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97 Lug-Ago 2023
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Dirigere e curare: le questioni della bioetica Breve esercizio di fenomenologia

Rinunciare una volta tanto, mentre si fa lezione, al power point, equivale a mettere tra parentesi, nell’incontro clinico, il data storage, la E-chart, le E-medical record. Significa fare un esercizio di fenomenologia (didattica o medica). Il paziente (perdonate la banalità) viene prima del computer e lo studente viene prima del registro di classe. Per evitare che ci turbino preconcetti, pregiudizi, teorie assurde, luoghi comuni e altre fonti di astrazioni e distrazioni (macchine “aliene” in ambulatorio o in aule di lezione), occorre “ridurre”, questa è la parola della fenomenologia. Ridurre il dato a ciò che si dà. Non che le oggettivazioni della conoscenza (formativa e clinica) non servano. Ma ciò che ci sta a cuore è da un’altra parte: formare (o essere formati – medical education – non riempire il magazzino mentale di nuove medical news), curare (ed essere curati – Care – non riparare l’ingranaggio guasto)1.

La dimensione umana nella relazione medico/paziente e medico/allievo

Ciò che originariamente si dà a noi, nel vissuto (Erlebnis) di una lezione o di una visita medica, non è il contenuto nozionale di un manuale (il manuale scolastico  potrebbe sbagliare) e nemmeno le immagini del trattato di anatomia (non so infatti quanto ci sia di normale e quanto di patologico nell’anatomia del paziente; e poi il corpo dell’anatomia è quello tagliato – ana-tèmno – non necessariamente quello vivente, meglio quello vissuto)2.

Che cosa dunque sta accadendo tra me e voi? Ascolto? Sento? Guardate? Vedete? L’informazione che io fornisco oggi a voi, come quella che voi date a pazienti, cittadini o gestori di un servizio è adeguatamente offerta e adeguatamente compresa? Lasciamo una volta tanto  che a dare segno di sé sia il corpo vissuto (Leib) e non il corpo dell’anatomia(Körper). Lasciamo che sia la relazione di fiducia o sospetto o addirittura disprezzo a prender corpo (corpo appunto) tra un insegnante e il suo allievo o i suoi allievi, tra il tutor e il gruppo, tra il sanitario e il paziente.

Che fenomeno si mostra quando la tecnica e la scienza non hanno ancora o non hanno più nulla da dire? Può mostrarsi, ad esempio un dissenso tra valori, i valori del docente e della classe, i valori dei manager e del loro personale, i valori di un sanitario e del suo paziente. Rischiamo che, di fronte al dissenso tra corpi vissuti, prenda troppo presto il sopravvento la preoccupazione di controllare, registrare e seguire le procedure tecniche. Ma queste procedure non hanno a che fare con il senso dell’agire. Dicono tutto o quasi tutto sul come usare il bisturi o l’atlante o il microscopico. Ma non conoscono il perché, la giustificazione narrativa o razionale delle valutazioni che stiamo dando: perché evitare l’accanimento terapeutico? Perché non consentire la maternità gratuita di sostituzione? Perché forzare la nutrizione artificiale di un carcerato che faccia per motivi politici lo sciopero della fame? Perché agevolare in certi casi strazianti il suicidio assistito? Perché uno studente non può vestirsi come vuole quando entra in classe e usare il cellulare come gli pare? Perché non interrompere con fischi il docente di etica che ha cominciato a fare il moralista occulto?

Poste queste domande, è difficile che la coscienza incarnata non abbia vibrazioni. C’è infatti in gioco non un dato grezzo che posso mettere a distanza e incamerare nel serbatoio delle mie conoscenze. Ci sono in gioco io, senza camice bianco, senza una macchina radiologica troppo ingombrante, io che arrossisco o mi metto stranamente ad alzare la voce, che mi spavento dell’obiezione o che mi sento lusingato da un complimento!

Accade una relazione (di docenza o indottrinamento, di cura o di contrattazione, colorate di premura o di noia), nel cui contesto si effettua una comunicazione (non una semplice trasmissione di informazione). L’empatia, contro quel che dice qualche guru delle pratiche-psi o qualche prete sentimentale che raccomanda amore (quale amore?), scatta da sé. Io sono già dentro l’altro (e viceversa) prima che me ne accorga. Il compito è quello di abitarci in prima persona. Se invece registriamo, nel prendere decisioni d’equipe, un deficit empatico e un distanziamento anaffettivo (siamo tecnici, mica umanisti – replica il solito saggio), la relazione in carne e ossa genera vissuti di abbandono, di sospetto, di risarcimento, di conflitto.

Le conseguenze sono palesi ma non dovrebbero essere sequestrate dal cassetto dell’Ufficio Relazioni col Pubblico, né gestite sul solo versante psicologico. Si tratta spesso di un modello professionale eticamente sbagliato, un modello iatrotecnico, in cui si fa ciò che è possibile sul piano biomedico (evidence based medicine), ignorando che non tutto ciò che è “possibile” è eticamente legittimo (narrative based medicine). Ne vengono strane conseguenze. Se le dimensioni umane della relazione terapeutica non vengono considerate ed elaborate, aumenta paradossalmente (nonostante l’incremento dell’attenzione intellettuale e il ricorso ad androidi dispensa-farmaci) il clinical risk, dato che, come diceva Lacan, ogni atto mancato è un discorso riuscito. Pertanto, con buona pace dei tecnocrati digitali, la gestione organizzativo/giuridico/economicista del clinical risk è insufficiente.

I sofisti greci utilizzavano l’epochè nella loro arte retorica, per immaginare che cosa sarebbe il mondo se fosse illusorio ciò che vediamo e vero ciò che immaginiamo. L’etica medica impone un “passo indietro” del medesimo tenore. Proviamo a dubitare delle macchine (come sempre fanno i pazienti, anche quando le venerano) e ci troviamo a commerciare tra corpi e con i corpi: sani o malati, dirigenti o diretti, aziendali o artigianali. E si svela il modo in cui ci comportiamo in questo universo in cui l’ “obbedienza non è più una virtù” (don Milani docet), almeno da quando l’alba della bioetica ha scoperchiato negli anni ’70 gli scandali biomedici dei civili, civilissimi, “obbedientissimi” United States of America: Willowbrook State School di Staten Island, Jewish Chronic Disease Hospital di New York, Tuskegee in Alabama.

Suggeriamo come esercizio (dopo il malinconico tramonto dai gruppi Balint) giochi di ruolo con supervisione etica per analizzare le parole e i gesti essenziali della relazione. Si guardi l’incipit del film di Almodovar Tutto su mia madre, Spagna, 19993 . Sbaglia una parola e non c’è pc che ti salvi!. Fra l’altro i pc si ribellano, prima o poi, e i Nexus 6 di Blade Runner tornano dal loro creatore per reclamare risposte.

Altri due suggerimenti fenomenologici:

1. monitorare, attraverso task force coordinate da membri del comitato d’etica, il modo in cui avviene la raccolta del consenso scritto da parte di malati o soggetti di sperimentazione. Il grande documentarista Frederick Wiseman aveva piazzato una camera fissa, col consenso dei presenti, in un ospedale americano, il Beth Memorial Hospital di Boston (Near Death, Usa 1989, più di 6 ore in bianco e nero, tutti i colloqui registrati);

2. istituire dipartimenti di bioetica clinica (in cui siano attivi consulenti in etica clinica) non focalizzati sulla review etica dei trial di ricerca, ma sui dilemmi sollevati da concreti clinical case. Il Comitato Nazionale italiano per la Bioetica ha finalmente approvato un profilo di competenze necessarie per qualificare, in alcuni settori, uno studioso che agisca da “eticista biomedico” o “consulente di etica biomedica”. Rimango del mio avviso. Le competenze sono tre: il componente di un Comitato d’etica deve avere una formazione documentata in etica e biomedicina e anche in psicologia relazionale, se si occupa di problemi clinici. I centri di etica sono d’accordo con me?

Continuiamo la nostra ricognizione husserliana. Ora mettiamo tra parentesi non solo tablet, what’s up, user’s name, password, hacker, bug, ma anche l’ideal-tipo di professore, docente, coordinatore, medico, infermiere, dirigente per come viene raccomandato dalle policy attuali e interroghiamoci su quali conflitti di valori ed interessi viviamo quotidianamente come docenti istituzionali o come dirigenti di aree complesse in sanità. Chissà perché ci sono così pochi articoli sull’etica dell’insegnamento e così tanti sull’insegnamento dell’etica. Forse gli eticisti soffrono di un complesso narcisistico di personalità, come quegli psicoanalisti che si ritengono immuni da giudizi morali se hanno condotto un’analisi tecnicamente perfetta? Orientiamoci quindi verso la bioetica istituzionale, la nuova frontiera dopo il Covid, il palleggio di responsabilità, i camion militari pieni di salme…

I conflitti etici e la bioetica istituzionale

Quotidianamente in sanità sono a conflitto valori, scopi e interessi diversi: l’immagine delle istituzioni, il profitto delle imprese economiche, la serenità lavorativa degli staff di ricerca, l’interesse dei pazienti o dei cittadini (ad esempio dei vaccinandi), pressioni di ordine politico, economico o militare, la rapida progressione di carriera (nelle università, negli ospedali, nelle chiese). Il conflitto è normale, fisiologico.

È invece anormale (sul piano prescrittivo) e pericoloso il fatto che non venga affrontato tematicamente ed elaborato concettualmente. L’alto contenzioso medico-legale è proporzionale, a nostro avviso, anche alla mancata trasparenza, alla scarsa discussione, e alle mancate decisioni (lo dico ai cari decisori che mi ascoltano) su tali conflitti. Dovrebbe essere esplicitata dalle amministrazioni sanitarie, dopo essere stata discussa con i dirigenti (che hanno fra l’altro, come dirigenti, un loro codice deontologico oltre a quello degli Ordini dei medici, dei Collegi infermieristici e così via), non solo la generica mission della struttura, ma anche i criteri decisionali e operativi che la collettività democratica, dentro e fuori l’health care setting, vorrebbe conoscere.

Prima manifestazione di sorpresa. A noi sembrerebbe patologico che non ci fossero mai conflitti etici dentro un’equipe (medica o etica – ossia dentro un servizio di bioetica), dato che tutta la società sta discutendo di problemi pluralistici laceranti. Le coscienze dove sono finite? Perché i comitati d’etica tacciono? Perchè, a loro volta, i comitati d’etica non ricevono a) lettere di complaint dagli attori morali coinvolti o b) verbali di riunioni in reparto conclusesi con una divisione tra maggioranza e minoranza? Magari un giovane tecnico di radiologia ha notato un conflitto d’interesse nelle procedure. A chi lo può segnalare se il suo primario fa orecchie da mercante? Idem per i centri di ricerca in etica: come è possibile che gli statements o i verbali siano così spesso all’unanimità? O che addirittura manchino statements espliciti su un problema socialmente rilevante? Non è compito di chi fa ricerca in etica quello di far conoscere le proprie tesi?

Del resto, anche le istituzioni si ammalano e, in mancanza di diagnosi e cura, i conflitti vengono occultati, come un malato che non riferisce d’aver febbre, e il cui quadro clinico si aggrava. Un economista aziendale mi insegnò una volta che le aziende vivono di un equilibro “umorale” interno simile a quello che regolava la medicina antica. I fini intrinseci, per farla breve, sarebbero quattro: 1. Redditività; 2. Efficacia dei servizi; 3. Cura della socialità interna ed esterna; 4. Presentazione e difesa, promozione pubblica dell’immagine. Perseguirne uno a scapito degli altri conduce a impasse e contraddizioni operative. Non so se chi mi ascolta o legge è d’accordo e quali esempi voglia portare, esempi tratti dalla sua personale esperienza.

Io suggerirei di considerare il dilemma relativo ai criteri di triage, di definizione delle liste di attesa, di priorità allocativa in condizione di scarsità di risorse. A volte senza saperlo, le istituzioni optano per una determinata teoria etica (quindi filosofica) di giustizia e sposano una visione di giustizia (un racconto originario di vita giusta) che oscilla almeno tra queste coordinate. Vi sono posizioni i) egualitaristiche; ii) utilitaristiche; iii) liberistiche; iv) legate al bisogno. Quindi, per far fronte a problemi etici, occorrono competenze etiche (l’uso dei QALYs come strumenti “neutri” per il calcolo dei benefici è discutibile ed è stato criticato).

Suggeriremmo pertanto che i dirigenti esigano che il comitato etico istituzionale sia

a) indipendente dall’ente che lo istituisce;

b) interdisciplinare;

c) pluralistico e

d) che tale comitato elabori raccomandazioni anche di merito istituzionale e non si occupi solo della prassi clinica o della ricerca clinico-farmacologica.

e) Inoltre il regolamento dei comitati dovrebbe prevedere momenti di valutazione della “produttività” del gruppo di lavoro. Se i componenti fossero, ipoteticamente, sospettati di negligenza, imperizia, imprudenza, sarebbe meglio valutarne il lavoro ed eventualmente sostituirli tout court o avvicendarne i membri con velocità regolamentata.

Curiosità. Se desiderate fare in estate un’avvincente lettura dell’opinabile coerenza con cui certi restauri sarebbero stati condotti (secondo il discusso giudizio di un esperto Usa in storia dell’arte) da tecnici, che hanno privilegiato, per motivi non tecnici ma cripto-estetici, una piatta superficie pittorica colorata in modo luminoso, brillante e pulito (grattando via le preziose velature deposte dai maestri e facendo somigliare il marmo alla plastica), potreste leggere: L’arte violata. Una valutazione sulla cultura del restauro, di James Beck, Fucecchio, Europ. Press Acad. Publ., 2002. Erudizione? Niente affatto: il restauro esprime la cura per il costruìto, come la terapia ha cura del corpo malato e l’insegnamento si prende cura della persona in formazione. Buona lettura!

Note

1  Testo di riferimento per il seminario tenuto alla riunione Plenaria dei Corsi per Dirigenti di struttura complessa, Milano, Regione Lombardia, ente Polis, 8 giugno 2023 e consegnato per pubblicazione, alla rivista Bioetica News Torino

2 P.M. Cattorini, Bioetica. Metodo ed elementi di base per affrontare problemi clinici, Milano, Elsevier, 4° ed. 2011

3 Idem,  Bioetica e cinema, Milano, FrancoAngeli, 2° ed. 2006

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