Introduzione
a cura di Enrico Larghero
Si conclude con le riflessioni di Monsignor Marco Brunetti, Vescovo di Alba, il Dossier «Salute. Inchiesta: la sanità del futuro» che da settembre ha trovato spazio su queste pagine.
Sono state affrontate in modo inevitabilmente non esaustivo e da angolazioni diverse le varie sfaccettature di una tempesta inaspettata e furiosa che ha sconvolto la vita di tutti noi. La società, colpita nella sua totalità, ha dato risposte eterogenee, diverse a seconda delle aree geografiche e delle sue componenti coinvolte. È emersa però la sensazione che tutto è collegato, che la Sanità non può prescindere dall’economia, dalla politica e da valori morali condivisi. Per costruire il mondo di domani un ruolo fondamentale dovrà essere riservato alle relazioni, alla spiritualità e alla fede.
Tra i diversi pilastri che dovranno sorreggere questa nuova costruzione – ha recentemente scritto Papa Francesco – ce ne sono tre: i sogni, la memoria e la preghiera. La vicinanza del Signore donerà le forze per intraprendere un nuovo cammino anche ai più fragili tra di noi, per le strade del sogno, della memoria e della preghiera.
Il tema che mi è stato affidato è suggestivo in quanto partendo da una situazione di crisi sanitaria universale, la pandemia, si proietta verso il futuro con la speranza di individuare strade nuove. Il Covid 19 ha letteralmente desertificato la nostra vita sociale ed ecclesiale. Vorrei provare a dare più nomi che indichino una situazione vissuta a questo deserto che stiamo attraversando, per riuscire ad individuare vie nuove per il futuro.
Il deserto della fragilità
Con velocità imprevedibile, il Covid-19, arrivando dalla Cina ha bussato alle porte di casa e ha spazzato via tante fragili sicurezze. Nel giro di qualche settimana il mondo intero era travolto e devastato dalla presenza di un virus invisibile che varcava le frontiere, incurante delle geografie, culture, colore della pelle, condizione sociale o appartenenza religiosa. Era il deserto.
Dinanzi allo sconvolgimento operato dal contagio, la prima considerazione doverosa è di riflettere sulle false credenze cui si è spesso ancorati. Il contagio è stato un brusco risveglio, un bagno di realismo esistenziale per sfatare i presupposti illusori e fallaci.
La sfida pastorale dettata dal virus suggerisce di evidenziare nella catechesi, nella predicazione e nel dialogo con le persone, la consapevolezza della precarietà dei beni, inclusa la salute e la vita, e di ricordare che tutto è dono prima che diritto, tutto è provvisorio prima che sicuro, tutto è mortale prima che eterno.
Il deserto del panico
Nella sua corsa irrefrenabile il virus si è impossessato delle strade, ha paralizzato le grandi metropoli, sequestrato i teatri e gli stadi, messo in ginocchio le imprese. Il Covid-19 ha impedito ai bambini di giocare nei parchi, ai giovani di ritrovarsi con gli amici, ai maestri di incontrare i loro alunni, agli innamorati di sposarsi, alle chiese di svolgere le funzioni religiose.
Rapidamente il Covid-19 ha diffuso il panico tra gli anziani, sovraccaricato i reparti di terapia intensiva degli ospedali, impedito ai morenti e ai familiari di dirsi addio, colmato le pagine di necrologi, riempito di bare i crematori, sottratto ai morti il diritto di essere sepolti dignitosamente.
Le parole d’ordine, ribadite dai mass-media, erano: «Restate a casa», «Insieme ce la faremo».
Il sentimento onnipresente è la paura, da alcuni avvertita come comprensibile preoccupazione per mantenersi vigili e prudenti, da altri vissuta come ossessione o angoscia paralizzante.
La sfida pastorale è di ricordare, in primis a sé stessi e poi agli altri, che non si può eliminare l’apprensione e la paura, ma occorre imparare a gestirle in maniera costruttiva. L’operatore pastorale, attraverso la sua presenza o le sue parole, cerca di confortare gli smarriti con la promessa di Gesù: «Non abbiate paura, Io sono con voi sempre». La paura si lenisce attraverso la preghiera, la respirazione profonda, la condivisione con qualcuno, il contatto con la natura, l’ascolto della Parola, l’affidamento a Dio.
Il deserto dell’impotenza
L’azione travolgente del virus ha demolito i miti dell’autosufficienza, onnipotenza, produttività e imposto una riflessione sul tema dei limiti, della precarietà, dell’impotenza. Siamo passati dalla medicina dei miracoli alla medicina dei limiti.
Nel frattempo, la gratitudine dei cittadini si rivolge a coloro che, in prima linea (medici, infermieri, virologi, operatori nelle ambulanze…), si adoperano per salvare vite e confortare gli afflitti.
Anche la Chiesa è immersa nello sconfinato mare dell’impotenza e della vulnerabilità. A livello pastorale, questo “segno dei tempi” ha costretto la Chiesa a fare i conti con il suo duplice ruolo di “aiutante e aiutata”, “guaritrice e malata”, “consolatrice e consolata”.
Potremmo parlare di una Chiesa in trincea, costretta a rinunciare al suo tradizionale ruolo di prossimità a servizio dei deboli e dei feriti, per vegliare nel silenzio e nell’oscurità, come gli apostoli nel cenacolo, in attesa della luce. Un’immagine emblematica della “Chiesa dolens” è rappresentata da Papa Francesco che attraversa da solo la piazza San Pietro per pregare ai piedi del crocifisso, in unione con l’umanità ferita. Nella pandemia i pastori hanno recuperato il valore dell’ ”essere con” i feriti, attraverso la comunione spirituale, la paziente attesa, l’affidamento alla grazia invece di dipendere dal “fare”.
Il deserto della solitudine
Lo sconquasso del Covid ha inevitabilmente accresciuto il tasso di solitudine umana, specie nelle Rsa e nei reparti di terapia intensiva, interdetti oltre che ai familiari, anche agli psicologi, agli assistenti sociali, ai cappellani e ai volontari.
Le restrizioni imposte, sempre per prevenire il contagio, hanno privilegiato l’attenzione alla salute biologica, ma messo a soqquadro il bene globale degli anziani e dei morenti, privati del conforto affettivo dei propri cari e del sostegno religioso nei momenti critici.
La doverosa, ma controversa strategia sanitaria, comprensibile per un verso, ha disumanizzato il morire e creato struggenti traumi umani i cui effetti sulla salute si vedranno nel futuro. Si pensi ai lunghi “digiuni affettivi” per anziani e morenti, ai “tanti addii” mai detti del fine vita, ai lutti sospesi dei superstiti.
In questi mesi un fiume di solitudine ha attraversato l’esistenza di tanti nonni, derubati del diritto di vedere e abbracciare i propri nipotini, di vedovi rimasti soli all’improvviso, di giovani privati del contatto con gli amici.
È una solitudine sperimentata anche da medici e infermieri nel dover interpretare accanto agli infermi tanti ruoli (di familiare, psicologo, assistente spirituale), ma sentendosi inadeguati per limiti di tempo, spossatezza, incapacità personali. Solitudine avvertita talvolta anche dai sacerdoti, specie se soli e anziani, per non aver nessuno con cui parlare, nessuno interessato a loro.
Anche per i pastori la sfida basilare è di imparare a star bene con sé stessi, quale condizione per star bene con il mondo esterno. Inoltre, il Covid ha costretto i testimoni della Chiesa a riconciliarsi con la propria povertà, con le limitazioni del proprio intervento pastorale, per affidarsi al potere della grazia, che opera nei meandri misteriosi dei vissuti umani.
Conclusioni
Al termine di questa mia riflessione, mi verrebbe da dire: siamo in cammino nel deserto, non tutto ci è chiaro, talvolta abbiamo le allucinazioni, o vorremmo tornare indietro, come il popolo di Israele a Massa e Meriba.
Io credo invece che non dobbiamo scoraggiarci e come Abramo che per fede partì senza sapere dove andare, come leggiamo nella lettera agli Ebrei, dobbiamo lasciare che lo Spirito ci guidi e sono certo che aprirà una strada nel deserto, nuove vie della pastorale della salute.
Si ringrazia il direttore Alberto Riccadonna de «La Voce e il Tempo» per il consenso alla pubblicazione, Marco Brunetti in La Pastorale della Salute e il post-pandemia, 28 novembre 2021, p. 27
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