“Carezza II”, foto di Caterina Vitagliano
«Siamo entrati in un mondo in cui ogni caduta morale avviene da uno sgabello di pochi centimetri», scriveva Italo Calvino. Si direbbe che, dopo secoli di “evoluzione”, sia cominciata la decadenza: se non biologica, certo culturale della specie umana. Gli ultimi trent’anni, segnati in Occidente dall’edonismo e dall’individualismo, con un appiattimento sul presente, sull’immediato come non si poteva neppure immaginare nel passato prossimo. Nessun Papa aveva mai parlato di una generazione «sazia e disperata» – come se il prezzo di un relativo benessere raggiunto venga pagato con la caduta di ogni prospettiva di futuro.
L’idea della «fine della storia» (Fukuyama) confusa con la vittoria provvisoria di un certo capitalismo globalizzato ha dimostrato, per altro, di non reggere a se stessa. Proprio dal culto del denaro, dalla montagna di ricchezza virtuale è esplosa la crisi che ora sta rimettendo in discussione l’intero schema, mettendoci di fronte a una realtà precisa: il mondo doppiamente virtuale non riesce affatto a rispondere a quelle domande di senso che le persone “reali” cercano, ogni giorno della vita. Non è dalle tecnologie né dalla ricchezza finanziaria che possono venire le soluzioni “vitali”. Una crisi, ancora, che potrebbe rivelarsi salutare: se riuscirà, oltre i disagi e le sofferenze che sta provocando, a farci riflettere su un quadro di valori diverso, forse meno “moderno” ma molto più concreto.
È una sfida che riguarda, nel profondo, soprattutto il mondo della comunicazione. Abbiamo tutti la sensazione, oggi, che le nostre relazioni siano divenute relazioni “con lo schermo”. Invece di cercare l’incontro con le persone vere ci accontentiamo di qualche surrogato visivo; e consideriamo “progresso” la comunicazione a distanza che cancella quella “prossima”.
È proprio il “prossimo”, invece, il vicino che abbiamo bisogno di riscoprire. Perché la verità della nostra vita passa da lì, e il digitale è solo uno strumento. In questo senso, allora, il primo passo è uscire dalla logica del profitto e recuperare la dimensione del gratuito. Il gesto, la parola “che non serve a niente” potrebbe essere quella che ci salva la vita.
© Bioetica News Torino, Dicembre 2012 - Riproduzione Vietata