersi sottoposta ad una mastectomia totale bilaterale preventiva per ridurre la probabilità di sviluppare un cancro al seno. La donna è infatti portatrice di una mutazione del gene BRCA che incrementa le probabilità di tumore mammario, ovarico e, in modo più contenuto, di altri organi.

Il BRCA appartiene ad una classe di geni definiti soppressori tumorali. Esistono centinaia di possibili mutazioni di questi geni e solo una parte di queste si associa ad un incremento di rischio tumorale.

Questa notizia può offrire l’occasione per sviluppare alcune riflessioni di specifica pertinenza bioetica. Un primo interrogativo riguarda l’eticità di una mutilazione di un organo sano, in questo caso le mammelle, in previsione di una possibile futura patologia. Il 13 settembre 1952 il Santo Padre Pio XII descrisse il principio che doveva ispirare questi casi dicendo: «La parte esiste per il tutto e, di conseguenza, il bene della parte resta subordinato al bene del tutto: il tutto è determinante per la parte e può disporne nel suo interesse». Tale principio viene indicato in bioetica come “principio di totalità”. Perché esso possa essere invocato, perché cioè sia lecito sacrificare una parte di sé stessi, il Papa specificò che «soltanto dove si avvera la relazione del tutto alla parte e nella misura esatta in cui si avvera, la parte è subordinata al tutto, il quale nel suo interesse può disporre della parte». Se ad esempio un rene colpito da tumore viene asportato, si è in presenza di una chiara applicazione del principio di totalità; il sacrificio del rene malato offrirà possibilità di guarigione o quantomeno di più lunga vita al paziente.

Maggiore perplessità può derivare dalla asportazione di un organo sano, passibile di ammalarsi in futuro, anche se in questo caso specifico ci sono da considerare una serie di fattori che rendono la scelta non facile. Nel caso della Jolie, ad esempio, dato l’alto rischio di tumore, nessuno può escludere già la presenza di foci occulti di degenerazione neoplastica in fase iniziale. Tra gli elementi ulteriori da considerare vi sono la funzione galattogena della ghiandola mammaria e il ruolo di locus psicologico dell’identità femminile svolto dalle mammelle, compromessi dalla mastectomia. A questi si deve aggiungere il carico di stress connesso ad un intensivo monitoraggio della salute del seno in donne portatrici di tale mutazione. La serietà del rischio è attestata da quanto pubblicato nel 2010 sul «Journal of Clinical Oncology». Secondo gli autori di quello studio una donna di 25 anni che non ha mutazione del BRCA ha l’84% di probabilità di raggiungere l’età di 70 anni, ma in presenza della mutazione del BRCA1 la stessa donna vede ridursi al 53% la probabilità di diventare settantenne, pur sottoponendosi a periodici esami di prevenzione.

Esiste poi un altro interrogativo: chi può o deve avere accesso a questo tipo d’informazioni e chi ne deve essere invece inibito? Secondo la legislazione americana questi dati costituiscono a tutti gli effetti informazioni di tipo sanitario, e come tali esse non possono ad esempio essere utilizzate come fonte per la discriminazione del personale in ambito lavorativo, ma possono essere invece acquisite dalle compagnie assicuratrici per la valutazione del rischio.

C’è infine un ulteriore elemento da considerare, un’implicazione legata a questi casi: l’uso dei test genetici come condanna, anziché come servizio. Non è un’ipotesi confinata al futuro, è una realtà già oggi routinaria che si verifica con il ricorso alla diagnosi genetica pre-impianto effettuata sugli embrioni prodotti con la fecondazione artificiale. Attraverso la biopsia di una o due cellule (blastomeri) dell’embrione si possono effettuare ormai decine di analisi genetiche, compresa la ricerca di mutazioni del BRCA. Se il test  genetico risulta positivo, la coppia può decidere di non trasferire l’embrione nell’utero e di gettarlo via. L’embrione viene così ucciso non perché sia malato, ma perché porta con sé un rischio di malattia.

L’Angelina Jolie del XXI secolo che dovesse essere concepita in provetta potrebbe non godere del privilegio di vivere la propria vita e di scegliere la mastectomia preventiva, che la Jolie dei nostri tempi ha avuto, semplicemente perché essa verrebbe buttata via quando la sua vita fosse solo di qualche giorno ed il suo corpo fosse formato da un pugno di cellule. In uno studio del 2007 pubblicato sulla rivista «Human Reproduction» furono interrogate 102 donne affette da mutazione del BRCA seguite dai servizi oncologici. Fu domandata la loro opinione circa l’eventuale diagnosi pre-impianto sul BRCA nei loro ipotetici figli. Tra le 52 donne che accettarono di rispondere, 39 ritennero accettabile effettuare la diagnosi genetica pre-impianto per mutazione del BRCA. Il favore verso la diagnosi pre-impianto tra le donne che non avevano intenzione di avere altri figli risultò più che doppio rispetto a quelle che invece desideravano avere altri figli; un dato, questo, che sembra indicare come l’apertura alla vita coincida con una maggiore apertura anche all’accoglienza della vita dissonante rispetto all’archetipo di perfezione e salute.

(RENZO PUCCETTI)
(Fonte: http://www.lanuovabq.it/
(
Approfondimenti: http://www.nytimes.com/2013/05/14/opinion/my-medical-choice.html?_r=0)

5. Clonazione umana, gli scienziati a un punto di svolta

15 maggio 2013

Organi e tessuti da un semplice prelievo di cellule epidermiche. Questa, semplificando, è la prospettiva offerta dal cosiddetto «cloning terapeutico», ossia la formazione di cellule specializzate, appartenenti a un organo o tessuto danneggiato, a partire da cellule staminali dello stesso malato e prodotte, appunto, con tecniche di cloning. Una prospettiva che, grazie alla scoperta fatta dai ricercatori dell’Oregon National Primate Research Center insieme con i colleghi della Oregon Health & Science University, sembra farsi più vicina. Per la prima volta, infatti, è stato possibile ottenere cellule staminali embrionali partendo da cellule epidermiche e senza bisogno di ovuli fecondati, finora indispensabili.

La tecnica, come si legge nell’articolo uscito il 15 maggio su «Cell», è mutuata da quella chiamata trasferimento nucleare cellulare somatico o SCNT, utilizzata dai genetisti di Edimburgo per creare, nel 1996, la pecora Dolly, e consiste nel privare un ovulo del proprio materiale genetico, sostituendolo poi con quello di una cellula adulta. Ciò favorisce la formazione di cellule staminali embrionali che, a loro volta, possono maturare e specializzarsi fino a diventare tessuti o, nel caso di Dolly e degli altri animali clonati, esseri viventi completi.

Nel corso degli ultimi 17 anni, moltissimi sono stati i tentativi di giungere al cloning di primati e di embrioni di esseri umani, ma nessuno di essi è mai riuscito ad andare oltre un numero di cellule pari a 10-12. Non solo: gli ovociti umani si sono rivelati molto più fragili del previsto, rendendo di fatto impercorribile la strada intrapresa con Dolly. Ora invece, grazie allo studio coordinato da Shoukhrat Mitalipov, che nel 2007 aveva ottenuto risultati analoghi con cellule di scimmia, gli ostacoli principali sembrano rimossi, come dimostra il fatto che l’embrione ottenuto ha raggiunto lo stadio di blastocisti, con circa 150 cellule staminali embrionali.

La svolta sta nell’aver capito che l’ovocita origina staminali embrionali se, al momento dell’inserimento del DNA adulto, è in metafase, cioè in quel momento della divisione cellulare in cui la cellula è ancora una, ma il materiale genetico è già allineato all’equatore della stessa, un attimo prima della divisione. Mantenendo con opportuni accorgimenti chimici la cellula uovo in metafase durante il trasferimento di materiale genetico, il processo non si arresta e avanza, appunto, fino alla produzione di cellule staminali embrionali. Le quali, a loro volta, possono essere trasformate virtualmente in cellule specializzate di qualunque organo o tessuto; nel caso specifico, si è già visto che è possibile ottenere cellule epatiche, cardiache e nervose.

Numerosi i vantaggi offerti dalla metodica. Tra i più importanti vi sono il fatto che viene del tutto bypassata la necessità di utilizzare ovuli fecondati, ostacolo quasi insormontabile per i risvolti etici, e comunque impraticabile in molti Paesi; la disponibilità enorme di cellule uovo (che, a differenza di quelle fecondate, sono reperibili in grandissime quantità) e, soprattutto, l’appartenenza allo stesso malato di tutto ciò che viene utilizzato e formato, fatto che permette di superare il rigetto derivante da staminali ottenute da altri esseri viventi (reazione che, finora, ha costituito uno dei principali ostacoli alla medicina rigenerativa).

Una precisazione fondamentale, che gli autori sottolineano e che in Paesi quali la Gran Bretagna è normata da una legge apposita, riguarda lo scopo per il quale viene studiato il cloning terapeutico: curare o rimpiazzare organi e tessuti malati. Questo cloning è infatti molto diverso da quello chiamato riproduttivo, che fino a oggi non ha mai portato a risultati neppure lontanamente soddisfacenti sulle scimmie e che quindi, con ogni probabilità, è del tutto irrealistico per gli esseri umani. Ciò tuttavia non è bastato a placare le polemiche. Unico vero ostacolo segnalato da più parti: i costi, al momento proibitivi.

(Fonte: Il Sole 24 ore)
(Approfondimenti: http://www.cell.com/retrieve/pii/S0092867413005710)

 6. Germania, svolta al Bundestag: i bimbi non nati sono persone

15 maggio 2013

Dal 15 maggio in Germania è possibile dare legalmente un nome, e dunque un’identità giuridica e una sepoltura ufficiale, ai bambini nati morti anche se di peso inferiore ai 500 grammi. Finora in Germania li chiamavano «Sternenkinder», bambini delle stelle, il loro nome infatti era scritto solo in cielo, nessuna traccia sulla terra.

Ora questi piccoli nati morti potranno essere iscritti dai genitori nel registro civile e avere una degna sepoltura. Lo ha stabilito il Bundestag appunto il 15 maggio. I bambini non nati, anche se morti durante la gravidanza, vengono quindi ufficialmente inseriti nel “mondo” degli esseri umani. La legge tedesca si incanala nella strada che sta aprendo la petizione europea «Uno di noi». E la coincidenza con la legge tedesca rafforza la campagna di raccolta delle firme e spinge le istituzioni europee a far propria l’istanza per la dignità dell’embrione.

(Fonte: Avvenire)
(Approfondimenti: https://epetitionen.bundestag.de)

7. Delegazione della Santa Sede alla 66ma Assemblea mondiale della Salute: cura e assistenza sanitaria orientate allo stato spirituale della persona

22 maggio 2013

Pubblichiamo di seguito l’intervento della Delegazione della Santa Sede, nella persona dell’Arcivescovo Zygmunt Zimowski, alla 66ma Assemblea mondiale della Salute a Ginevra, in Svizzera (20-28 maggio 2013):

 

Signor Presidente,
ho l’onore di trasmetterLe i saluti e le benedizioni del Santo Padre, il Papa Francesco, che formula auspici affinché le delibere di questa augusta assemblea siano proficue.
1. È stato giustamente rimarcato come la salute contribuisca al raggiungimento dello sviluppo, dal quale trae beneficio. La mia delegazione accoglie positivamente la determinazione di dare priorità alla salute nella prossima formulazione degli obiettivi di sviluppo globale. Il compito che ci attende è quello di descrivere gli obiettivi per la salute in modo appropriato e convincente.

A tale proposito, la Santa Sede è fermamente convinta che l’impostazione di una copertura universale come obiettivo di una politica per la salute e lo sviluppo (A66/24) è il modo più sicuro per venire incontro ad un’ampia serie di problemi legati alla salute, che comprende la salvaguardia dei risultati raggiunti finora e la partecipazione ad un più vasto progetto in campo sanitario.
Inoltre, pur riconoscendo gli stretti legami esistenti tra salute e sviluppo, la nostra delegazione vuole sottolineare l’esigenza di uno sviluppo integrale e non la semplice crescita economica. Salute e sviluppo devono essere integrali per poter rispondere appieno ai bisogni di ogni essere umano. «Ciò che conta per noi è l’uomo, ogni uomo, ogni gruppo d’uomini, fino a comprendere l’umanità intera»1. La connotazione essenziale di uno sviluppo “autentico” è che esso deve essere “integrale”, in quanto deve promuovere il bene di ogni persona nella sua totalità, cioè in ogni sua dimensione2. Pertanto, la cura e l’assistenza in campo sanitario, così come lo sviluppo, devono essere orientati allo stato spirituale della persona, oltre che ai fattori fisici, emotivi, economici e sociali che influiscono sul suo benessere.
2. In secondo luogo, Signor Presidente, guardando a quanto viene fatto per un miglioramento dello stato di salute lungo il corso della vita, constatiamo come si stiano facendo sforzi per salvare milioni di donne e bambini che continuano a morire ogni anno per condizioni che si potrebbero facilmente prevenire con le strutture mediche esistenti.
La Risoluzione EB132.R4, tra le altre, esorta gli Stati membri a migliorare la qualità, la fornitura e l’uso di 13 “prodotti salvavita”. La Santa Sede condivide appieno l’obiettivo di ridurre ulteriormente la perdita di vite umane e quello della prevenzione delle malattie, attraverso un maggiore accesso a interventi economici che siano rispettosi della vita e della dignità delle madri e dei bambini, in tutte le fasi della vita, dal concepimento alla morte naturale.
A questo proposito, la delegazione della Santa Sede desidera esprimere le proprie preoccupazioni riguardo il Rapporto del Segretariato e la Risoluzione proposta dal Comitato Esecutivo, di promuovere l’attuazione delle raccomandazioni della Commissione sui prodotti salvavita per le donne e i bambini. Mentre, infatti, alcune di queste raccomandazioni sono veramente dei salvavita, quella della “contraccezione d’emergenza” difficilmente potrebbe essere considerata tale, in quanto è ben noto che, quando il concepimento è già avvenuto, alcune sostanze utilizzate nella “contraccezione d’emergenza” producono un effetto abortivo. Per la mia delegazione, è del tutto inaccettabile fare riferimento a un prodotto medico che costituisce un attacco diretto alla vita del bambino in utero come ad un “prodotto salvavita” e, peggio ancora, incoraggiare “un maggiore uso di tali sostanze in tutte le parti del mondo”.
3. Terzo, Signor Presidente, visto il considerevole impatto delle malattie non trasmissibili sulla morbilità e sulla mortalità in ogni parte del mondo, la delegazione della Santa Sede accoglie favorevolmente la proposta di un Piano d’Azione Globale per il controllo delle malattie non trasmissibili 2013-2020 (A66/9). Inoltre, ci colpisce favorevolmente il fatto che il piano riconosca il ruolo fondamentale della società civile, comprese le organizzazioni confessionali, nella mobilitazione e nel coinvolgimento delle famiglie e della comunità per la prevenzione e la cura di tali malattie, prima che possano portare a patologie debilitanti o a morte prematura. La nostra delegazione è consapevole che le organizzazioni e le istituzioni a matrice cattolica, in tutto il mondo, si sono già impegnate ad intraprendere tali azioni a livello globale, regionale e locale.
Riguardo la Risoluzione WHA65.3 sul rafforzamento delle politiche mirate alle malattie non trasmissibili per la promozione dell’invecchiamento attivo, la Santa Sede desidera partecipare ad esplorare i vari aspetti della prevenzione e del controllo delle malattie non trasmissibili in età avanzata. Sono già migliaia nel mondo le istituzioni confessionali che offrono servizi di assistenza agli anziani, e che sono in aumento a causa dell’invecchiamento della popolazione. Il nostro umile contributo a questa azione verrà anche dalla Conferenza Internazionale che si terrà in Vaticano dal 21 al 23 novembre 2013 e che verterà sul tema: «La Chiesa al servizio della persona malata anziana: la cura delle persone affette da patologie neuro-degenerative».
4. Per concludere, Signor Presidente, la nostra delegazione vuole dare il proprio sostegno al Progetto del piano d’azione per la prevenzione della disabilità visiva 2014-2019 (A66/11) e alla relativa risoluzione EB132.R1 per l’approvazione del piano d’azione per la “salute universale degli occhi”.
Grazie, Signor Presidente.

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Note
1 Paolo VI, Populorum progressio, n.14
Cfr. Benedetto XVI, Caritas in Veritate, nn.11, 18
 (Fonte: Zenit.org)

8. Tumori: due nuovi studi dimostrano che c’è poca chiarezza sulle cure palliative

23 maggio 2013

Secondo due studi americani indipendenti, la maggioranza delle persone con una neoplasia incurabile sottoposte a chemioterapia o a radioterapia a scopo palliativo, è convinta di effettuare una terapia attiva in grado di modificare il decorso della malattia.
Nel primo studio, apparso su MEJM, è stata condotta un’indagine chiedendo a più di mille persone con tumore polmonare o del colon metastatico, quattro mesi dopo la diagnosi, di dire quale fosse il grado di veridicità di tre affermazioni riguardo lo scopo della chemioterapia a cui erano stati sottoposti. I risultati hanno rilevato che l’80% dei malati di tumore del colon e il 69% di quelli con tumore polmonare erano convinti che la chemioterapia avesse curato la neoplasia.
Nel secondo studio, presentato al meeting annuale dell’American Society for Radiation Oncology, le stesse domande sono state rivolte a quasi quattrocento malati con tumore polmonare in fase avanzata (stadio IIIb e IV) sottoposti non a chemioterapia, ma a radioterapia palliativa. Le risposte raccolte rivelano un atteggiamento analogo: il 64% dei malati era convinto che si fosse trattato di una terapia attiva in grado di modificare il decorso della malattia, un risultato che ha sorpreso gli stessi autori. In precedenza, in realtà, già altri studi avevano indagato la stessa questione e solo un terzo dei malati intervistati non aveva capito i veri scopi delle cure palliativa. In quei casi si trattava, tuttavia, di ricerche a cui avevano preso parte poche centinai di pazienti.
Gli studi hanno inoltre raccolto persone di età differenti dai 21 agli 80 anni  e appartenenti a gruppi etnici diversi. Gli individui di pelle scura e di origine ispanica, a parità di scolarità e di classe sociale, sono, ad esempio, coloro che più frequentemente avevano interpretato erroneamente lo scopo dei trattamenti.
Ai partecipanti è stato anche chiesto un giudizio sulla qualità della comunicazione con il medico: a non aver compreso il vero scopo delle terapie sono proprio i malati che definivano ottimali i colloqui con il personale sanitario.
«Le conseguenze sono gravi sia per il paziente sia per il sistema sanitario», ha spiegato Jane Weeks, uno degli autori di entrambe le ricerche. «Se il malato non conosce con precisione lo scopo delle cure, non è in grado di valutare correttamente il peso degli effetti collaterali e quindi di decidere in modo consapevole il proprio futuro. Inoltre, in molti sistemi sanitari il suo giudizio sulla capacità di comunicazione del medico viene utilizzato come sistema premiante per incentivare alcuni professionisti. Dobbiamo quindi spiegare ai medici che una comunicazione onesta è la strada migliore per costruire una relazione virtuosa tra malato e sistema sanitario, per aiutarsi a vicenda a comunicare in modo gentile ed efficace».
(Fonte: Scienzainrete)
(Approfondimenti:
http://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMoa1204410;  http://www.redjournal.org/article/S0360-3016(12)00954-6/fulltext)

9. Per la famiglia un milione in piazza

26 maggio 2013

Alla fine gli organizzatori hanno parlato di un milione di persone. Ma anche questa volta c’è stato il solito balletto delle cifre con la prefettura che parla di soli 150 mila partecipanti. Cifre ufficiali a parte, sta di fatto che sono stati tanti i francesi che il 26 maggio sono di nuovo scesi in piazza per protestare contro la legge Taubira, approvata definitivamente il 18 maggio e che apre il matrimonio e l’adozione alle coppie omosessuali.
Alla vigilia della manifestazione c’erano stati dei segnali di allarme che avevano fatto salire la tensione, come il suicidio dello scrittore di destra nella cattedrale di Notre-Dame e le continue minacce che una delle portavoce della Manif pour Tous, Frigide Barjot, aveva ricevuto da gruppi radicali dell’estrema destra che le hanno poi impedito di partecipare alla manifestazione. Un appello alla pace sociale era stato rivolto dal cardinale André Vingt-Trois, arcivescovo di Parigi, che aveva chiesto ai partecipanti di «astenersi da qualsiasi forma di violenza, non soltanto nei gesti, ma anche nelle parole. Chiedo di essere testimoni della pace e della vita».
Parigi ha seguito la manifestazione con grande preoccupazione: 56 sono stati gli arresti, tutti attivisti dell’estrema destra che, come era successo all’ultima manifestazione, anche questa volta hanno cercato di accedere con forza all’avenue des Champs-Elysées.
A parte però questi fatti, si può dire che tutto alla fine si è svolto in un’atmosfera calma, distesa e determinata. Della legge – dicono i manifestanti – preoccupano soprattutto le conseguenze sulla filiazione e l’accesso che prima o poi si dovrà prevedere per le coppie gay alle tecniche di fecondazione assistita o alla gestazione per altri. «Non siamo né un movimento politico, né un movimento confessionale, né una coalizione di omofobi», ha detto dal palco la presidente della Manif, Ludovine de la Rochère. «I nostri avversari hanno fatto di tutto per farlo credere. Ma hanno fallito perché è sotto gli occhi di tutti che la nostra causa è aperta a tutti coloro che hanno a cuore il diritto e il benessere dei bambini».
La Manif pour tous – ha continuato la Rochère – «è il più grande movimento sociale che la Francia abbia mai conosciuto dal ‘68. Siamo una forza sociale, potente, determinata, organizzata». E dal palco un annuncio: «Proseguiremo la nostra lotta». Altre azioni saranno organizzate. Tre – ha detto la presidente – gli obiettivi principali: l’abolizione della legge Toubira, a partire dalle sue conseguenze immediate come la procreazione medicalmente assistita e la Gpa (gestazione per altri); il sostegno ai sindaci, agli eletti, alla società civile, a «tutti coloro che si battono contro il mariage pour tous»; e infine, l’impegno a far «riconoscere la realtà dell’essere umano uomo e donna».
L’episcopato francese ha sempre mantenuto un rapporto molto equilibrato verso le manifestazioni della Manif pour tous, ben sapendo le diversità di opinione che esistono anche tra i cattolici di Francia. Alla vigilia della manifestazione, l’arcivescovo di Parigi, in un’intervista alla radio diocesana, è tornato a ribadire l’importanza per i cittadini di esprimere il loro disaccordo con la legge, ma ha posto un interrogativo: «Come investire positivamente tutta la generosità che si è manifestata nei mesi scorsi per generare un lavoro ed un impegno per la qualità della vita familiare?».
(Fonte: Sir)

10. Global warming: nuovo studio su consenso scientifico e opinione pubblica

28 maggio 2013

Il tema del consenso sui cambiamenti climatici è annoso. Da anni si discute, a livello internazionale, se l’atmosfera terrestre si stia davvero surriscaldando e se l’aumento della temperatura sia dovuto alle attività umane (ovvero l’emissione in atmosfera di gas serra come anidride carbonica e metano principalmente prodotti dallo sfruttamento di combustibili fossili come petrolio, gas e carbone). Le prove che il mondo scientifico sia ormai compatto nel riconoscere il fenomeno si sono moltiplicate con il passare degli anni.
Uno degli studi più ampi sul tema è stato recentemente condotto da un team internazionale di ricercatori statunitensi, britannici, canadesi e australiani, e pubblicato a maggio su «Environmental Research Letters». I risultati hanno dimostrato che su un campione di circa 12 mila articoli pubblicati da 1.980 riviste peer-review dal 1991 al 2012, la percentuale di consenso è tra il 97 e il 98%. Gli autori hanno osservato anche che il consenso scientifico sulle cause antropogeniche del global warming sia costantemente cresciuto dal 1996 ad oggi. Ciononostante, in Paesi come gli Stati Uniti, uno dei principali produttori di CO2, l’opinione pubblica è ancora divisa. Un recente sondaggio del Pew Research Center ha mostrato che solo il 45% degli statunitensi crede che gli scienziati siano d’accordo sul fatto che la terra si stia riscaldando a causa delle attività umane.
Gli Stati Uniti sono il Paese in cui il dibattito tra scienziati e negazionisti ha raggiunto il livello di una battaglia politica, come ha raccontato, tra gli altri, il climatologo Michael Mann nel suo libro autobiografico «The Honey Stick and the Climate Wars». Ma il resto del mondo non è immune, nemmeno l’Italia, come dimostra il costante monitoraggio del sito climalteranti.it.

Secondo gli autori dello studio pubblicato su «Environmental Research Letters», la causa del “consensus gap” sono campagne mirate a confondere l’opinione pubblica, come quella della Western Fuel Association, che nel 1991 ha speso 510 mila dollari per «ricollocare il global warming al grado di una teoria, non di un fatto». La situazione, aggiungono i ricercatori, viene esacerbata dal modo in cui i mezzi di inmazione affrontano la questione dei cambiamenti climatici: la prassi di dare lo stesso peso a visioni opposte ha permesso ad una minoranza negazionista di amplificare la portata delle proprie posizioni.

(Fonte: Scienzainrete)
(
Approfondimenti: http://iopscience.iop.org/1748-9326/8/2/024024;
http://www.pewresearch.org/2013/04/02/climate-change-key-data-points-from-pew-research
http://www.climalteranti.it

11. Rapporto dell’Agenzia europea delle droghe: meno eroina, più sostanze psicoattive

28 maggio 2013

Un bilancio in chiaroscuro. Il rapporto annuale dell’Agenzia europea delle droghe (Emcdda) rileva infatti che il problema della diffusione e del consumo di sostanze stupefacenti è «in continua evoluzione» e «nuove minacce emergenti mettono in discussione i modelli e le prassi correnti». Nel rapporto 2013, diffuso il 28 maggio dalla sede di Lisbona, l’Agenzia descrive «sviluppi positivi» per quanto riguarda le droghe «più consolidate, tra cui un minor numero di nuovi consumatori di eroina, meno consumo per via parenterale e una riduzione dell’uso di cannabis e della cocaina in alcuni Paesi».

Questi dati positivi sono «però controbilanciati da timori sugli stimolanti sintetici e su nuove sostanze psicoattive», entrambi offerti sul mercato delle cosiddette “droghe legali” e di quelle illegali. L’Agenzia segnala un maggior ricorso delle persone dipendenti da eroina alle strutture pubbliche di cura e sostegno in vari Stati; ma, «dato il gran numero di consumatori di sostanze stupefacenti in contatto con i servizi, diventa sempre più necessario garantire continuità all’assistenza e al reinserimento sociale». Fra i problemi rilevati compare «l’esigenza di investire in nuovi interventi, come per esempio quelli concepiti per il trattamento dell’epatite C e la prevenzione delle overdose».

(Fonte: Sir
(Approfondimenti: http://www.emcdda.europa.eu/edr2013)

12. Curarsi sul web, i rischi del fai da te

30 maggio 2013

Un’indagine condotta in dieci Paesi diversi dal network PriceWaterhouseCoopers, al centro di un Forum organizzato dalla Federazione delle aziende sanitarie e ospedaliere italiane, ha rivelato che oltre metà dei pazienti, cioè il 59 per cento, ricorre, per informazioni su malattie, cure, trattamenti alle applicazioni web e smartphone, in alternativa alla tradizionale visita del medico.

Il 43 per cento dei pazienti si rivolge ai nuovi media per contattare direttamente specialisti e istituzioni sanitarie. Non che ci si aspettasse niente di diverso. Un recente studio condotto da Google ha rilevato infatti che l’84% degli intervistati utilizza sia fonti online che offline per farsi un’idea delle strutture, il 77% fa ricorso a motori di ricerca, il 76 per cento ha navigato sul sito web di un luogo di cura, il 52 per cento è entrato in siti informativi dedicati alla salute. Soltanto il 49 per cento ricorre al consiglio del medico di fiducia, che sembra stia perdendo terreno come consulente propositivo e partecipe. Insomma, il fenomeno del ricorso a mezzi elettronici per accedere ad informazioni di pertinenza medica sta assumendo dimensioni colossali. Tali da configurare, per il futuro, uno scenario in cui la cosiddetta e-medicina acquisterà spazi crescenti nella diffusione di informazioni e servizi relativi alla salute.

Una parte del mondo medico per la verità, non esulta di fronte a questi dati e alle possibilità offerte dalle nuove tecnologie. Solo poco più di un quarto incoraggia i propri pazienti a ricorrervi. D’altra parte è facile comprendere la cautela di coloro che guardano ai problemi sollevati dal boom della ricerca d’informazioni sulla salute tramite Internet. La Rete, si sa, è un’immensa foresta in cui i non addetti ai lavori corrono il rischio di smarrirsi o di non riuscire ad orientarsi di fronte all’enorme disponibilità d’informazioni. Il pericolo è ricevere informazioni non chiare, non corrette e contraddittorie e, comunque, tali da non aiutare il paziente a partecipare consapevolmente alle scelte di trattamento e di cura.

Ma come valutare l’importanza, l’affidabilità, la correttezza di un’informazione sulla salute? Come distinguere i risultati di una ricerca «seria»? Sorprendentemente – stando ai dati – i più preoccupati dei rischi collegati alla e-medicina sono i giovani medici, il 53% per cento dei quali ha il timore di perdere il contatto con i pazienti.

Eppure nell’età di Internet – sostengono molti professionisti, esperti di sanità, di comunicazione e di divulgazione scientifica, sociologi, eticisti – si apre per medici e pazienti la possibilità di rinsaldare e rinnovare quel rapporto – volontario, privato e confidenziale – che è andato trasformandosi, da Ippocrate in poi, nell’impersonale socializzazione della medicina. L’accesso generalizzato alle informazioni mediche di salute, non può che correggere, sostengono, la tradizionale asimmetria del rapporto medico-paziente, non più privo delle conoscenze tecniche sulla malattia, tradizionalmente detenute solo dal «curante», cosa che ha alimentato il paternalismo medico e impedito, per secoli, una comunicazione paritaria ed un’analisi comune delle possibilità terapeutiche e delle prospettive di guarigione. La responsabilità della conoscenza non apparterrà solo al medico, unico arbitro del rapporto terapeutico; mentre le decisioni da assumere, condivise, potranno rispondere, per una via diversa, al celebre dettato ippocratico: «Si opponga alla malattia il malato assieme con il medico».

(Fonte: La Stampa) 
(Approfondimenti: http://iniziative.forumpa.it/expo13/officine/web-20-salute-etica-e-tecnica)

13. Rapporto Unicef 2013 su bambini e disabilità

30 maggio 2013

«Secondo la stima più diffusa circa 93 milioni di bambini, 1 su 20 di quelli al di sotto dei 14 anni, convivono con una disabilità moderata o grave e, nei Paesi in via di sviluppo, i bambini con disabilità sono gli ultimi tra gli ultimi». Lo ha detto Giacomo Guerrera, presidente Unicef Italia, in occasione del lancio del Rapporto «La condizione dell’infanzia nel mondo 2013-bambini e disabilità», presentato il 30 maggio a Roma e in contemporanea in tutto il mondo. «Si stima che circa 165 milioni di bambini sotto i 5 anni abbiano un ritardo nella crescita o siano cronicamente malnutriti – ha sottolineato Guerrera – vale a dire circa il 28% dei bambini sotto i cinque anni nei Paesi a basso e medio reddito, mettendoli a serio rischio di disabilità».

Nel rapporto si sottolinea, inoltre, l’importanza di «promuovere uguaglianza e inclusione sociale» e in questo «lo sport rappresenta uno strumento potente, ecco perché abbiamo scelto la sede del Coni per presentare questo report», ha rilevato il presidente Unicef Italia. «Una maggiore interazione tra sport e ciò che devono essere le politiche sulla disabilità è, infatti, un buon punto di partenza», ha sottolineato Luca Pancalli, presidente Comitato italiano paraolimpico. «Sport visto, però, come straordinario strumento politico e non di competizione, attraverso il quale contrastare l’invisibilità sociale della disabilità», ha rincalzato Pancalli.

«In Italia, l’impegno per l’inclusione dei più deboli deve essere coerente e di lunga lena, perché non lasciarli indietro è un interesse che riguarda anzitutto la loro dignità ma coinvolge, allo stesso tempo, il bene di tutto il Paese», ha sottolineato il presidente del Consiglio, Enrico Letta, il quale ha voluto far recapitare un messaggio. A riguardo, anche il ministro degli Affari Esteri, Emma Bonino, ha inviato il proprio sostegno evidenziando che «gli impegni assunti dalla Cooperazione italiana nel settore vanno di pari passo con una nuova strategia nei confronti della disabilità, non più legata all’idea di un’assistenza passiva ma ai concetti di inclusione, coinvolgimento e partecipazione». Si tratta di adottare «una metodologia di tipo partecipativo – ha continuato il ministro – la quale prevede il coinvolgimento della comunità di appartenenza, delle istituzioni centrali e locali e della società civile attraverso un approccio multidisciplinare e intersettoriale».

(Fonte: Sir)
(Approfondimenti: http://www.unicef.it/Allegati/Rapporto%20UNICEF%202013.pdf)

14. World No Tobacco Day: lotta alla pubblicità e alle sponsorizzazioni delle industrie del tabacco

31 maggio 2013

Eliminare la pubblicità, la promozione e la sponsorizzazione dei prodotti del tabacco è il tema dell’edizione 2013 del World No Tobacco Day. Questo obiettivo rientra in quelli definiti nella Convenzione Quadro per il controllo del tabacco (Who Framework Convention for Tobacco Control, Who Fctc) e in particolare coincide con l’implementazione dell’articolo 13 che impone a tutti gli Stati membri firmatari la piena abolizione entro 5 anni dalla loro adesione alla Convenzione.

È ormai provato, infatti, che abolendo qualsiasi forma di pubblicitaria dei prodotti del tabacco si contiene sia l’iniziazione al fumo sia il mantenimento dell’abitudine. In questo senso, il World No Tobacco Day 2013 mira a proteggere le generazioni attuali e future non solo dalle conseguenze del fumo sulla salute, ma anche dalle sue conseguenze negative sul piano sociale, ambientale ed economico. Il raggiungimento di questo obiettivo si declina su 4 fronti, contrastando:

– i messaggi illusori e fuorvianti delle campagne promosse dall’industria del tabacco
– l’esposizione dei giovani ai prodotti del tabacco
– la mancanza di autodisciplina/autoregolazione da parte dell’industria del tabacco
– l’inefficacia delle abolizioni parziali.

Tuttavia, anche se l’eliminazione delle attività promozionali è tra gli interventi di contrasto al fumo con il migliore rapporto costi/benefici, solo il 6% della popolazione mondiale è completamente protetto su questo fronte e in molte nazioni non sono ancora stati adottati provvedimenti adeguati. Secondo i dati dell’Oms, il consumo di prodotti del tabacco continua quindi a essere responsabile, a vario titolo, di una quota significativa della mortalità nel mondo: secondo le stime più recenti un decesso su dieci tra gli adulti, pari a circa 6 milioni di persone all’anno, 600 mila dei quali fumatori passivi. Senza azioni mirate questo numero è destinato a crescere, con stime che prevedono circa 8 milioni di decessi nel 2030 (l’80% dei quali tra la popolazione dei Paesi a reddito medio o basso).

Ancora una volta i dati dimostrano (e i temi scelti dalle ultime edizioni dei World No Tobacco Day lo sottolineano) come il problema del fumo si sta sempre più spostando da una questione individuale, da gestire come scelta più o meno consapevole del cittadino e consumatore o nel rapporto medico-paziente, a un determinante di salute della popolazione, da affrontare con politiche sanitarie coordinate.

La situazione in Italia

Osservando l’abitudine al fumo in una prospettiva di lungo periodo, è motivo di soddisfazione e di speranza constatare che ormai da parecchi anni continua a scendere la prevalenza dei fumatori italiani. D’altra parte, sono fonte di preoccupazione alcune categorie di fumatori, come le donne e i giovani, in cui il declino è meno marcato o l’andamento è, o è stato fino a pochissimi anni fa, in controtendenza.

Fotografando un intervallo temporale più ristretto e prossimo, il quadriennio 2009-2012, il sistema di sorveglianza Passi mostra che in Italia fuma poco più del 28% delle persone di 18-69 anni, non ha mai fumato il 53% circa ed ha smesso il 19%. In un quadro di lento ma costante declino dell’abitudine, si confermano le differenze su base geografica (si fuma di più al Centro-Sud che al Nord) e socio-economica (fumano di più le categorie svantaggiate). Quanto al fumo passivo, mentre il divieto di fumo nei locali pubblici e nei luoghi di lavoro è rispettato da 9 persone su 10, la sensibilità all’esposizione in ambiente domestico è ancora migliorabile (il fumo è ammesso nel 24% delle abitazioni e comunque nel 16% di quelle in cui vivono minori). Incoraggiante comunque che le case smoke-free sono in aumento. I buoni propositi non mancano (4 italiani su 10, per quasi la metà giovani, dichiarano un tentativo di cessazione nei 4 anni di indagine), ma pochi vanno a buon fine (solo 2 su 10). Secondo i dati Passi sui tentativi di cessazione, il successo non sembra dipendere dall’aiuto di prodotti nicotinici (poco adoperati sia da chi riesce sia da chi non riesce a fare a meno della sigaretta).

Secondo i dati riportati dal  ministero della Salute, si stima che siano attribuibili al fumo di tabacco in Italia dalle 70.000 alle 83.000 morti l’anno. Oltre il 25% di questi decessi è compreso tra i 35 ed i 65 anni di età, per cui il fumo rappresenta la prima causa di mortalità precoce e di anni di vita persi in buona salute, pur essendo, in Italia come in tutto l’Occidente, la prima causa di morte prevenibile.

Per quanto riguarda il tumore del polmone, questa neoplasia è responsabile di circa 33.000 morti in Italia nel 2009, ovvero di 4 su 10 decessi per cancro tra gli uomini e di 1 su 10 tra le donne. I numeri assoluti sono sfavorevoli al sesso maschile ma l’andamento è a svantaggio di quello femminile, dove la mortalità risulta in crescita.

Questi numeri da soli giustificano il fatto che il contrasto al fumo sia una assoluta priorità di salute e sottolineano la necessità di azioni mirate a specifiche categorie, come le donne, al momento meno allineate rispetto alla cultura emergente di rifiuto del fumo e sempre più colpite dalle conseguenze di una scelta non salutare.

Se lo conosci, lo contrasti

Il contrasto al fumo presuppone una conoscenza profonda dei meccanismi biologici e delle dinamiche relazionali che lo sostengono: suscettibilità genetica, dipendenza, influenze ambientali, credenze normative, sono concetti solo apparentemente distanti tra loro che concorrono a spiegare la diversa predisposizione di ciascuno alla cessazione e al mantenimento dell’abitudine al fumo.

Gli studi sui gemelli indicano che l’influenza genetica spiega da sola il 60-70% della variabilità nell’iniziazione e nel mantenimento della dipendenza, i cui complessi meccanismi a livello del sistema nervoso centrale si vanno chiarendo progressivamente. Genetica e ambiente si combinano anche nel determinare la predisposizione individuale alle infezioni respiratorie associate all’esposizione al fumo passivo.

Genetica, ma soprattutto ambiente sono i motori dell’iniziazione al fumo in adolescenza. Questa fase della vita è cruciale per scrivere il destino di un fumatore, come ormai dimostrato dall’ampia e preziosa messe di dati e informazioni raccolte con le ricerche epidemiologiche e con le iniziative di contrasto al fumo nazionali e internazionali.

Le influenze normative (un termine che traduce quasi letteralmente quello britannico di normative belief per ricomprendere l’insieme delle pressioni esterne che influenzano le scelte del giovane sul fumo, dall’esempio familiare all’emulazione tra pari, fino ai modelli, mediatici, sportivi e cinematografici) sembrano schiaccianti in adolescenza. Tuttavia è bene saper che queste influenze rendono difficili le azioni dl contrasto al fumo tra le giovani generazioni ma non impossibili, come indica una  revisione Cochrane sugli interventi scolastici pubblicata nel 2013.

(Fonte: EpiCentro)
(Approfondimenti: http://www.epicentro.iss.it/approfondimenti/2013/WTD2013.asp)

© Bioetica News Torino, Giugno 2013 - Riproduzione Vietata