In Italia la GPA (Gravidanza per Altri), diventa reato universale, grazie al ddl della deuputata FDI Carolina Varchi, approvato in data 17 ottobre u.s.
La GPA nel nostro paese è vietata da venti anni, ma da ora in poi la punibilità viene estesa anche da coloro che la praticano all'estero.
Pubblichiamo, perciò, una interessante riflessione bioetica a riguardo, a cura di Adriana Di Biase.
Questo articolo vuole essere una riflessione bioetica sull’infertilità e la necessità di risoluzioni cliniche e non. In particolare, si pone l’attenzione sulla gravidanza fuori dal corpo materno, analizzando le opzioni mediche e sociali a disposizione delle donne. L’intento è porre l’attenzione sul problema dell’infertilità e sulle possibili soluzioni cercando di valutare dove le necessità mediche individuali possono anche incontrare quelle collettive, in maniera consapevole e libera.
La gravidanza è lo stato della donna che porta nel proprio utero un embrione in via di sviluppo. La gestante porta dentro di sé un corpo che si sviluppa grazie a processi cellulari altamente sofisticati, che portano la crescita di nuove strutture biologiche a livello uterino necessarie ad assistere lo sviluppo fetale.
La gravidanza potrebbe quindi essere intesa come “un’estensione di sé stessa” dentro sé stessa e a volte fuori da sé.
“Fuori da sé stessa” quando la capacità procreativa viene a mancare e per alcune donne è necessario valutare altre opzioni: donatori, maternità surrogata, adozione. La maternità surrogata (una metodica ormai già ben consolidata in alcuni Paesi) è una forma di procreazione assistita, dove una donna si occupa dell’intera gestazione per conto di un’altra donna, che diventerà poi il genitore.
Tale metodica viene regolamentata attraverso documentazioni legali che stabiliscono i dettagli del processo, le conseguenze post nascita e la retribuzione, qualora la gestazione della “donna non genitore” venga economicamente compensata.
Differentemente, una maternità surrogata compassionevole consiste nella donazione altruistica che una donna (spesso amica o parente della futura madre) fa per l’altra donna, che ne possiede la necessità.
Il desiderio di un figlio, in questo caso metaforicamente si estende “fuori da sé”. Il bisogno di una donna supportato dal gesto d’amore di una seconda, che risponde a questa necessità. Il corpo di una donna che si offre in aiuto: utero, vasi, ormoni, monitoraggi, medicazioni, un ventre che cresce, un feto che si sviluppa. Per nove mesi..
Un incontro tra due donne: una che esce da sé in senso biologico, corporale ed emozionale, incontrando ed accettando il bisogno di un altro corpo, l’altra che si presta uscendo da sé al momento del parto, quando i nove mesi sono terminati. Perché quello che era in sé diventa dell’altra. Un dono da parte della surrogata, che a conclusione del processo se ne distacca,
forse con una tristezza velata o forse senza alcun dolore. Nove mesi di comunicazione tra due entità separate ma legate, dipendenti l’un dall’altra, ma slegate da un patto chiaro e temporalmente definito.
Può questo legame così lungo e ricco di scambi non solo biochimici essere veramente a tempo determinato?
Un processo, la surrogata, spesso frutto di una donazione ma molto più spesso, un vero e proprio servizio offerto dall’azienda ospedaliera che segue processi chiari e strutturati e tariffari ben stabiliti.
Può un processo del genere essere offerto da un servizio a pagamento? C’è poi un’altra donna che esce da sé. Quella che senza poter avere guarda dove può dare. Quella che esce fuori dalla sua rabbia, tristezza e frustrazione restando ferma, nelle sue
membra. Anche se vorrebbe uscirne. Magari paralizzata, ma ci resta…Eppure esce fuori da sé, guardando oltre quello che non riesce ad avere.
L’incontro in questo caso è diretto, con il bambino. Dove il gesto d’amore del dare esaudisce il desiderio stesso del ricevere. Senza medicazioni, senza scambi tra corpi, ma con un incontro che risponde non solo al suo di bisogno ma anche a quello sociale, di chi vive un abbandono o perdita, un supporto già troppo piccolo/a.
In questa “estensione di sé, fuori da sé”, la donna in questione decide di adottare e lo fa incontrando un bisogno collettivo, perché il suo uscire da sé stessa (restando nei suoi stessi limiti biologici, suoi o di un altro membro della coppia) è come un grido che arriva lontano. Un grido che incontra il fiato di un bambino, dove due bisogni opposti e complementari s’incontrano, l’uno del dare e l’altro del ricevere.
Ed allora in sé o fuori da sé, il desiderio d’amare può crescere oltre i limiti dettati dal corpo incontrando una dimensione sociale, che supera quella medica e biologica. Uscire fuori da sé stesse incontrando i bisogni collettivi dove i propri si appagano. Un paradosso? Cittadinanza attiva come cittadine in azione, con dei limiti ma pur sempre libere, consapevoli e partecipi. Un limite in azione. E se la stessa limitazione in azione potesse risolvere alcuni dei bisogni della collettività?
E se la donna in azione incontrasse il muro di una legge sulle adozioni non aggiornata o adeguata? Che azione allora potrebbe prendere?
Una procedura medica di cura dell’infertilità sarebbe forse una strada più veloce ed effettiva?
Nonostante le tecnologie di riproduzione assistita offerte risultino sempre più all’avanguardia, sempre più accessibili, le possibilità di appagare il diritto genitoriale restano molteplici e non sono solo quelle offerte dal sistema ospedaliero.
Che alternative ha una “cittadina attiva “di accedere alle liste di adozione? E con quali attese, con quali requisiti rispetto alle procedure medicalizzate?
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