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97 Lug-Ago 2023
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Un po’ di chiarezza sull’uso dei termini GPA, maternità surrogata e utero in affitto



Nel dibattito pubblico ci si riferisce alla gestazione per altri (GPA) con almeno altre due espressioni, maternità surrogata e utero in affitto. Non sono espressioni neutrali e ognuna di esse ne mette in luce una particolare sfumatura.

L’equivocità su “Gestazione per altri” come “dono di sé”

L’impressione è che parlando di GPA si intenda descrivere l’azione della gestante come una pratica aderente ad un’etica del dono. Ma, diversamente da quanto si vorrebbe far credere, quel che la donna “dona” non è il proprio corpo o il proprio utero. Il donato è il figlio: appena nato, viene privato del contatto pelle a pelle con la madre che l’ha gestato, allontanato dal battito cardiaco che l’ha cullato, strappato dal seno che già produceva per lui il prezioso colostro e, soprattutto, inizia la propria vita come vittima di una sovversione dell’imperativo kantiano, venendo trattato come una cosa – donato ai committenti.

La “Maternità” può essere considerata un valore d'”uso”?

Quando si sceglie di parlare di maternità surrogata sarebbe bene essere chiari sul significato del verbo surrogare.

Se manca un consigliere comunale può essere surrogato da un altro, se manca un autista può essere surrogato da un altro. Il debito di Tizio può essere surrogato da Caio. Sostenere che la maternità possa essere surrogata, come il posto del consigliere comunale, come il posto dell’autista, come la posizione del debitore Tizio, significa ridurre la gestazione a mera funzione, e scollegarla dalla fenomenologia del vissuto di madre e figlio durante i mesi della gravidanza.

E che questo vissuto non implichi solo la sfera emotiva è confermato dall’evidenza scientifica oggi disponibile.

Dobbiamo capire bene che cosa è la maternità. Si potrebbe dire che è un viaggio a due (madre e figlio) che inizia quando il figlio, negli stadi iniziali viaggia dalle salpingi verso le pareti dell’utero ove si annida. Da allora vi è uno scambio continuo di segnali biochimici tra i due. Gradualmente il figlio dà esecuzione al progetto scritto nel suo nuovo Dna costituito al 50% dal padre e al 50% dalla madre. Intanto la donna si trasforma in mamma assecondando il figlio per ogni sua necessità.

Una enormità di studi scientifici documentano come questa relazione cresca in intensità e in modo armonioso. È bene per il figlio e la madre che questo periodo sia vissuto in modo sereno. È un tempo di attesa, infatti la mamma si confida con le amiche dicendo che “aspetta un figlio”.

Nei Centri di Aiuto alla vita giungono mamme in attesa di un figlio ma spesso minacciate dal partner, dai familiari o dai datori di lavoro. La gravidanza può risentire del clima ostile così come trarre beneficio da un clima accogliente. La maternità dovrebbe essere accompagnata da una paternità altrettanto accogliente.

L”utero in affitto” può essere l’espressione più appropriata

Forse la contestata espressione “utero in affitto” è la più onesta per descrivere una pratica che risponde alle regole del mercato e della produttività con una piuttosto evidente tendenza eugenetica (oltre ai controlli pre-impianto, ci sono clausole contrattuali che proteggono i committenti nel caso in cui il nascituro presenti malattie o varianti genetiche indesiderate e, come per ogni buon prodotto di mercato, esistono addirittura delle “fiere” dell’utero in affitto – a maggio se n’è tenuta una a Milano).

Non a caso è una pratica mutuata dall’ambiente dell’allevamento delle vacche. Per esempio una vacca di razza frisona con una produzione di 100 litri di latte al giorno è il frutto di una lunga selezione fatta dagli allevatori. Tuttavia prestazioni di questo livello non consentono di avere più di tre o quattro gravidanze, per cui le vacche vengono fatte superovulare per poi fecondarne gli ovuli con il seme di tori opportunamente selezionati da catalogo. Gli embrioni così ottenuti vengono reimpiantati in vacche di poco valore che debbono però portare a termine la gravidanza. Ecco l’origine della gestazione per altri (https://ruminantiamese.ruminantia.it/impianto-di-embrioni-di-razze-da-carne-su-bovine-da-latte-di-razza-frisona-italiana/).

Non esiste un’espressione neutra tale da riuscire a nascondere l’intrinseca disumanità di questa pratica, disumanità che corre su un doppio binario.

Da un lato, è disumano il trattamento della gestante che risponde alla sottomissione del corpo femminile al mercato e alla tecnologia: dire che la donna può scegliere di mettere a disposizione il proprio utero e offrire la propria esperienza di gravidanza non a beneficio del figlio, com’è naturale che sia, ma a beneficio del desiderio di altri adulti, è praticamente sinonimo di una nuova schiavitù della nostra società tecnocratica.

Dall’altro, la disumanità riguarda il trattamento del figlio. Perché sul suo trattamento le intuizioni vacillano? Perché non appare evidente la violazione dell’imperativo kantiano? Di nuovo, la parole sono importanti. Se l’embrione viene dequalificato ontologicamente a “grumo di cellule” o a “prodotto del concepimento”, anziché considerarlo persona, è facile pensarlo come una cosa. Questa osservazione ricalca quella di Carlo Casini che, parlando di aborto, sosteneva che pensare all’embrione come a una non-persona «offre pretesti al cedimento della coscienza».

È necessario proclamare chiaramente che il concepito è una persona e che la gravidanza è la fonte primaria della vita relazionale umana, non un modo accidentale di venire al mondo. Nessun dibattito onesto sulla GPA può prescindere dal riconoscimento della peculiarità fisica ed esperienziale della relazione tra madre e figlio che si verifica nel corso della gestazione.

© Bioetica News Torino, Agosto 2023 - Riproduzione Vietata