1. Cresce impatto disturbi mentali e abuso di sostanze
3 settembre 2013
I risultati dell’indagine «Global burden of disease 2010» pubblicati su «Lancet» del 29 agosto 2013 mostrano l’impressionante impatto dei disturbi mentali e delle dipendenze sulla salute pubblica.
Già il primo studio «Global burden of disease» (Gbd) del 1990 aveva mostrato come 5 delle 10 maggiori cause di disabilità fossero disordini neuropsichiatrici, in particolare la depressione. Il Gbd 2010 è frutto di una collaborazione del Queensland Centre for Mental Health Research guidato dal Prof. Harvey A. Whiteford con altri istituti australiani e l’università di Dresda in Germania, di Toronto in Canada, e di Washington negli Stati Uniti. Esso espande a 20 il numero di disturbi mentali e di abuso di sostanze presi in esame, in una revisione sistematica di dati epidemiologici di 291 cause, 20 gruppi d’età d’entrambi i sessi e 187 Paesi in 21 regioni mondiali.
I risultati mostrano come tali disturbi causino 183,9 milioni di Disability-adjusted life years (DALYs), il 7,4 % del totale. Gli anni di vita persi per mortalità prematura (YLLs) sono 8,6 milioni e gli anni vissuti con disabilità (YLDs) 175,3 milioni. In particolare con il 22,6 % del totale i disturbi mentali e di abuso di sostanze costituiscono la prima causa al mondo di YLDs. La depressione si conferma come causa principale (40,5 %), seguita dai disturbi ansiosi (14,6 %), abuso di droghe (10,9 %) e di alcol (9,6 %), schizofrenia (7,4 %), disturbi pervasivi dello sviluppo (4,2 %), disturbi comportamentali infantili (3,4 %) e disturbi del comportamento alimentare (1,2 %), i quali tuttavia presentano la più ampia variabilità regionale. L’età più colpita risulta essere quella tra i 10 e i 29 anni.
Importante notare l’aumento del burden del 37,6 % rispetto al Gbd 1990, che tuttavia per la maggior parte dei disturbi è dovuto all’invecchiamento e alla crescita della popolazione, in particolare nei Paesi in via di sviluppo. «Un miglioramento della salute della popolazione è possibile solo quando la prevenzione dei disturbi mentali e delle dipendenza diventerà per tutti i Paesi una priorità nelle salute pubblica», conclude Whiteford.
(Fonte: Doctor 33)
(Approfondimenti: http://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736%2813%2961611-6/abstract)
2. Aborti selettivi, in Gran Bretagna esplode il caso
6 settembre 2013
Due medici sono stati filmati nel Regno Unito mentre prendevano accordi con i loro pazienti per effettuare aborti selettivi in base al sesso del feto, ma non saranno perseguiti dalla legge. L’aborto selettivo è illegale nel Regno Unito, ma in questo caso il procuratore della Corona ha stabilito che mandare in prigione i due medici, uno di Birmingham e uno di Manchester, non sarebbe «nell’interesse comune». La decisione della Procura ha scatenato polemiche anche perché il filmato, girato da due giornalisti in incognito del “Daily Telegraph”, mostra chiaramente i due medici accordarsi con le pazienti. E ha provocato le critiche del ministro della Sanità Jeremy Hunt, che ha chiesto «più chiarezza».
«È molto preoccupante – ha dichiarato il 5 settembre Hunt – la decisione presa dal procuratore generale di non agire contro i due medici perché non sarebbe “nel pubblico interesse”». Gli aborti selettivi motivati dal sesso del feto – ha continuato il ministro – «sono completamente inaccettabili». E non si capisce perché, gli ha fatto eco Paul Tully della Società del bambino non nato (Spuc), «non sarebbe nell’interesse del pubblico perseguire un medico che ha accettato di uccidere un bambino, sotto pagamento, perché era del “sesso sbagliato”».
È da tempo che le autorità cercano di fermare la piaga degli aborti selettivi tra le comunità che favoriscono per motivi, spesso puramente “culturali”, il primogenito maschio. «Questa era l’occasione perfetta per portare davanti alla giustizia le persone che accettano di commettere atti così atroci – ha concluso Tully – e ancora una volta ce la siamo fatta scappare». L’aborto selettivo è pratica comune in Gran Bretagna soprattutto tra le comunità indiane, cinesi e pachistane che “prediligono” il primogenito maschio. Diversi ospedali britannici, in zone ad alto livello di immigrazione, non accettano di rivelare ai genitori il sesso del nascituro proprio per paura che questi chiedano di abortire se il feto è una bambina.
Elisabetta Del Soldato
(Fonte: «Avvenire»)
3. Sigaretta elettronica: per smettere di fumare inefficace come cerotti alla nicotina
9 settembre 2013
I fumatori che passano alle sigarette elettroniche per cercare di smettere hanno la stessa probabilità di successo di chi ricorre ai cerotti alla nicotina, ma la riuscita rimane modesta per entrambe le tecniche. È la conclusione di uno studio neozelandese, pubblicato sulla prestigiosa rivista medica «The Lancet», il primo a mettere a confronto le e-sigarette – tubetti di plastica che riscaldano un liquido creando un vapore inalabile – e i cerotti che rilasciano nicotina, valutando gli effetti sulla salute in un ampio gruppo di soggetti, nella vita reale. La sigaretta elettronica è risultata inoltre più efficace nel ridurre il consumo di sigarette al tabacco.
Guidati da Chris Bullen, direttore del National Institute for Health Innovation dell’Università di Auckland, i ricercatori hanno selezionato 657 fumatori e fumatrici intenzionati a smettere, dividendoli in tre gruppi: 292 hanno ricevuto una fornitura di 13 settimane di e-sigarette con ricariche contenenti fino a 16 mg di nicotina per ml, altri 292 hanno ricevuto un’analoga fornitura di cerotti alla nicotina di un tipo di cui erano noti sicurezza ed efficacia, e i restanti 73 hanno ricevuto e-sigarette placebo, cioè prive di nicotina. I due gruppi dotati di sigarette elettroniche ignoravano la quantità e/o la presenza di nicotina nelle ricariche ricevute.
Alla fine delle 13 settimane, e dopo tre mesi di follow up, i volontari sono stati sottoposti a test per stabilire se erano riusciti ad astenersi dal fumo: è così emerso che al termine dei sei mesi complessivi dello studio solo il 5,7 per cento aveva smesso completamente. La percentuale di successi è risultata più alta nel gruppo delle e-sigarette (7,3 per cento), rispetto al 5,8 per cento del gruppo dei cerotti alla nicotina e al 4,1 per cento del gruppo delle e-sigarette placebo.
Lo studio è anche il primo a valutare se vi siano effetti nocivi per la salute con l’utilizzo di e-sigarette in un ampio gruppo di persone, e in situazioni di vita reale anziché di laboratorio. Confrontando gli utilizzatori delle e-sigarette e quelli dei cerotti, la ricerca non ha trovato differenze nei tassi di eventi avversi, il che suggerisce che l’e-sigarette sono paragonabili ai cerotti anche in termini di sicurezza.
Non sono tuttavia chiari gli effetti di lungo termine, una questione emersa entro l’Unione Europea, che considera di includerle come prodotti medicinali. Alcuni esperti temono che le e-sigarette, sempre più popolari fra i più giovani, possano essere una porta d’ingresso alla dipendenza da nicotina e quindi al fumo di tabacco, mentre altri le vedono come il metodo più utile per ridurre il fumo e aiutare chi vuole smettere.
(Fonte: «Il Fatto Quotidiano»)
(Approfondimenti: http://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736%2813%2961842-5/abstract)
4. Usa, infezioni ospedaliere più diffuse costano 10 miliardi di dollari l’anno
11 settembre 2013
Da sole, le cinque principali infezioni correlate all’assistenza sanitaria in ospedale (Hai, nella sigla inglese per Hospital-acquired infections) comportano negli Stati Uniti un costo annuo che sfiora i 10 miliardi di dollari, e le più costose risultano essere quelle del sito chirurgico: la stima proviene da uno studio pubblicato sulla rivista «Jama internal medicine» da un gruppo diretto da Eyal Zimlichman, internista al Center for patient safety research and practice della Harvard medical school. «Non solo le infezioni ospedaliere sono tra le fonti più comuni di danno evitabile, ma rappresentano anche una grave minaccia per la sicurezza del paziente, nonché un importante problema di salute pubblica», premette Zimlichman, che ha voluto fornire anche una migliore valutazione del loro impatto in termini finanziari, per aiutare chi offre o acquista prestazioni sanitarie a tenerne conto per valutare la convenienza degli investimenti sulla prevenzione.
I ricercatori hanno raccolto gli studi pubblicati sull’argomento tra il 1986 e il 2013, usando la Rete nazionale per la sicurezza sanitaria dei Centers for disease control and prevention (Cdc). Le infezioni dei cateteri delle vene centrali sono risultate le più onerose, con ogni caso che genera costi per circa 46.000 dollari. Seguono la polmonite associata alla ventilazione con oltre 40.000 dollari, le infezioni del sito chirurgico, 20.785 dollari, le infezioni da Clostridium difficile, 11.285 dollari, e quelle da catetere urinario, 896 dollari. «A conti fatti la spesa annuale globale per le cinque Hai ammonta a quasi 10 miliardi dollari, con le infezioni del sito chirurgico che più contribuiscono al totale dei costi (33,7% del totale), seguite dalla polmonite associata a ventilazione (31,6%), dalle infezioni del catetere centrale (18,9%), da quelle da C. difficile (15,4%) e da catetere urinario (<1%)» riepiloga Zimlichman.
«Le iniziative di miglioramento della qualità delle cure hanno ridotto l’incidenza e i costi delle Hai, ma molto rimane da fare. Fortunatamente gli ospedali si rendono ormai conto del risparmio derivato dalla prevenzione delle Hai, e sono più propensi a investire in tali strategie».
(Fonte: Doctor33)
(Approfondimenti: JAMA Intern Med. 2013 Sep 2. doi: 10.1001/jamainternmed.2013.9763; http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23999949)
5. Registrazione trial fa bene, ma la compliance rimane bassa
11 settembre 2013
Tecnicamente si chiama “publication bias”, e in concreto implica che, per quanto si faccia attenzione al rigore metodologico, non ci si può fidare fino in fondo di ciò che la letteratura medica riporta in tema di efficacia degli interventi sanitari, e in particolare dei farmaci: il sistema per ridurne gli effetti – che consiste semplicemente nella registrazione del trial clinico prima dell’avvio – si è da tempo dimostrato efficace, ma secondo uno studio quali-quantitativo da poco pubblicato sul «British medical journal» non è ancora stato adottato diffusamente.
«La base della medical evidence può essere distorta se i risultati di alcuni trial sono pubblicati ripetutamente, altri trial non sono pubblicati affatto o gli outcome dei trial sono pubblicati selettivamente», spiegano Elizabeth Wager e Peter Williams per conto del consorzio Open (una strana sigla sta per “Overcome failure to publish negative findings”, superare la mancata pubblicazione dei risultati negativi). «La registrazione dei trial è stata proposta fin dal 1986, ma le proposte sono state largamente ignorate fino al 2005, quando i membri dell’International Committee of Medical Journal Editors (Icmje) dichiararono che la registrazione era un requisito essenziale per la pubblicazione nelle loro riviste. Altre riviste mediche hanno da allora adottato politiche simili, ma di certo non tutti, e anche quelli che dicono di richiedere la registrazione dei trial non sempre lo fanno».
Di recente un’indagine sui trial randomizzati censiti da Medline ha rilevato che il 61% era registrato, ma solo il 55% degli articoli riportava il numero di registrazione: «Noi abbiamo voluto scoprire quale proporzione delle riviste impone la registrazione come condizione per la pubblicazione, o la incoraggia senza renderla obbligatoria, e perché lo fanno. E volevamo anche capire le ragioni per cui alcune riviste non richiedono la registrazione dei trial e quali altre misure impiegano per ridurre il publication bias» spiegano i due autori. «Per questo abbiamo condotto uno studio in due parti: la prima è stata un’analisi quantitativa di un campione di siti di riviste, e l’altra uno studio qualitativo sulla visione degli editor (la redazione) e dei publisher (l’editore/proprietario) in tema di registrazione dei trial e publication bias».
Partendo dal registro Cochrane dei trial controllati, Wager e Williams hanno dapprima individuato 3.512 riviste che pubblicano trial clinici, poi ne hanno estratte 200 con procedura randomizzata, quindi hanno contattato 31 persone – scelte nell’ambito delle riviste che presentavano diverse regole sull’argomento – per un colloquio semi-strutturato con un ricercatore.
Dalla prima analisi è emerso che appena 55 riviste su 200 (il 28%) richiede la registrazione per considerare la pubblicazione di un trial, mentre altre 3 riviste lo suggeriscono.
La conclusione dei ricercatori è scoraggiante: a dispetto delle numerosi dimostrazioni del fatto che questo obbligo di trasparenza mette a disposizione di ricercatori e medici informazioni spesso assai rilevanti per la salute dei pazienti, molti dei professionisti personalmente coinvolti nella pubblicazione dei risultati della ricerca biomedica sembrano continuare a vederlo più come un ostacolo che può scoraggiare le sottomissioni di trial, che finisce quindi per andare contro l’interesse della rivista.
(Fonte: Doctor33)
(Approfondimenti: http://www.bmj.com/content/347/bmj.f5248)
6. Come si fa a celebrare la Giornata contro il suicidio mentre lo si rivendica come un “diritto”?
11 settembre 2013
«Non si nasce perché vocati alla morte, ma perché vocati alla vita», scriveva Hannah Arendt che sembra però smentita da un dato sconcertante: il dilagare del suicidio, uno ogni 15 minuti negli Stati Uniti, più morti che per omicidi e guerre attualmente in atto sommati insieme, secondo la Associazione mondiale per la prevenzione del suicidio (Iasp). L’11 settembre si è celebrata in tutto il mondo la Giornata mondiale per la prevenzione del suicidio, una giornata contro la solitudine, contro un mondo che non è in grado di accompagnare chi è solo o di curare chi è depresso.
L’Organizzazione mondiale per la sanità (Oms) ha preso sul serio questa emergenza fino a promulgare nel 2008 delle linee-guida per i giornalisti per la prevenzione del suicidio, ove si legge: «Evitare un linguaggio che sensazionalizza o fa sembrare normale il suicidio o lo presenta come la soluzione ai problemi». E raccomanda di evitare eccessive descrizioni delle scene dei suicidi e in particolare di quelli di persone famose. Non sembra che queste raccomandazioni siano poi tanto seguite, e questo è un guaio, perché il suicidio è «contagioso» — come ben spiega l’ultimo numero della rivista dell’Associazione medica canadese — e per l’Oms è un male da combattere.
Ma è possibile che esista un male contro cui ci si arma per tutelare il singolo e la società, e al tempo stesso ci si adatti a dire che in fondo «è un atto nobile», «è un gesto libero»? Quando qualcuno reclama il suicidio come un diritto, la lotta a questo male subisce una terribile frenata. E allora si assiste al paradosso di chi nega che il suicidio sia un male sociale e una vittoria della solitudine per promuovere la legalizzazione del suicidio assistito, come se il primo interesse dei malati fosse morire e non essere curati meglio anche nel fine vita.
E i paladini della legalizzazione del suicidio assistito arrivano a spiegare che esiste un suicidio “di serie A”, che sono pronti ad autorizzare, e uno di “serie B” che invece sarebbe da prevenire. L’unica differenza tra i due è che nel primo caso le decisioni del suicida sono passate al vaglio di una commissione di esperti, mentre nel secondo si tratta di un atto isolato. Distinzione surrettizia, perché contraddice paradossalmente l’assunto dell’autodeterminazione che loro stessi mettono alla base della scelta suicida: perché il malato di tumore dovrebbe essere autorizzato a suicidarsi e l’imprenditore che ha perso tutto no? La logica che avanzano porta o a fare dei distinguo arbitrari o a permettere a tutti il suicidio, con l’unica clausola di averne sottoscritto l’atto di decisione.
Ma anche chi reclama il suicidio come diritto all’autodeterminazione non riesce fino in fondo a sostenere che una reazione di fuga sia davvero un gesto libero: oggi il suicidio è una patologia sociale in una società basata sul catastrofismo, che vede come unica via di uscita la censura e la fuga, mai l’affrontare il problema. Si è infatti diffuso a livello sociale quel ragionamento irrazionale («se questo accade, la vita non ha più senso», oppure «se questo accade, tutti mi odiano») che Albert Ellis, psicologo statunitense (1913-2007) poneva alla base di tante patologie mentali. Ma quella che era patologia del singolo ora è patologia sociale: viviamo in una società malata, la malattia è la disperazione e quando tutto appare nero le scelte non sono più libere.
D’altronde nella storia la teorizzazione del suicidio è quasi sempre legata a una visione nera della vita; questa può essere talora ammantata di nobiltà (basti pensare alla filosofia cinica) o addirittura di purezza religiosa (vedi il suicidio rituale degli eretici catari, che veniva predicato per sottrarsi alle incombenze della creazione considerata in toto negativa e malvagia), ma resta una visione buia. E non stupisce che in un momento di perdita di valori e di solitudine eretta a ideale, il suicidio torni a essere teorizzato. Dagli studi di Sigmund Freud fino alle recenti ricerche sulla depressione — vedi l’ultimo numero della rivista Depression and Anxiety — emerge il peso della malattia mentale o della solitudine sulle scelte suicide. Ed emerge anche come l’obbligo della società sia di prevenire, come richiede l’Oms, e non di aprire le porte, abbassare le braccia, e autorizzare il suicidio.
Si resta delusi quando sullo stesso giornale si legge in una pagina l’eroismo di chi salva un suicida che sta annegando e nell’altra la teorizzazione del suicidio come diritto. Si potrebbe giungere all’estremo paradosso di ritenere che il salvatore abbia preso una cantonata rischiando la vita per sottrarre il suicida alla morte.
La lotta al suicidio come viene richiesta dall’Oms trova un ostacolo quando questo gesto viene addirittura teorizzato come diritto da far entrare nella legislazione. Una richiesta che, anche se ammantata di alti ideali, è dettata solo dalla profonda contraddizione di una società malata, che non sa essere compagnia alle solitudini delle periferie esistenziali.
(Fonte: «Osservatore Romano»)
7. Siamo quello che mangiamo o che non mangiamo?
11 settembre 2013
La copertina del numero di maggio scorso della rivista «National Geographic» riporta l’immagine di un bambino accompagnata da un titolo provocatorio «Questo bambino vivrà fino a 120 anni». Indubbiamente, l’aspettativa di vita media nel mondo ha superato la soglia dei 70 anni, ma siamo ben lontani dal pensare di poter diventare ultracentenari. In verità, il problema principale non è quanto a lungo riusciamo a vivere, ma in che modo. È su questa domanda che gli studiosi e i ricercatori che si occupano di invecchiamento stanno spostando l’attenzione della comunità scientifica.
L’ereditarietà della longevità è, in realtà, pari al 25-30% e, tra l’altro, non basta individuare quali sono i geni importanti, ma capire in quale fase della vita è importante che siano più o meno attivi. A questo quadro di per sé già complicato dobbiamo aggiungere la componente ambientale, che gioca un ruolo alquanto imprevedibile e le abitudini alimentari, di cui solo negli ultimi anni si comincia a comprendere l’importanza.
«Siamo quello che mangiamo», asseriva nell’Ottocento il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach, sostenendo che un popolo può migliorare migliorando la propria alimentazione. In effetti, sebbene la sua fosse una visione filosofica più che scientifica, l’educazione alimentare e le sue regole per una dieta bilanciata, corretta e misurata stanno sempre più penetrando nel comune tessuto sociale.
Valter Longo, Direttore del Longevity Institute, University of Southern California, si occupa da anni dello studio dei meccanismi cellulari e molecolari che regolano i processi di invecchiamento. Le recenti scoperte fatte nel suo laboratorio e nei laboratori americani ed europei di altri suoi colleghi hanno dimostrato che mangiare meno aiuta a vivere meglio e più a lungo.
Gli effetti benefici della restrizione calorica sono stati sperimentati su diversi organismi, dall’eucariote più semplice, il lievito, al più complesso, l’uomo e sembrano essere conservati nel corso dell’evoluzione. Nella maggior parte dei casi studiati, è stato osservato che la restrizione calorica non solo rende più longevi, ma protegge da una serie di patologie, quali il diabete, il cancro e malattie cardiovascolari.
Studi condotti in parallelo hanno dimostrato che un intervento di natura genetica o chimica su pathway cellulari coinvolti nei processi di assorbimento dei nutrienti producono effetti paragonabili in termini di longevità e protezione da malattie. In particolare, la riduzione dei livelli del fattore IGF-1 (Insulin-like Growth Factor) sembra essere determinante nella modulazione dei processi di invecchiamento. In quest’ambito, sono di assoluto rilievo gli studi in corso su una popolazione dell’Ecuador affetta dalla sindrome di Laron, una malattia autosomica recessiva. Gli individui malati presentano una mutazione nel recettore per l’ormone della crescita (GHR) e di conseguenza non hanno uno sviluppo normale durante l’infanzia. Tuttavia, ciò di cui la natura li priva in termini di crescita, viene loro restituito in termini di resistenza al diabete e al cancro. Il segreto è nel loro sangue che presenta livelli minimi di IGF-1 e insulina, considerati fattori chiave nello sviluppo dei processi di trasformazione tumorale. Questa popolazione è, quindi, un modello di studio vivente per approfondire le interazioni tra geni e longevità.
Anche se la restrizione calorica può rappresentare una valida soluzione per contrastare diversi processi di invecchiamento, non bisogna dimenticare i suoi eventuali effetti collaterali che controbilanciano quelli sopra elencati e portano all’indebolimento del sistema immunitario e a un rallentamento del processo di cicatrizzazione delle ferite.
Il laboratorio di Longo si focalizza, pertanto, su digiuni periodici e su diete che simulano il digiuno e che hanno esiti potenzialmente superiori a quelli della restrizione calorica a meno dei suoi effetti collaterali. Il digiuno prolungato, praticato in alternanza a periodi di normale alimentazione, porterebbe ad una “riprogrammazione” del metabolismo energetico con effetti benefici sulla salute e sulla longevità. Ma attenzione, perché l’effetto benefico del digiuno periodico potrebbe diventare nullo se non addirittura negativo nelle persone molto anziane e deboli.
In altre parole, per soggetti in salute l’invito è quello di ritornare alle origini, quando cacciatori e guerrieri si preparavano alla battuta di caccia o alla battaglia astenendosi dal mangiare o di emulare i monaci tibetani, per i quali il digiuno è parte della disciplina religiosa. In entrambi i casi, tale pratica manifestava e manifesta la capacità di esercitare un controllo del corpo al fine di migliorare il proprio stato fisico o spirituale in maniera temporanea o definitiva. A questo punto è il caso di chiedersi: «siamo quello che mangiamo o (siamo quello) che non mangiamo»?
Nicoletta Guaragnella
(Fonte: wired.it)
(Approfondimenti: http://press.nationalgeographic.com/2013/04/15/national-geographic-magazine-may-2013)
8. Fda rinforza raccomandazioni su analgesici oppioidi
12 settembre 2013
Nella speranza di ridurre l’abuso di oppioidi, la dipendenza e i decessi da overdose l’Fda, Agenzia regolatoria statunitense, ha deciso di introdurre delle modifiche ai fogli illustrativi di tutti gli analgesici oppioidi a rilascio prolungato e lunga durata d’azione. In particolare saranno riviste le indicazioni aggiungendo che «gli oppioidi a rilascio prolungato e lunga durata d’azione sono indicati per il trattamento del dolore così grave da necessitare una terapia giornaliera continuata e per il quale i trattamenti alternativi non siano adeguati».
Inoltre i fogli informativi dovranno segnalare che «per il rischio di dipendenza, abuso e uso scorretto, anche alle dosi raccomandate, e per il maggiore rischio di overdose e morte, questi farmaci devono essere riservati a quei pazienti per i quali trattamenti alternativi (analgesici non oppioidi o oppioidi a rilascio immediato) siano inefficaci, o non tollerati, o nei quali sarebbero inadeguati a fornire un sufficiente controllo del dolore; gli oppioidi a rilascio prolungato e lunga durata d’azione non sono indicati per l’impiego al bisogno per il sollievo dal dolore».
L’Fda intende anche chiedere alla aziende farmaceutiche produttrici di condurre ulteriori studi e trial clinici per meglio indagare i rischi noti sopra citati. Infine si dovrà inserire un nuovo box con l’avvertenza che l’utilizzo cronico di oppioidi a rilascio prolungato e lunga durata d’azione da parte di donne in gravidanza può causare sindrome d’astinenza nei neonati, anche fatale.
(Fonte: Doctor33)
9. «Uno di Noi» raggiunge quota un milione di firme. La Germania è l’11° Paese ad entrare nel club del minimo
12 settembre 2013
“Uno di Noi” ha raggiunto il milione di firme che è uno dei requisiti richiesti insieme alla quota minima di 7 paesi UE. Questa è una pietra miliare per la campagna “Uno di noi” e per l’Europa verso il riconoscimento del 1° diritto fondamentale, quello alla vita di ogni persona, in qualsiasi stadio del suo sviluppo.
La Germania di Manfred Libner, che ha raggiunto il minimo richiesto, con 74.447 firme e il 100,27%, è l’11° paese ad entrare nel club del minimo, insieme ad Austria, Francia, Italia, Lituania, Olanda, Polonia, Romania, Slovacchia, Spagna, Ungheria.
Le congratulazioni reciproche di Ana del Pino, coordinatrice esecutiva dell’Iniziativa, dei coordinatori dei vari Paesi, dei rappresentati delle varie associazioni che in questi mesi hanno seguito e fatto la campagna, si susseguono. Un risultato che sembrava un miraggio qualche mese fa, a poco a poco è diventato possibile.
“Uno di Noi” è la seconda iniziativa popolare europea a raggiungere i requisiti richiesti e l’unica ad avere ben 11 Paesi con il minimo. “Uno di Noi” non si ferma qui: la raccolta continua fino al 1° novembre per arrivare a quota 1200mila firme, almeno, per mettere al riparo i promotori da invalidazioni dovute ad errori nella compilazione cartacea e per dare un nuovo impulso alle prossime elezioni europee.
Il 22-25 maggio 2014 ci saranno le elezioni europee per la prossima legislatura 2014-2019. La campagna elettorale è appena partita. Sono 506 milioni i cittadini UE, di cui 400 milioni elettori, 37 milioni dei quali per la prima volta al voto.
«Vorremmo inviare un messaggio forte ai cittadini europei: con il voto potete contribuire a determinare il futuro dell’Europa», afferma Anni Podimata, eurodeputata greca, vice presidente dell’Euroassemblea.
Mentre in Inghilterra si selezionano i bambini, tramite l’aborto, a seconda del sesso, “Uno di Noi” ha la possibilità di determinare il futuro dell’Europa perché diventi una Unione a misura d’uomo, dove non si selezionano i bambini, dove anche i bambini nascituri possono vivere protetti, possono avere il diritto alla vita.
«L’Europa unita prefigura la solidarietà universale dell’avvenire» scriveva Schumann, di cui è in corso la causa di beatificazione, uno dei fondatori della Comunità Europea. Il fondamento della solidarietà universale non può che partire dall’embrione, l’essere umano più vulnerabile. Schumann ricorda come il valore della pace e della dignità umana sono legati l’uno all’altra e non vi può essere pace senza il riconoscimento di quella dignità. Da qui si può costruire un’Europa moderna e unita. Per fare politica, diceva Schumann, «bisogna essere donne e uomini dalle forti convinzioni». “Uno di Noi” è una proposta, una forte convinzione, che potrebbe dare una svolta decisiva alla storia del continente. Allora vale la pensa di “fare politica”, firmando in massa “Uno di Noi”.
Gli appuntamenti per fare conoscere “Uno di noi” e raccogliere nuove firme si susseguono. Per aderire all’Iniziativa è sufficiente firmare o on line sul sito www.oneofus.eu, per l’Italia anche sul sito www.unodinoi.mpv.org, oppure sul modulo cartaceo, scaricabile sempre dai siti indicati.
I moduli cartacei compilati vanno inviati per posta (meglio se con raccomandata con ricevuta di ritorno) entro il 15 ottobre 2013, al coordinatore Nazionale, che per l’Italia è Michele Trotta, presso la Segreteria Nazionale del MPV italiano in Lungotevere dei Vallati n. 2, 00186- Roma, tel. 0668301121.
Possono firmare tutti i cittadini UE aventi diritto al voto (i maggiorenni) ed è possibile firmare una sola volta.
È possibile sostenere Economicamente “Uno di Noi” facendo una donazione a Fondazione VITA NOVA Onlus Lungo Tevere dei Vallati 2 – 00186 ROMA (Italy), C.F. 07729580584
(http://www.fondazionevitanova.it/donazioni.php) IBAN: IT27H0200812809000102278000, BIC: UNCRITM1OP8, Causale: One of Us.
“Uno di Noi” è anche su twitter, facebook, google e youtube.
(Fonte: Zenit.org)
(Approfondimenti: https://ec.europa.eu/citizens-initiative/ECI-2012-000005/public/signup.do)
10. L’uomo e lo spazio tra fede e scienza in un Convegno in Vaticano
13 settembre 2013
Si è tenuto nell’Aula Nuova del Sinodo il 26-mo Convegno nazionale dell’Associazione italiana di Medicina aeronautica e spaziale (Aimas), sul tema “In the spirit of discovery. Ratio et voluntas inveniendi”. Mercoledì 11 settembre, la lectio magistralis di mons. Zygmunt Zimowski, presidente del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, letta da un rappresentante del dicastero, mons. Charles Namugera.
«L’esplorazione spaziale dell’uomo, tra fede e scienza». Questo il tema scelto dall’arcivescovo Zygmunt Zimowski per salutare i partecipanti al Convegno dell’Associazione italiana di Medicina aeronautica e spaziale, che fa capo all’Aeronautica Militare italiana e che dagli Anni ’50 si dedica alla formazione, alla ricerca e agli aspetti sanitari dei piloti e degli astronauti. Il disorientamento spaziale in volo, il trasporto dei pazienti altamente contagiosi, le abilità visive e spaziali, l’infarto cerebrale sono solo alcuni degli argomenti trattati.
Mons. Zimowski, rifacendosi al grande fisico italiano Nicola Cabibbo, scomparso qualche anno fa e a lungo presidente della Pontificia Accademia delle Scienze, ha sottolineato come i progressi della tecnologia e della scienza richiedano agli operatori del settore «un’attenzione rinnovata alla dimensione sapienziale del significato ultimo della vita umana». Al tempo stesso, le grandi scoperte della scienza che «aprono nuovi orizzonti sulla materia vivente e inanimata, così come sulla struttura e sulla storia dell’Universo, sono di importanza cruciale per il mondo della religione».
Non sempre scienza e fede sono state considerate come esperienze alleate, che reciprocamente si sostengono in vista del bene dell’uomo. Storicamente, si sono succedute varie linee di tendenza che le hanno viste distanti e contrapposte, soprattutto – ha scritto mons. Zimowski – quando i difensori dell’una e dell’altra hanno preteso di essere “gli unici detentori della verità”. C’è quindi da domandarsi – ha aggiunto – se veramente sia possibile superare queste barriere. La Chiesa cattolica, ha riferito, pensa di sì:
«La Chiesa non si scandalizza di fronte a una sorta di ateismo metodologico, che viene messo in atto in quei campi di ricerca in cui non è necessario ricorrere a Dio quale ipotesi di lavoro o criterio di comprensione. La comunità cristiana riconosce, anzi, coltiva il diritto della scienza a procedere nel suo cammino in modo rigoroso e autonomo. Anzi: ritiene che la certezza della fede, che porta a proclamare l’esistenza di un Dio che benevolmente dà origine a tutte le cose, infonda nel cercatore della verità scientifica un entusiasmo, un ottimismo, una fiducia e una carica che possono giocare un grande ruolo positivo nei confronti dell’impegno a comprendere la realtà».
Lo sforzo di comprensione del mondo, le ricerche finalizzate a un utilizzo rispettoso della natura, lo studio che aiuta a capire la struttura e il funzionamento della realtà per utilizzare le potenzialità secondo il progetto del Creatore – ha sottolineato – «devono essere viste con soddisfazione e gioia, senza timore e senza limiti che non siano quelli del rispetto dell’uomo e per il mondo stesso».
In questa prospettiva, si deve riconoscere che scienza e fede possono essere considerate esperienze sorelle, perché hanno origine, in ultima analisi, dall’unico Padre celeste, pur essendo dotata ognuna della propria originalità, della propria missione, del proprio metodo.
Una collaborazione, quella tra scienza e fede, che per mons. Zimowski diventa cruciale nel settore dell’assistenza sanitaria:
Possiamo dire che la scienza e la fede abbiano, quale loro referente principale, l’uomo, la sua dignità, il suo benessere, la sua realizzazione, e viene percepito con maggiore evidenza soprattutto quando si opera nel campo della sanità. Di fronte alla malattia, anzi, di fronte al malato meglio che in altre circostanze si può mettere in atto una verifica delle intenzioni che animano la ricerca scientifica. E più che in altre occasioni, viene messa alla prova la fede quale esperienza capace di fare crescere in umanità.
Giada Aquilino
(Fonte: Radio Vaticana)
11. Studio Bmj: farmacisti mediatori indispensabili in campagne contro abuso antibiotici
16 settembre 2013
Campagne di informazione focalizzate sul cittadino, che vedono il coinvolgimento di farmacisti come mediatori di informazioni mirate, possono ridurre il consumo di antibiotici. Lo afferma uno studio italiano pubblicato dal «British medical journal», coordinato dall’Agenzia sanitaria e sociale dell’Emilia-Romagna. I ricercatori hanno studiato gli effetti nelle province di Modena e Parma di una campagna, realizzata durante l’inverno 2009/10, che comprendeva pubblicità sui media locali, manifesti negli studi medici, brochure distribuite in farmacia, differenziate tra contenenti informazioni generali lasciate sul bancone a disposizione dei cittadini e quelle che il farmacista consegnava al paziente che presentava una prescrizione di antibiotico. Infine, l’invio di una newsletter sui dati locali di antibiotico-resistenza, destinata a medici e farmacisti.
I risultati sono stati confrontati con altre due province emiliane prese a riferimento. L’iniziativa ha portato a una riduzione del 4,3% del consumo, con un risparmio stimato tra 200 e 406mila euro. «Si tratta di una riduzione modesta» commenta Giulio Formoso, farmacista e autore dello studio «cui ha contribuito anche un cambiamento dei comportamenti prescrittivi dei medici, i quali probabilmente con un atteggiamento più cauto di fronte a pazienti, ne hanno prescritti meno. Ma la forza dei risultati ottenuti» aggiunge il ricercatore «è la combinazione tra la disponibilità di informazioni più o meno specifiche rivolte al cittadino e la mediazione da parte di professionisti come i farmacisti, che hanno una posizione privilegiata di contatto con i pazienti, ai quali trasferiscono messaggi mirati a contenere il fenomeno crescente dell’antibiotico-resistenza».
Un problema, quest’ultimo, non solo italiano, anche se l’Italia vanta il primato in Europa per il consumo di questi farmaci, ma anche negli Usa il fenomeno ha proporzioni vaste. Il Cdc di Atlanta, infatti, è in procinto di pubblicare le nuove linee guida insieme a un rapporto sul fenomeno della resistenza. «Stimiamo che metà degli antibiotici prescritti nel Paese sia utilizzato impropriamente», afferma il direttore Thomas Frieden a «Scientific American», «abbiamo una grande risorsa che stiamo sprecando». Stesse valutazioni sono in corso anche in Inghilterra, dove il governo ha lanciato un programma quinquennale per ridurre il fenomeno. La Royal pharmaceutical society ha chiesto, specificamente, che i farmacisti di comunità siano coinvolti, con il ruolo di supportare i pazienti a gestire i sintomi delle infezioni minori suggerendo soluzioni alternative all’uso di antibiotici.
Simona Zazzetta
(Fonti: Doctor 33 e BMJ 2013; 347 Published 12 September 2013)
12. Farmaci psicotropi spesso prescritti senza evidente indicazione
16 settembre 2013
I farmaci psicotropi sono prescritti in un grande numero di pazienti senza disturbi psichiatrici clinicamente diagnosticati. Lo rivela uno studio in cui si evidenzia che il 52,8% degli individui trattati non ha ricevuto una diagnosi psichiatrica, e che nel 69% dei casi si tratta di soggetti d’età compresa tra 50 e 64 anni. «Ritengo che questo sia un dato preoccupante», afferma Ilse Wiechers della Yale School of Medicine di New Haven, nel Connecticut, primo autore della ricerca, «ma non si può dire se ciò sia dovuto a scarsa documentazione, uso inappropriato di tali farmaci o sottostima dei problemi di salute mentale».
I ricercatori hanno esaminato i dati di una banca dati privata di crediti di assicurazione, relativi a 5.132.789 pazienti adulti (64 % donne), i quali avevano avuto la prescrizione di almeno un farmaco psicotropo nel corso del 2009. I dati dei pazienti sono stati suddivisi in 3 sottogruppi di età: età 18-39 anni (37%) , 40-49 anni (23%), e 50-64 anni (40%). Le prescrizioni di psicofarmaci a loro volta sono stati suddivise in 6 classi: antidepressivi, antipsicotici, benzodiazepine, stimolanti, anticonvulsivanti/stabilizzatori dell’umore, litio.
I risultati hanno mostrato che i pazienti di età compresa tra 50 e 64 anni hanno avuto una probabilità 2,9 volte maggiore di ricevere la prescrizione di sostanze psicotrope senza diagnosi psichiatrica rispetto a quelli del gruppo 18–39 anni, così come i soggetti di 40–49 anni d’età avevano una probabilità superiore di 1,8 volte più probabilità di ricevere questi farmaci rispetto ai più giovani. Le classi di farmaci più prescritte senza diagnosi psichiatrica erano ansiolitici (61%), stabilizzanti dell’umore (58%), e antidepressivi (52%). Il fatto che il 67% delle prescrizioni totali senza diagnosi abbia interessato pazienti senza alcuna assistenza specialistica in salute mentale probabilmente significa, secondo i ricercatori, che i farmaci erano stati prescritti nel setting delle cure primarie o della chirurgia.
Mancano evidenze per raccomandare modificazioni per le pratiche prescrittive e molti sono i punti che restano da chiarire. Ma un dato è certo: «In base a quanto osservato in un campione nazionale di individui coperti da assicurazione sanitaria commerciale, in molti pazienti sono prescritti psicofarmaci senza una chiara e documentata indicazione per l’uso».
(Fonti: Dica 33 e Psychiatr Serv, 2013 Sep 3)
(Approfondimenti: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23999894)
13. Crisi economica, disoccupazione e aumento dei suicidi
18 settembre 2013
È stata la crisi economica globale del 2008 la vera responsabile dell’aumento dei suicidi in Europa e oltreoceano? Secondo uno studio pubblicato sul «British Medical Journal» in collaborazione tra le Università di Hong Kong, Oxford, Bristol e la London School of Hygiene and Tropical Medicine, la risposta è affermativa: «Nel 2008 l’Organizzazione internazionale per il lavoro stimava che il numero di disoccupati nel mondo avrebbe raggiunto i 212 milioni nel 2009, con un incremento di 34 milioni rispetto al 2007», dice Shu-Sen Chang, epidemiologo del Centre for suicide research and prevention dell’Università di Hong Kong e primo firmatario dell’articolo. E l’Organizzazione mondiale della sanità, preoccupata per l’impatto della crisi sulla salute chiese interventi per proteggere soprattutto i più poveri e vulnerabili.
«Si stima che la crisi del 1997 in Giappone, Corea del Sud e Hong Kong abbia provocato un surplus di oltre 10.000 suicidi, specie tra gli uomini in età lavorativa, proprio come la crisi economica russa nei primi anni ’90 del secolo scorso», continua l’epidemiologo, puntualizzando che ancora oggi rimane una diffusa preoccupazione sull’aumento di suicidi nei Paesi colpiti dalla crisi economica globale. «Gli studi svolti finora sull’argomento riportano solo i dati di un numero limitato di Paesi, senza indagini ampie e sistematiche a livello internazionale», spiega il ricercatore, che assieme ai colleghi ha verificato l’impatto della crisi del 2008 sulle tendenze suicide globali, cercando di individuare sesso, fasce d’età e Paesi più colpiti.
A questo scopo i ricercatori cinesi e britannici hanno utilizzato i dati sui suicidi di 54 Paesi, confrontando l’effettivo numero di suicidi nel 2009 con i tassi del periodo 2000-2007. «Per 53 Paesi i dati erano nel database di mortalità dell’Organizzazione mondiale della sanità e per gli Stati Uniti in quello online dei Centers for disease control and prevention. Infine, il rapporto “World economic outlook” del Fondo monetario internazionale ha fornito le stime sulla disoccupazione, utilizzate come indicatore economico principale. «Nel 2009 c’è stato un aumento del 37% del tasso di disoccupazione e un calo del 3% nel PIL pro capite, il che riflette l’inizio della crisi economica nel 2008», dice Chang, osservando che i disoccupati hanno iniziato a crescere negli Stati Uniti e in Canada nel 2008, con un aumento drammatico nel 2009-10, quando la crisi ha raggiunto anche l’Europa.
Nel 2009 i suicidi tra gli uomini sono aumentati del 3,3% in tutti i Paesi studiati, con picchi del 4,2% nei 27 Paesi europei e del 6,4% in 18 Stati nordamericani. Ma l’aumento maggiore del 2009 nei tassi di suicidio maschile, il 13,3%, è stato osservato nei nuovi stati membri dell’UE: Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Romania e Slovenia. Seguivano Stati Uniti e Canada con l’8,9%, poi Caraibi e Centro America con incrementi del 6,4% a fronte di un aumento più contenuto nei Paesi sudamericani.
La crescita dei suicidi era legata all’aumento della disoccupazione, in particolare nei maschi, che avevano perso il lavoro o con problemi finanziari, e nei Paesi con bassi livelli di disoccupazione pre-crisi. «Lo studio dimostra che la crisi economica globale del 2008 ha incrementato i suicidi nei Paesi colpiti in modo simile alle recessioni del passato, come la Grande Depressione del 1930», dice Chang. E conclude: «Servono interventi urgenti, specie sul mercato del lavoro, per evitare che il protrarsi della crisi economica provochi un ulteriore aumento dei suicidi».
(Fonte: Doctor33)
(Approfondimenti: http://www.bmj.com/content/347/bmj.f5239)
14. Alzheimer, sfida economica numero uno nell’assistenza
20 settembre 2013
L’Europa spende più per i disturbi cerebrali che per malattie cardiovascolari e cancro. A ricordarlo, in occasione dell’imminente Giornata mondiale sull’Alzheimer, Monica Di Luca, farmacologo e vice presidente di European Brain Council, in occasione del Talk show “Ti ricordi?”, organizzato dall’Associazione Italiana Malattia di Alzheimer. Ecco perché, afferma l’esperta, rappresenta «la sfida economica numero uno per l’assistenza sanitaria in Europa, nel presente e nel prossimo futuro».
«Secondo studi recenti il costo totale delle patologie del cervello, inclusi i costi diretti e indiretti», aggiunge Di Luca «ammonta a 798 mld di euro all’anno. Questi nostri studi posizionano la malattia di Alzheimer tra le dodici patologie cerebrali a più alto costo sociale ed economico per la società europea». Costi, ha avvertito, «che continueranno ad aumentare nel quadro di un’aspettativa di vita della popolazione europea che aumenta». Siamo quindi di fronte, ha affermato la farmacologa, «alla sfida economica numero uno per l’assistenza sanitaria in Europa». A questo proposito, va però ricordato, ha concluso l’esperta, che «una diagnosi precoce e una terapia tempestiva possono contribuire a rallentare la progressione di malattia e l’istituzionalizzazione dei pazienti, oltre che ridurre la prevalenza di malattia nella popolazione del 30%. Tutto questo è stato stimato per i pazienti in 6 anni in più di vita serena, senza aumentare l’aspettativa di vita».
(Fonte: Doctor33)
15. Lavoro minorile in calo del 32% dal 2000, ma riguarda ancora 168 milioni di bambini
24 settembre 2013
Nel 2012 c’erano quasi 168 milioni di minori al lavoro (il 10,6% della fascia di età tra i 5 e i 17 anni), 73 dei quali con meno di 11 anni: è quanto emerge dal Rapporto dell’Ilo (International Labour Organization) sul lavoro minorile, secondo il quale c’è stato comunque un calo del 32% rispetto ai 246 milioni di minori in fabbrica e nei campi segnato nel 2000 (il 16% del totale). Il fenomeno, però, riguarda ancora l’11 per cento del totale della popolazione under 17.
«Il contrasto al lavoro minorile è sulla strada giusta – segnala l’Organizzazione internazionale del Lavoro – ma di questo passo l’obiettivo dell’eliminazione delle sue peggiori forme entro il 2016 non sarà raggiunto. La direzione è giusta ma ci stiamo muovendo troppo lentamente – ha dichiarato il direttore generale Guy Rider– se vogliamo porre fine a questo flagello nel prossimo futuro dobbiamo raddoppiare gli sforzi».
I progressi più consistenti si sono avuti tra il 2008 e il 2012 con il calo da 215 (il 13,6% delle persone tra i 5 e 17 anni) a 168 milioni (il 10,6%). Si tratta di un risultato accolto positivamente dall’Ilo, che sottolinea come ci fossero timori perché la crisi economica avrebbe potuto costringere molte famiglie ad avviare i propri figli verso il lavoro prematuro.
L’attività è particolarmente pericolosa per 85 milioni di bambini (il 5,4%), dato in calo rispetto ai 170,5 milioni del 2000 (l’11,1% della popolazione infantile). La situazione più grave è nell’Africa sub sahariana con il 21,4% dei bambini al lavoro (oltre 59 milioni), mentre nell’area Asia Pacifico il numero dei bambini al lavoro è più alto (77,7 milioni), ma la percentuale sul totale dei minori è al 9,3%. In America latina e Caraibi lavorano l’8,8% dei bambini tra i 5 e i 17 anni (12,5 milioni) mentre in Medio Oriente e Nord Africa lavora l’8,4% dei minori (9,2 milioni).
Tra i bambini più piccoli (tra i 5 e gli 11 anni) lavorano in 73 milioni, l’8,5% delle persone in questa fascia di età. Per 18,5 milioni di bambini con meno di 11 anni il lavoro consiste in una attività pericolosa. Tra i 12 e i 14 anni lavorano oltre 47,3 milioni di bambini (il 13,1%) mentre tra i 15 e i 17 anni lavorano il 13% dei minori (47,5 milioni di persone). Il 58% dei minori è utilizzato in agricoltura, il 7,2% nell’industria e il 32,3% nei servizi (in forte aumento rispetto al 25,6% del 2008).
La maggioranza dei bambini lavoratori è maschio (99,7 milioni a fronte di 68,2 milioni di femmine). Ma le differenze di genere si annullano tra i bambini più piccoli con 36,3 milioni di bambini maschi e 36,7 milioni di bambine al lavoro. Tra i 15 e i 17 anni l’80% dei minori lavoratori è maschio (38,7 milioni) e appena il 19% femmina (8,8 milioni). Secondo il rapporto Ilo tra i minori al lavoro ci sono 5,5 milioni di bambini in “lavoro forzato”, un quarto delle vittime totali del lavoro forzato. Tra questi 960.000 sono coinvolti in situazione di sfruttamento sessuale.
(Fonte: la Repubblica)
16. Mastectomia preventiva controlaterale, tanti rischi e pochi benefici
25 settembre 2013
Forse sull’onda dell’esempio di Angelina Jolie, di recente sottopostasi a doppia mastectomia preventiva dopo il riscontro di una mutazione del gene BRCA1, molte giovani donne scelgono di asportare l’altro seno ancora sano dopo la diagnosi di neoplasia mammaria con la cosiddetta mastectomia profilattica controlaterale (Cpm), pur sapendo che con ogni probabilità le possibilità di sopravvivenza non miglioreranno. Queste, almeno, sono le conclusioni di uno studio del Dana-Farber cancer institute di Boston pubblicato sugli «Annals of internal medicine».
«Non ci sono prove certe che la Cpm migliori la sopravvivenza. Ciononostante molte donne vi si sottopongono, sopravvalutando l’effettivo rischio di sviluppare una seconda neoplasia al seno non colpito. Per questo sono necessari interventi volti a migliorare la comunicazione del rischio, così da promuovere decisioni basate sull’evidenza dei fatti», puntualizza Shoshana Rosenberg, ricercatrice al Center for women’s cancers del Dana-Farber e prima autrice dell’articolo, rilevando che i tassi di Cpm sono elevati specie tra le più giovani.
L’indagine ha coinvolto 123 donne sotto i 40 anni che dopo avere rimosso il seno malato si erano sottoposte a mastectomia controlaterale profilattica. Le partecipanti sono state intervistate con domande sulla storia clinica, sui motivi della decisione e sulle conoscenze circa il cancro al seno e i rischi di morte e recidive. I risultati? La quasi totalità delle donne ha voluto l’intervento sia per la paura di un secondo tumore al seno sano, sia per aumentare le possibilità di sopravvivenza.
«Ma il dato interessante è che solo il 18% delle intervistate è convinto che la Cpm aumenta la sopravvivenza in chi non ha la predisposizione genetica per il cancro al seno, cioè non è portatore di mutazioni dei geni BRCA1 o BRCA2», continua Rosenberg. Quasi tutte, inoltre, pensano che il rischio di una recidiva controlaterale sia in media del 10%, sovrastimando il dato reale del 2-4%. Sottostima, invece, sull’effetto della procedura: per il 42% delle intervistate la sessualità dopo Cpm era peggio di quanto previsto.
(Fonte: Doctor 33)
(Approfondimenti: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24042365)
17. C’è la prova definitiva: è l’uomo che cambia il clima: dopo 5 anni di lavoro, arriva il testo ufficiale
26 settembre 2013
Venerdì 27 settembre esce l’atteso sommario per i decisori politici del «Quinto rapporto sul clima» dell’Intergovernmental Panel on Climate Change, organo delle Nazioni Unite fondato nel 1988. I diplomatici dei 195 Stati membri – cioè praticamente tutto il mondo – insieme al meglio della ricerca climatologica di tutti i tempi, sono riuniti a Stoccolma da lunedì 22 settembre, ospiti di uno dei governi che più ha preso sul serio la lotta ai cambiamenti climatici.
Il testo, elaborato da 831 scienziati e sottoposto a due processi di verifica durante cinque anni di lavoro, è tutt’ora in corso di meticolosa revisione parola per parola, e solo in occasione della conferenza stampa ne conosceremo i contenuti definitivi. Eppure è da giorni che circolano dati ufficiosi sulle sue conclusioni, con i tagli più diversi, dal negazionismo alle accuse di parzialità, dal catastrofismo all’indifferenza.
Ma poco importa commentare qui i decimali dopo la virgola delle variazioni climatiche attese, se cioè la temperatura del Pianeta aumenterà da oggi al 2100 di 2 o 4 gradi, se il livello marino si alzerà di 24 o 62 centimetri, se la scienza è certa al 90% o al 95%. Questi dettagli li sapremo tra un paio di giorni, e comunque chi opera nel campo della ricerca più o meno li conosce già perché vengono pubblicati di continuo sulle riviste scientifiche. Dal nuovo rapporto non ci si aspetta dunque nessuna rivoluzione. E proprio qui sta la notizia: in cinque anni di febbrile ricerca scientifica, di nuove simulazioni con i supercomputer più potenti al mondo, di verifiche metodologiche rigorose, incluso il vaglio delle obiezioni «scettiche», la risposta è che il clima si sta proprio riscaldando per effetto delle attività umane, e che la situazione peggiorerà nei prossimi decenni in ragione delle scelte politiche ed economiche che si faranno o non si faranno ora.
«L’evidenza scientifica del cambiamento climatico antropogenico si è andata consolidando anno dopo anno, lasciando sempre meno incertezze quanto alle gravi conseguenze della mancata azione», ha dichiarato alla plenaria dell’Ipcc Qin Dahe, accademico delle scienze cinese. Il riassunto per decisori politici delle basi fisiche del riscaldamento globale avrà dunque un valore formale più che sostanziale. Sarà la dichiarazione meditata, condivisa e approvata da tutti i governi, che sancirà il verdetto autorevole emerso dalla massima autorità scientifica che l’umanità sia in grado di esprimere sulla malattia climatica. Anamnesi, sintomi, diagnosi e prognosi sono ormai ampiamente documentate da oltre 9.200 pubblicazioni.
La scienza ha fatto tutto ciò che doveva e continuerà a farlo, affinando, precisando, migliorando la qualità degli scenari e il monitoraggio dei dati ambientali. Ma ora la volontà di attuare la cura è culturale: attiene alla psicologia sociale, alla sociologia, all’informazione, che devono formare una consapevolezza collettiva su una delle maggiori sfide che la nostra specie si trovi a fronteggiare, e poi alla politica, che deve agire rapidamente ed efficacemente sulla riduzione delle emissioni climalteranti e sull’uscita dal paradigma economico predatorio delle risorse naturali.
Lena Ek, ministro dell’ambiente svedese, all’apertura dei lavori, dopo aver mostrato immagini del ritiro dei ghiacciai scandinavi e del rischio di inondazione della storica città di Örebro, ha dichiarato che «la grande sfida è veicolare il messaggio di urgenza al pubblico. Se la gente è convinta, i politici seguiranno». Parola di ministro di un Paese che dal 1990, con una crescita del Pil del 60 per cento, ha ridotto le emissioni del 20 per cento, e prevede di azzerarle entro il 2050.
Luca Mercalli
(Fonte: La Stampa)
© Bioetica News Torino, Ottobre 2013 - Riproduzione Vietata