Gli studi di genere, come noto, sottolineano l’imprescindibile ruolo rivestito dalla cultura nella formazione della persona, soprattutto nella sua identità sessuata. Essa non risulta unicamente dalla determinazione biologica del “sesso”, ma si inserisce in una dinamica più profonda, che comporta attenzione a fattori sociali e culturali a partire dai quali ciascuno matura la propria consapevolezza personale e la propria collocazione esistenziale. La sottolineatura dei processi di costruzione del genere è stata portata avanti inizialmente dalle ricerche femministe, affermando la necessità di rimuovere gli stereotipi sociali giocati a contrapporre i sessi, per ridefinire percorsi di incontro e di riconoscimento reciproci. Tuttavia occorre notare come in alcune prospettive attuali della teoria del genere sviluppate in ambito filosofico si giunga a posizioni radicali, fino a negare una specifica importanza alla base biologica del sesso, con la differenza del maschile e del femminile, per abbracciare una comprensione aperta e flessibile dell’identità individuale. Secondo questa visione ogni essere umano deve ricercare in piena libertà la propria autenticità e rappresentare se stesso identificandosi nel genere che sceglie di assumere, senza impedimenti o costrizioni sociali.
Indubbiamente gli studi di genere hanno il merito di suggerire una migliore attenzione ai vissuti delle persone e possono aiutare la società a superare pregiudizi e arroccamenti che, in nome di una cultura egemone, finiscono per causare sofferenze e discriminazioni. Proprio a questo riguardo, nell’ambito della riflessione teologica, risulta prioritario il riesame di alcuni testi biblici per rintracciare la stessa preoccupazione 1. Soprattutto nel Nuovo Testamento si annuncia con chiarezza che la differenza uomo/donna non deve introdurre un motivo di ferita nella comune dignità delle persone. La diffusione del cristianesimo nell’ambito greco-romano ha portato una più chiara consapevolezza della ricerca della comunione tra le persone, dell’unità in Cristo di tutto il genere umano, superando quegli aspetti della differenza di ciascuno che potevano essere causa di censura e discriminazione sociale. È mia convinzione che tale azione culturale domanda di essere estesa a quelle situazioni personali in cui oggi potrebbero riprodursi nuove forme di discriminazione, come nel caso di quelle identità di genere, si pensi alle persone omosessuali e transessuali, la cui complessa strutturazione psicologica è meglio conosciuta grazie ai contributi delle scienze umane.
L’esercizio di un pensiero critico da parte della teologia sulla questione dell’identità di genere deve operare, prima ancora che nella logica di opposizione frontale, finendo per contrapporre “ideologia” a “ideologia”, e di fatto riducendo il contributo del cristianesimo, appunto, ad una “ideologia” tra le altre che si contendono spazi di visibilità e potere nella società, portando l’attenzione sui vissuti personali. La riflessione della teologia cristiana può svolgere una importante riflessione critica in merito all’identità soggettiva, da non pensare, come in talune teorie gender in chiave di rivendicazione della propria libertà individuale in una forma di contrapposizione e di lacerazione del tessuto sociale, ma come stimolo ad una ricerca di maggiore comunione tra le persone. La potenzialità dell’identità di genere è così un elemento non per alimentare la litigiosità nella società, o unicamente lo scontro sulla questione dei diritti soggettivi, ma per attuare percorsi di riconoscimento della comune umanità, che si esprime nella differenza dei vissuti personali.
Indubbiamente esistono in talune espressioni delle “teorie di genere” elementi non conciliabili con l’etica cattolica. Essi vanno ravvisati in quelle forme che invitano ad eliminare in modo radicale il significato che la differenza del maschile e del femminile vengono ad avere per il riconoscimento tra le persone. Il magistero della chiesa cattolica, soprattutto attraverso la Lettera sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella chiesa e nel mondo, del 31 maggio 2004 della Congregazione per la dottrina della fede, ha messo in luce alcune conseguenze negative delle istanze di uguaglianza delle persone sviluppate dal movimento gender. Il timore è che un’estremizzazione della teoria della costruzione personale e psicologica dell’identità metta in questione l’idea del matrimonio civile e religioso fondata sullo stabile legame di un uomo e di una donna. La teoria del gender diverrebbe così un sostegno teorico a quelle istanze di pieno riconoscimento civile di tutte le forme affettive di unione tra le persone, fino a compromettere la stessa base normativa e l’identità del matrimonio. Inoltre il superamento dal condizionamento biologico del sesso verrebbe a pregiudicare la stessa possibilità di comprensione di una struttura basilare (“naturale”) dell’umano, fondata appunto sulla differenza del maschile e del femminile. Queste argomentazioni sono certamente serie e danno da riflettere, in quanto una forma di radicale decostruzione della identità biologica e “naturale” del sesso certamente contribuisce a generare disorientamento e incertezza nelle persone e nella società. Tuttavia occorre non dimenticare che lo stile di vita di ciascun individuo, se certamente ha tra i suoi elementi basilari l’appartenenza ad un sesso biologico, non cessa di essere anche frutto delle proprie decisioni libere. Così il sesso biologico, con la sua determinazione fondamentale costituita dall’essere uomo e dall’essere donna, costituisce un significante non aggirabile, ma a partire dal quale si sviluppa la capacità di ciascun soggetto di agire secondo libertà e di ricercare i significati buoni, doverosi e possibili per la sua vita.
Sulla questione è ritornato anche papa Francesco nella recente esortazione apostolica Amoris laetitia (19 marzo 2016), anche se il paragrafo 56 è l’unico passaggio dell’ampio documento proposto al termine del duplice Sinodo dei vescovi sulla famiglia (2014-2015) in cui compare il lemma gender. Innanzitutto emerge una certa consapevolezza sulla necessaria distinzione della questione delle identità soggettive di genere, connesse anche allo sviluppo dei gender studies, da un possibile uso ideologico di alcune tesi estremizzate. Il testo di papa Francesco invita a non identificare tout court nelle teorie di genere un pensiero totalizzante, compatto e compiutamente sviluppato («pensiero unico»), propriamente “ideologico”, quanto piuttosto a considerare la presenza di alcune tendenze «genericamente» (e non specificamente) definibili «ideologia gender». Il Pontefice, riferendosi a una delle propositiones votate nel secondo Sinodo (cfr. Relatio finalis, n° 8), offre sinteticamente una sua descrizione, accreditata da precedenti atti ufficiali della Santa Sede: negazione della «differenza e reciprocità naturale di uomo e donna» e svuotamento della tipicità antropologica della famiglia fondata sul matrimonio per accentuazione di una sua visione prevalentemente funzionalista. In riferimento al primo elemento problematico, tuttavia, la formula introdotta nell’esortazione apostolica supera la semplice idea di differenza biologica, indicata nel corpo sessuato, inscrivendola in un processo dinamico di reciprocità relazionale, anch’essa al pari del bios da vedere come elemento costituente l’umano nella sua specificità in accordo al progetto creazionale.
La chiave di lettura familiare dell’esortazione apostolica conferisce maggiore attenzione alle implicazioni pedagogiche riconducibili alla estremizzazione del gender2. Il contributo costruttivo è soprattutto connesso all’impegno di offrire un’equilibrata educazione affettiva nella quale «distinguere, ma non separare», «sesso biologico (sex) e ruolo sociale-culturale del sesso (gender)». L’espressione è ricavata da un altro paragrafo della Relatio finalis (n°58), nel quale si introduce indirettamente un criterio di integrabilità della prospettiva del genere nella comprensione cristiana dell’antropologia sessuale. Infine si sottolinea che, attraverso le pratiche della procreazione assistita, si sono rese disponibili azioni umane (e tecniche) in cui una delle funzioni biologiche del sesso, la fecondazione, è stata separata dagli atti delle persone, rendendo possibile nuove forme genitoriali nelle quali la genealogia biologica risulta separata da quella socio-anagrafica. Amoris laetitia segnala l’inseparabilità e la profonda correlazione tra dimensione biologica della procreazione e significato antropologico e socio-culturale della generatività. Il Pontefice offre una chiave di discernimento, previo alla valutazione di moralità, invitando a riconoscere un senso proprio della generazione che ci precede e risulta leggibile, come disegno del Creatore, primariamente non come legge, ma come dono nel quale è contenuta la verità dell’umano.
La comprensione dell’identità umana nella prospettiva del gender ha un’immediata ricaduta sulle teorie pedagogiche e nei più ampi processi formativi degli individui, non senza evidenti conseguenze sulla progettazione di percorsi educativi relativi alla percezione del sé, alla relazione con l’alterità, all’accettazione pacifica e costruttiva delle differenze che caratterizzano, anche sotto il profilo affettivo e sessuale, ciascun soggetto umano nella comune dignità dell’essere persona.
Obiettivi di primaria importanza in ogni serio progetto pedagogico che, tuttavia, all’interno di un utilizzo “ideologico” della teoria gender, possono subire particolari accentuazioni e distorsioni. Di fatto appoggiandosi anche a teorie pedagogiche improntate a principi che, in nome del pure importante postulato della libertà dell’individuo, hanno inteso prospettare modelli anti-autoritari e autonomistici inclini ad una neutralizzazione della differenza del maschile e del femminile in ordine alla costruzione dell’identità. Si evidenzia, come dato positivo, tuttavia, l’impegno in ambito pedagogico a liberare la “differenza” tra i soggetti personali da arbitrarie costruzioni di significato e da prassi sociali discriminanti. Ciò comporta, pertanto, una attenzione a distinguere tra i vari modelli educativi, riconoscendo l’importanza di quelli attenti a superare stereotipi sociali che prolungano, anche nel nostro tempo, forme di discriminazione, senza per questo annullare la specificità della differenza del maschile e del femminile e del modello famigliare eterosessuale.
Il progressivo ingresso del gergo di “genere” nel connotare i soggetti umani, infine, non è senza influssi sul sistema delle regole e delle leggi che definiscono il vivere insieme e la vita buona comune. A riguardo istruttiva è l’evoluzione del riconoscimento della dignità umana e l’attuazione, anche attraverso lo strumento del diritto, di specifiche forme di preservazione. È possibile riscontrare come il tema della identità di genere si iscriva, nel nostro tempo, in un percorso di approccio alla “dignità umana” il quale, dall’iniziale considerazione di quanto caratterizza in senso universale l’humanum, si è progressivamente spostato sulla specificazione in senso individuale della rappresentazione identitaria e sociale, attraverso la tutela (anche di tipo giuridico) della libertà espressiva ed affettiva individuale. Tale passaggio comporta non solo una crescita degli spazi di autonomia dei soggetti e la garanzia della ricchezza dell’umano, che è tale solo a partire dalla pluralità delle sue modalità di realizzazione, ma può anche portare a conseguenze problematiche sulle forme di condivisione e di realizzazione del legame sociale. La riduzione della conflittualità basata su processi discriminativi tra i soggetti umani è certamente un dovere sociale, peraltro alla base della stessa Costituzione italiana, e può giustificare provvedimenti legislativi specifici. Tutto ciò, in ogni caso, lascia aperta una riflessione, pacatamente argomentata e auspicabilmente condivisa, sulle modalità di tali strumenti normativi della vita sociale, sulla opportunità della loro proliferazione e sui presupposti, più o meno impliciti, che ne sono alla base.
La specificità degli approcci pedagogici e giuridici, in ogni caso, domanda di essere compresa nella logica del senso affidata al discorso antropologico. Anche per evitare immediate semplificazioni. Semplificazioni, che, realisticamente, occorre riconoscere sono certamente presenti sia nelle pratiche pedagogiche e nei percorsi formativi raccomandati nelle scuole, sia nei faticosi percorsi dello jus condendum per la legislazione italiana.
Queste riflessioni “provvisorie” si concludono evocando due “documenti” che invitano a non chiudere precipitosamente il pensiero in schemi di comprensione e di valutazione, condizionati in primis da atteggiamenti precipitosamente apologetici (con il rischio di non comprendere a pieno l’interlocutore) o belligeranti (con il rischio di dimenticare che la prima via per gestire e risolvere la conflittualità è quella del dialogo paziente).
Il primo è rappresentato da un testo di Luisa Muraro, una delle principali esponenti, in Italia, del pensiero della differenza (o filosofia della differenza). La difficoltà di interpretare se stessi, di definire il senso della propria esistenza, la rielaborazione dei vissuti e la tutela della stessa personalizzazione degli stili di vita non è sganciata da “determinazioni necessarie” in riferimento alla comprensione di sé; non può semplicemente essere risolta in un appello alla libertà di scelta, senza riferimento a quegli elementi inaggirabili che definiscono l’esistenza di ciascuno e, primariamente, il proprio radicamento corporeo. Ogni creativa generatività di sé non si costruisce sull’indeterminatezza della libertà, ma è scolpita nella propria carne, nel proprio “nascere in altri” o “venire da altri”, un uomo e una donna, nell’essere “generati”:
Che tutto diventi oggetto di scelta sembra che sia il traguardo cui tende il progresso così come oggi viene inteso e promosso […] Il progresso che si pratica in questa civiltà lavora a discapito e in concorrenza con tutti i pensieri e tutte le pratiche che ci aiuterebbero ad accettare il molto che nonostante tutto continuiamo a essere e a vivere senza averlo scelto. Per tante strade […] alla nostra mentalità si sta imponendo fondamentalmente un unico senso di quello che siamo senza averlo scelto, ed è la prospettiva che, prima o poi, su questo molto si potrà esercitare una scelta (cfr. L. Muraro, Al mercato della felicità. La forza irrinunciabile del desiderio, Mondadori, Milano 2009).
Il secondo documento è affidato al genio pittorico di Giorgio De Chirico con la presentazione di un tema ricorrente in due diverse fasi della sua vasta produzione: Gli archeologi misteriosi, anche noto come Il giorno e la notte, qui in un dipinto del 1926.
L’orizzonte “metafisico”, chiaramente decodificabile nel dipinto, introduce richiami, più o meno espliciti, a livelli di comprensione diversamente dislocati sia sul registro dell’opposizione (il bianco e il nero), sia sul registro del manifestarsi di un soggetto complesso, abitato da elementi compositivi interni racchiusi dalla struttura corporea. Il titolo, che dà ragione di un tema pittorico riscontrabile in altre modalità rappresentative di De Chirico (cfr. Il riposo del filosofo , L’archeologo solitario, 1937), unito all’opus artistico, sembra suggerire alcune domande fondamentali. L’archeologo in senso “metafisico” non è solo uno scopritore di documenti del passato. Piuttosto è colui che resta depositario di un senso (logos) che è custodito dal (nel) principio, dall’(nell’) inizio (arché), sfiorando appena l’ardito incipit del vangelo giovanneo: «In principio era il Verbo» o quello della Bereshit (Genesi) ebraica. Se c’è un umano da comprendere e da formare, se c’è un umano da tutelare attraverso le forme del diritto, è pienamente giustificabile un’operazione di “rievocazione del principio” a partire dal quale abitare l’umano che è comune, cioè caratterizzare un ethos. Tale operazione archeologica è definita “misteriosa”, non nel senso di ciò che non può essere compreso, bensì di ciò che mi anticipa, mi comprende e in cui io sono compreso e non posso descrivere o problematizzare nell’unicità di una forma di pensiero. E i soggetti in De Chirico, diversamente da altre opere analoghe del maestro, sono due: l’uno e l’altro, disposti più che specularmente, in una relazione che esalta insieme la loro differenza (l’opposizione cromatica bianco e nero) e la loro impossibilità di risolvere unicamente a partire dall’uno, la ricchezza dell’umanità che li comprende. L’uno e l’altro sono alla ricerca dell’“originale”, di ciò che li accomuna e li distingue. Qui la dualità rappresenta la struttura elementare della differenza, ma, lo sappiamo, non risolve la convivialità dei possibili. La dualità non è solo la violenza dicotomica del dualismo che pone l’alterità nella sua “secondarietà” rispetto all’uno o di uno schema che oscilla dall’uno e dall’altro senza creare spazio per l’accoglienza del “terzo”, ad ambedue accomunato nell’uguaglianza e nella differenza. Ciascuno dei due “manichini” lascia intravedere sotto la conformazione corporea (curiosamente deformata nell’esaltazione del tronco e del capo, lasciando solo in abbozzo gli arti inferiori) quasi l’evocazione di ere precedenti, strutture e segni di un passato nel quale l’uomo si è compreso e raccontato.
Di cosa è fatta allora l’interiorità che custodisce l’identità dell’io? Ogni comprensione che pretende di essere immediatamente normativa, fallisce nell’individuare la complessità che ciascuno di noi è. Quella complessità che De Chirico esprime ponendo nel mondo interiore le vestigia di edifici e costruzioni che pure raffigura anche nello sfondo monocromo, esterno ai due soggetti, unicamente rotto da una linea blu, quasi tracciando un fiume attraverso cui fluisce la storia delle cose umane (panta rei…). E allora quanto di esteriorità c’è nell’interiorità? L’essere preceduti da una cultura plasma certamente l’identità, in una forma in cui la determinazione non è però determinismo. Ma quanto l’interiorità di ciascuno è preziosa per scoprire l’esteriorità? Quanto cioè il punto di vista individuale contribuisce ad arricchire la possibilità di dare un senso comune alla cose e alle esperienze di ogni giorno? Anche quelle legate alla fatica di vivere insieme? Anche quelle che possono interrompere schemi di pensiero irrigiditi in espressioni che possono offrire un volto “deformato” alla realtà (cfr. gli arti inferiori esageratamente corti nell’opera di De Chirico)? Deformazioni certamente presenti sia nella radicale de-costruzione, quasi parodistica, dell’umano, ma anche là dove si oscura la leggibilità e la comunicabilità della parola dell’Evangelo in vista del compimento buono e sensato della vita umana da declinare nei percorsi esistenziali di ciascun soggetto.
Note
1 È quanto ho proposto in P.D. Guenzi, Sesso/genere. Oltre l’alternativa, Cittadella, Assisi (PG) 2011
2 Ideale complemento al paragrafo 56 di Amoris Laetitia sono i numeri 280-286 dell’Esortazione dedicati all’educazione affettiva e sessuale
© Bioetica News Torino, Agosto 2016 - Riproduzione Vietata