Ma nel mio cuore nessuna croce manca
Amo la mia professione da internista proprio per la sua vocazione intrinseca a osservare e curare il malato partendo da una visione d’insieme, che coinvolga il suo aspetto fisico, psicologico e spirituale. Ho sempre ritenuto tutti questi come aspetti fondamentali per accostarmi alla storia del paziente.
All’inizio dell’emergenza Covid, insieme ai colleghi, ho percepito fin da subito una sorta di impotenza di fronte all’avanzare impietoso di questo nemico che piano piano diventava sempre più vicino e visibile. Le notizie arrivavano spesso confuse e frammiste a esperienze dirette di altri colleghi da altre regioni d’Italia.
Dai primi giorni di marzo abbiamo capito che ci saremmo trovati a fronteggiare una vera e propria emergenza, che non avrebbe solo riguardato i nostri pazienti, ma che ci avrebbe tirato dentro con tutte “le nostre scarpe”, coinvolgendo le nostre famiglie, le nostre vite private, i nostri più cari affetti.
A fine marzo mi è stato chiesto di andare a lavorare in un reparto del nostro ospedale dedicato alla cura dei pazienti Covid-positivi. Un reparto per pazienti “a bassa intensità di cura”, gestito da un’equipe di più specialisti che si erano resi disponibili per questo scopo: turni in reparto di isolamento, dettagliate procedure di vestizione e svestizione, ore e ore con addosso quelle tute e quelle mascherine, divenute tristemente famose.
L’attesa del primo turno l’ho vissuto con molta apprensione. Apprensione che però ha cominciato ad affievolirsi già dopo la prima visita. Per la prima volta non ho sentito una così chiara distinzione medico-paziente. Ci trovavamo lì, spaventati, a combattere entrambi una battaglia difficile.
Ho sempre ritenuto un privilegio, la possibilità di entrare nella vita di una persona, proprio nei momenti in cui questa si stava spegnendo. In questi mesi l’ho ritenuto ancora più prezioso questo privilegio, ancora più sacro, soprattutto con le tante persone anziane che sono state ricoverate.
Nelle chiamate quotidiane con i parenti, la comunicazione andava oltre le notizie cliniche. «Mio papà è sereno? Ha paura? Le dica che noi non l’abbiamo abbandonato…» erano le richieste più frequenti. E allora il tempo delle visita era più spesso dedicato a comunicare ai pazienti la vicinanza e l’affetto dei propri cari, anche grazie alla tecnologia. La solitudine dei malati e dei familiari era tangibile ogni giorno e la cura spesso era mirata ad alleviarne il peso.
Molti anziani, molti nonni sono deceduti in questi mesi. Se ne sono andati ingiustamente soli. Se ne sono andati silenziosamente. E molte famiglie non hanno potuto dare un’ultima stretta di mano, un ultimo saluto e rendere giustamente onore alla loro vita. Queste ferite me le porto ancora dentro ogni giorno, sapendo che un dolore così grande non ha bisogno di risposte ma ha bisogno di ascolto e cura.
Sicuramente un grande lavoro di équipe ci ha fatto affrontare i problemi che si presentavano giorno per giorno con prontezza e anche con un po’ di fantasia. Ci siamo confrontati quotidianamente con queste fatiche e abbiamo condiviso le gioie incontrate lungo il percorso. Storie di guarigioni, di famiglie riunite, di amicizia. Il confronto e il sostegno reciproco ci ha permesso di non affondare e di guardare al futuro con speranza. Questa è stata per me una vera sorpresa. Ho visto la generosità di molti colleghi e la capacità di mettersi in gioco e di reimparare un nuovo modo di lavorare.
Quando pensavo alla lotta al Covid, ho sempre pensato che le armi vincenti fossero le medicine e il corretto utilizzo dei dispositivi di ventilazione. Nell’esperienza che abbiamo vissuto, ho capito che armi fondamentali sono stati anche l’ascolto e il lavoro di squadra, per combattere il nemico più subdolo che questa malattia si è portato dietro: la solitudine.
Siamo stati famiglia per molti pazienti. E loro lo sono stati per noi.
© Bioetica News Torino, Luglio 2020 - Riproduzione Vietata