Massimo Gramellini ha pubblicato sulla prima pagina de La Stampa del 15 novembre 2012 (Tra Savita e la morte), un articolo indignato per la morte di Savita Halappanavar, giovane dentista irlandese di origine indiana e di religione hindu, morta nell’ospedale universitario di Galway per setticemia.
Il noto giornalista asserisce che il decesso è dovuto alla determinazione dei medici di non intervenire con l’aborto durante la diciassettesima settimana di gestazione, nonostante fosse subentrato un quadro clinico gravemente patologico che metteva a rischio la vita del feto e provocava dolori lancinanti alla madre.
A suo dire, il rifiuto a procedere all’interruzione di gravidanza sarebbe stato giustificato dal fatto che «l’Irlanda è un paese cattolico dove, finché si sente battere il cuore del feto, non è possibile interrompere niente». A onor del vero, non è corretto sostenere che esiste una pesante ingerenza della Chiesa sulle leggi di quella nazione.
È altresì indispensabile evidenziare che la vicenda deve essersi svolta in modo diverso da come ipotizzato. L’Irlanda, infatti, in maniera del tutto autonoma e ovviamente indipendente dal pensiero ecclesiale, ha approvato una legge che consente l’aborto nelle situazioni che rischiano di mettere a repentaglio la vita della madre. I medici pertanto, stante il parere favorevole della Signora Halappanavar, se l’avessero ritenuto tecnicamente adeguato, avrebbero potuto procedere all’aborto nel rispetto delle leggi dello Stato.
Come ha suggerito Martin Long, portavoce della Conferenza episcopale irlandese, nell’intervista rilasciata a «Sir Europa», prima di formulare giudizi è doveroso conoscere più a fondo le circostanze dell’evento. Le due indagini in corso offriranno elementi per chiarire l’accaduto, evidenziare eventuali negligenze nelle prestazioni dei medici e permettere un giudizio etico più ponderato e consapevole.
È però utile fin da ora porre alcune precisazioni. Troppo spesso, infatti, si bersaglia la Chiesa senza essersi sufficientemente documentati sul suo effettivo punto di vista. Negli anni Trenta dello scorso secolo si è a lungo discusso sui casi in cui s’individua un pericolo per la vita della madre e del feto.
È certamente apprezzabile l’eventuale volontà della madre di salvaguardare la vita fetale anche con grave rischio per la sua salute, ma quest’atto eroico non è certamente l’unica soluzione possibile e incondizionatamente consigliabile. Non è tantomeno ammissibile l’immediato ricorso all’aborto. Insigni teologi sono stati concordi nell’affermare entrambe le vite sono degne di tutela. Tale tutela va condotta, fin quando è attuabile, con i mezzi tecno-scientifici ordinariamente a disposizione. Hanno perciò suggerito di monitorare con grande perizia e prudenza l’evolversi della malattia, tenere costantemente e accuratamente informata la donna incinta, anticipare il parto appena il feto è viabile (capace di proseguire il processo vitale al di fuori dell’utero). Hanno anche considerato la morte del concepito come conseguenza prevedibile, ma non direttamente ricercata, di atti medici dettati dalla buona pratica clinica e riconosciuti validi per la cura della mamma.
Tali interventi non sono equiparabili all’aborto direttamente voluto e sono giustificati se l’azione medica ha il positivo scopo di migliorare lo stato morboso della gestante. L’effetto collaterale cattivo, pur essendo previsto, non è direttamente voluto e non è un mezzo per arrivare al fine. Non c’è, inoltre, la possibilità di agire diversamente, né di ritardare la decisione (principio del duplice effetto).
Allo stesso modo, si ritiene possibile asportare una tuba, sede di gravidanza ectopica, qualora non avvenga un aborto spontaneo e sia imminente il rischio di una grave emorragia per fessurazione della parete tubarica. Non è possibile, però, applicare tale principio per giustificare interventi in corso di patologie quali la preeclampsia e la corioamnionite.
La prima, detta comunemente gestosi, è caratterizzata dalla comparsa nella madre di edema (accumulo di liquido negli spazi interstiziali dell’organismo), proteinuria (perdita di proteine con le urine) e ipertensione. Nei casi peggiori può provocare la morte sia del feto sia della madre. La patologia si risolve con il parto che in questi casi è indotto. Se avviene nelle ultime settimane della gravidanza, il neonato sopravvive senza particolari difficoltà. Se invece è precedente, i rischi sono maggiori soprattutto a causa dell’immaturità polmonare e del possibile sopraggiungere di un’emorragia cerebrale.
Allo stesso modo avviene con la corioaminionite, infiammazione che nelle forme più acute può causare alla madre una setticemia e al feto patologie quali la paralisi e l’enterocolite necrotizzante. Nei casi peggiori mette a rischio la sopravvivenza di entrambi. È indicata la terapia antibiotica che però può essere nociva per il feto se somministrata prima della ventiquattresima settimana di gestazione. Se l’insorgenza è precoce e crea gravi complicanze, è tecnicamente consigliata l’induzione del parto o l’estrazione del feto con taglio cesareo (cfr Faggioni, 2008; Merlo, 2009).
Tale possibilità è ancora ampiamente dibattuta dai bioeticisti cattolici. La rimozione del feto non è motivabile in base al principio del duplice effetto (l’asportazione è il mezzo proprio per giungere al fine). Non è neppure applicabile il principio di totalità perché il feto non è pars viscerum della madre. È comunque giustificata quando si è raggiunta la certezza che il feto non sia più salvabile. In questo caso si compie l’unico bene ancora possibile, la salvaguardia della vita della madre.
© Bioetica News Torino, Gennaio 2013 - Riproduzione Vietata