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108 Dicembre 2024
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Desistenza terapeutica: l’applicazione nel fine vita Una pratica legata all'accompagnamento alla morte secondo critetri bioetici e di deontologia medica già stabiliti

La Medicina tra attraversando negli ultimi anni una profonda crisi. Da un lato la ricerca di nuovi farmaci e l’utilizzo di tecnologie sempre più sofisticate, dall’altro, la percezione che sia necessaria una nuova rimodulazione dell’agire medico in grado di recuperare una visione olistica della persona. Risuona infatti con sempre maggiore frequenza l’adagio secondo il quale “non tutto ciò che tecnicamente si può fare sia obbligatoriamente fatto”. Emerge in più ambiti la necessità della riappropriazione del limite e della finitudine, la percezione che la cosiddetta medicina miracolistica rischi di sfociare nella futilità e nell’accanimento terapeutico. Tali percorsi di umanizzazione conducono ad una nuova riflessione sul significato della cura e della guarigione con l’obiettivo di creare una nuova relazione tra medici e pazienti, un’alleanza terapeutica che si fondi non solo su basi scientifiche, ma anche e soprattutto su fondamenti deontologici e morali. Sono tematiche di grande attualità che risuonano e vengono approfondite con originalità e coraggio anche in “Destinati alla vita”, ultima pubblicazione di Vincenzo Paglia, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita. In forma analoga, seppur con i dovuti distinguo, questi argomenti sono ripresi da Piero Meineri, medico di grande esperienza con competenze specifiche in cure palliative.

Enrico larghero

Il termine desistere deriva dal latino desistere, che significa fermarsi.  Tra i sinonimi si trovano verbi quali cessare, cedere, rinunciare.  

In campo medico il concetto di desistenza è relativamente recente ed ha trovato il suo spazio in una concezione dell’atto medico non solo focalizzato su diagnosi e terapia, ma che pone al centro la persona nella sua interezza. Non a caso sempre più spesso si parla di umanizzazione della medicina, di un nuovo modo di impostare la relazione medico-paziente, di slow medicine. Peraltro, già all’inizio del XVI secolo, il domenicano Francisco de Vitoria sostenne che un malato va alimentato e idratato solo fino a quando questo non comporti per lui eccessivo sforzo e si spinse a dire che l’uso dei medicinali va programmato tenendo anche conto del dispendio economico che ne deriva. 

Esistono fondamentalmente due modi di operare una desistenza terapeutica. Il primo, di solito e più correttamente chiamato anche deprescrizione, consiste nel sospendere terapie che si sono via via stratificate nel tempo, frutto di ripetute prescrizioni, ma che spesso hanno perso significato e efficacia, o addirittura sono causa di effetti collaterali non trascurabili. 

La vera e propria desistenza tuttavia ha un significato più profondo e complesso e trova la sua più naturale applicazione nell’ambito della medicina palliativa, soprattutto quando rivolta alla vita che va spegnendosi.  Ne esistono varie definizioni. Quella che propongo qui è tratta dal sito internet che si occupa proprio di desistenza terapeutica (www.desistenzaterapeutica.it): “atteggiamento terapeutico con il quale il medico desiste da terapie futili o inutili… La desistenza terapeutica ha la sua base nel concetto di accompagnamento alla morte secondo criteri bioetici e di deontologia medica già stabiliti.”

Dunque, cosa significa desistere? O meglio, cosa non è desistenza? Non è eutanasia e neppure suicidio assistito o qualunque altra intenzione di dare la morte. Questo concetto è molto importante e va ribadito con chiarezza. Desistere non significa abbandonare. La persona la cui esistenza volge al termine deve essere sempre assistita al meglio, con l’obiettivo di eliminare o almeno ridurre il più possibile ogni forma di sofferenza. Questo il ruolo della medicina palliativa. Tuttavia esiste il rischio di agire secondo il cosiddetto accanimento terapeutico, mettendo in opera qualunque mezzo terapeutico che possa ritardare artificialmente la morte, senza recare un reale beneficio per il malato. Ma quand’è che si sconfina nell’accanimento terapeutico? Il cardine è il rapporto tra proporzionalità/sproporzionalità delle cure e ordinarietà/straordinarietà di esse. Mai si deve sospendere la terapia ordinaria, ma si può desistere sospendendo le terapie sproporzionate e straordinarie. Sono sproporzionate le cure che non arrecano nessuna ragionevole speranza di miglioramento al malato; sono considerate straordinarie le cure gravate da eccessivi oneri fisici per il paziente stesso, quelle che comportano un dispendio economico non giustificabile e si caratterizzano per la difficoltà nella loro messa in pratica. 

Il mondo cattolico si è più volte espresso in modo netto e inequivocabile In questo senso. Ad esempio il Catechismo ai n. 2278 e 2279 dice che l’interruzione di cure considerate straordinarie e sproporzionate può essere legittima, a patto che vi sia un assenso chiaro espresso dal paziente stesso o dagli aventi diritto legale, qualora l’interessato non sia in grado di esprimersi. E prosegue:  mai si deve interrompere la terapia ordinaria, tanto più se volta a rendere tollerabile la sofferenza (ad esempio con i farmaci analgesici  o contro le difficoltà respiratorie), come opportunamente fa la medicina palliativa. La Samaritanus Bonus, lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede (2020) al paragrafo 2 del cap. V afferma che “nell’imminenza di una morte inevitabile… è lecito in scienza e coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi”. Poco dopo: “va ribadito che la rinuncia a mezzi straordinari e/o sproporzionati «non equivale al suicidio o all’eutanasia; esprime piuttosto l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte»”, come già indicato da Giovanni Paolo II (Evangelium Vitae, 1995).

Torno ai sinonimi del verbo desistere. Tra essi si trovano verbi dal sapore militaresco: arrendersi, deporre (le armi). Ecco, esattamente questo non è desistenza. Non si tratta di una resa, semmai di un’accettazione auspicabilmente serena dell’ineluttabilità degli eventi. Non si tratta di deporre le armi, ma di rinunciare ad alcune di esse per imbracciarne altre, più efficaci e consone alla condizione della persona malata. Non a caso, un noto adagio della medicina palliativa recita: quando non c’è più nulla da fare, c’è ancora molto da fare.

Piero Meineri

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